A distanza di due anni dalle storiche elezioni democratiche, Wukan è tornato alle urne in una giornata di pioggia torrenziale, dopo settimane di timori e tintinnio di manette per i leader che nel 2012 avevano trainato il villaggio verso la democrazia. A frenare l’affluenza ai seggi, in calo rispetto alla scorsa volta, sembra non esserci stato soltanto il maltempo. Riconfermati Lin Zuluan, uno dei leader della sollevazione democratica, e quattro dei sette membri della precedente giunta, molti dubbi offuscano la reputazione della nuova amministrazione cittadina. E c’è anche chi parla di brogli.
Nel settembre 2011 Wukan, villaggio di 20mila anime situato nell’industriosa provincia meridionale del Guangdong, era sceso in strada per protestare contro le requisizioni forzate dei terreni rivenduti agli sviluppatori locali dal Governo di allora. Per dieci giorni gli abitanti si erano barricati dentro dopo aver fronteggiato le forze dell’ordine in un braccio di ferro terminato soltanto quattro mesi dopo con la promessa delle autorità di approfondire il caso. L’insurrezione era poi rientrata grazie all’intervento del Segretario del Partito provinciale, Wang Yang, che oggi ricopre la carica di Vicepremier dopo -si dice- essere stato escluso dalla corsa verso il Comitato Permanente del Politburo (la stanza dei bottoni della politica cinese) proprio a causa della sua linea eccessivamente liberale.
In base all’accordo stretto tra rivoltosi e Governo locale, l’anno successivo l’80% dei votanti qualificati ha espresso la propria preferenza nelle prime elezioni veramente ‘libere’ della storia cinese, a scrutinio segreto e monitorate da comuni cittadini. Infatti, se da decenni i cinesi vengono regolarmente chiamati alle urne per scegliere i propri rappresentanti di villaggio, tuttavia la maggior parte delle volte l’ingerenza dei funzionari finisce per inficiare il risultato finale delle votazioni. Nella Cina del regime a Partito unico quella di Wukan era sembrata una rara virata in senso democratico e per giunta avvallata da Pechino. L’esperimento ebbe tanto successo da fare scuola anche nelle vicinanze, spingendo qualcuno a parlare di un vero e proprio ‘modello Wukan‘ replicabile in altre aree del Paese.
Tutto bene fino a quando il rimpasto al vertice sancito dal Diciottesimo Congresso Nazionale del Partito non ha finito per ridisegnare la geometria del potere. Via Wang Yang dal Guangdong, dentro Hu Chunhua, pupillo del Presidente in pensione Hu Jintao e dato già come possibile successore di Xi Jinping. Pare che da quando la gestione è passata sotto Hu le cose per il piccolo villaggio di pescatori si siano messe male. Stando a quanto riportato dal ‘Nanfang Daily’, lo scorso novembre il nuovo Segretario avrebbe ufficialmente auspicato un maggior coinvolgimento del Partito «nella democrazia grass-roots di Wukan» attraverso l’elezioni di funzionari provinciali nel comitato di villaggio. Una prospettiva che ha subito messo in allarme i cittadini preoccupati per la sopravvivenza della loro indipendenza. «Quello di Wukan è stato un miracolo, ed è avvenuto mentre la Cina era scossa da lotte di potere» commenta l’esperto di cose cinesi Xu Zhiyuan, alludendo agli intrighi di palazzo che hanno caratterizzato il 2012 con tanto di epurazione dell’astro nascente Bo Xilai,«Ora, però, il Governo centrale si è di nuovo stabilizzato».
Negli ultimi mesi, le voci sul ritorno di uno dei quadri della vecchia guardia e l’arresto per corruzione di due leader della dirigenza democratica avevano dato l’impressione che Pechino stesse cercando di riassumere il controllo nella cittadina del sud. A gennaio Zhuang Liehong, altro nome noto delle proteste del 2011, è fuggito negli Stati Uniti temendo di fare la stessa fine. L’agenzia di stampa ufficiale ‘Xinhua’ ha recentemente ricordato come dopo le elezioni del 2012 diversi ex funzionari di Wukan sono stati espulsi dal Partito per aver manipolato le votazioni ed essersi intascati tangenti. E proprio all’apertura delle urne un articolo dal titolo eloquente ‘Scandal-dogged Wukan begins election of new leadership’, ripreso dall’ufficialissimo ‘People’s Daily’ e dall’oltranzista ‘Global Times’, rimarcava il malcostume diffuso anche nel villaggio democratico in un momento in cui la campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping continua a sferzare senza pietà tutti i livelli della gerarchia del potere.
Il ‘modello Wukan’ ha cominciato a scricchiolare circa un anno fa, quando il ‘Financial Times’ fu tra i primi a dare voce alle lamentele dei cittadini nei confronti del nuovo capo di villaggio Lin Zuluan, ritenuto incapace di soddisfare le richieste del popolo e sospettato di macchinare un ritorno della vecchia cricca di boss locali («Darò al vecchio comitato di villaggio un ruolo maggiore, non dobbiamo estromettere gli ex funzionari; se correggono i loro errori meritano un’altra possibilità», ha detto). Dopo soltanto un anno la democrazia sembrava così essere già morta. O forse non era mai nata.
Tutto è cominciato con l’espropriazione di 430 ettari di terra, sottratta illegalmente ai contadini e rivenduta agli imprenditori edili. Una pratica assolutamente ricorrente in Cina dove le autorità provinciali cercano, così facendo, di arrotondare il proprio budget e ripagare i debiti contratti. Pare che negli ultimi decenni di urbanizzazione forsennata lo schema abbia fruttato alle autorità 225 miliardi di euro. Nell’ottica estremamente pragmatica dei cinesi, la protesta del 2011 sarebbe dovuta servire a riportare indietro i terreni confiscati ingiustamente; e questo era quanto gli elettori si aspettavano dai leader democraticamente eletti. Sta di fatto, però, che finora sono stati restituiti soltanto 333 ettari di terra, sebbene, come puntualizzano i media di Stato, si sia provvisto allo «stanziamento di milioni di yuan per migliorare la vita dei cittadini».
Venuta meno la speranza di rimettere le mani sulla terra, anche l’afflato democratico si è via via affievolito lasciando posto al malumore popolare. E ormai sono in molti a ritenere che gli abitanti del villaggio siano poco interessati alla democrazia se questa non si concretizza in un ritorno economico. «Il problema di Wukan sta nella capitalizzazione dei terreni, tuttavia i media hanno fatto passare le proteste per un movimento democratico» commenta un professore della Fudan University di Shanghai, citato dal ‘Wall Street Journal’. «Affinché abbiano successo, gli sforzi economici, quando sono bottom-up, necessitano comunque il supporto del Governo centrale, mentre la riforma politica deve essere necessariamente messa in pratica dall’alto verso il basso» spiega un commentatore cinese. Ma c’è anche chi, come l’avvocato per la difesa dei diritti umani Sui Muqing, riconosce la naturale tortuosità del sentiero che porta alle riforme, costellato di ostacoli, eppure sempre preferibile «a un Governo esercitato con la canna del fucile».
“Da questo punto di vista Wukan non fa eccezione, data la frequenza con la quale gli abitanti dei villaggi sparsi per la Cina entrano in conflitto con il Governo locale e l’élite ad esso collegate nella speranza di riottenere il diritto alla terra. E’ questo sintomo di una coscienza democratica matura? No. Ma è comunque un impulso democratico,” racconta a ‘L’Indro’ Perry Link, professore emerito di studi sull’Asia Orientale presso l’Università di Princeton, nonché tra i traduttori degli ‘Tian’anmen Papers’, una selezione di controversi documenti segreti del Partito comunista cinese sulle proteste del 1989. “Non ci dimentichiamo che gli occidentali quando rivendicano i loro diritti democratici lo fanno principalmente per interessi economici, non certo per fare della filosofia politica”.
Per molto tempo in Cina le requisizioni forzate hanno rappresentato il principale motivo di frizioni tra cittadini e autorità, costituendo il 65% dei 180mila ‘incidenti di massa’ registrati annualmente, secondo stime ufficiose. Le cose sono cominciate a cambiare quando, di fronte all’allarme inquinamento, le proteste ‘verdi’ hanno riportato un’impennata con 927 casi registrati dal Ministero della Protezione Ambientale tra il 2005 e il 2012. Proprio nelle stesse ore in cui Wukan nominava i suoi rappresentanti, la capitale provinciale Guangzhou manifestava il proprio sdegno per la brutalità con la quale le forze dell’ordine domenica hanno messo a tacere le proteste per la chiusura di una fabbrica chimica nella vicina cittadina di Maoming.
Secondo il giornalista cinese, Liu Jianqiang, le manifestazioni ambientaliste, che vedono in prima linea la giovane classe media cinese, sarebbero da considerarsi a tutti gli effetti un movimento per la democrazia. Più facilmente tollerate dalle autorità in quanto scevre da implicazioni politiche e proprio per questo in grado di fare da ponte tra funzionari, gente comune e alte sfere del Partito. Ma anche capaci di esercitare un impatto più esteso rispetto alle espropriazioni forzate o alle dispute sul lavoro. Eppure anche qui si tende a mettere in discussione il raggiungimento di una consapevolezza ecologica, sottolineando come si tratti piuttosto di un alzare la voce privo di ‘tessuto connettivo’, dove nella maggior parte dei casi il villaggio ‘tal dei tali’ si batte per allontanare la fabbrica ‘tal dei tali’, e poi la storia finisce lì.
“Io non lo definirei un impulso ‘immaturito'”, prosegue Link, “Quasi sempre l’affermazione dei propri diritti all’interno di un sistema democratico deriva da un sentimento egoistico. La coscienza verde, che dovrebbe spingere a favore di un obiettivo collettivo come la salute dell’ambiente, è una rarità anche negli Stati Uniti e in Italia. Sarebbe ingiusto definire la democrazia di Wukan ‘arretrata’ soltanto per questo motivo”.