Forse la curiosità non uccise il gatto, ma, nel mio caso, mi trascina ad impelagarmi nel labirinto della cultura persino più di quanto mi consenta il mio tempo.
Fortuna che -bicchiere mezzo pieno- la mia insonnia recidivante mi dà ore in surplus da riempire con l’amata lettura e il mio cordone ombelicale campano mi spinge a leggere con entusiasmo opere di corregionali che ho anche il privilegio di conoscere personalmente.
Il mio week end semi-lungo -nel senso che venerdì, al lavoro, ci son andata- mi ha regalato il godimento intellettuale di due ‘scoperte’, che mi fanno sentire davvero un’esploratrice dello scibile.
Due libri; anzi, per meglio dire, un saggio-intervista e un racconto mi hanno fatto compagnia nei giorni in cui tanti altri inseguivano l’imperativo categorico consumistico di viaggi e scampagnate.
Io, invece, ricaricavo le pile della socievolezza, rifugiandomi nella mia turris eburnea attraverso le sollecitazioni della lettura. Anzi, sabato, mi era punta vaghezza di andare al cinema, a vedere ‘Songh’e Napule’ (e quale, se no??) dei Manetti Bros, ma la beffarda concomitanza fra la mia idea e la finale di Coppa Italia Napoli – Fiorentina (e ari-quale, se no??) mi ha sconsigliato di mettere in naso fuori casa: l’Olimpico a un tiro di schioppo rendeva l’uso dei mezzi pubblici alquanto problematico.
Torniamo, dunque, ai miei amici su carta stampata, che mi hanno fatto più compagnia di un essere umano, perché ho ormai imparato che sono più affidabili.
Il mio tour de force da lettrice ‘forte’ è cominciato con un saggio-intervista che mette insieme un intervistatore torinese, il poeta, letterato e giornalista Sandro Gros Pietro e un giurista e politologo, il vicepresidente della Corte Costituzionale, Luigi Mazzella, salernitano come alcune delle mie radici (altre sono provincial-salernitane, dunque un po’ ibride).
Il titolo mi aveva incuriosita perché siamo in piena temperie europea, fra le elezioni del 25 maggio e le ventate di euroscetticismo ed eurocriticismo spinte da M5S e Lega: ‘Eurocrash – Cinquanta ipotesi d’incerto futuro’ (Armando Curcio Editore).
Il libro è poderoso e ponderoso e chi lo affronta deve essere aperto ad apprezzarne il messaggio culturale che rifugge dai luoghi comuni o dagli ipse dixit, ma propone al lettore un esercizio ormai desueto: far pensare con la propria testa.
“Io faccio un ragionamento più che altro filosofico” – mi ha detto Luigi Mazzella, quando ho voluto affrontare con lui i contenuti del saggio, “rifuggo da chi si appiattisce sulle verità rivelate e ne diventa partigiano e acritico schiavo“.
Mi è sembrato un bell’obiettivo, specie perché anch’io sono una che non ama il coro in cui si confondono le voci. Per una ragione più che altro estetica, amo l’autonomia del pensiero.
Ed è per questo che, sulle sorti dell’Europa unita, dove tutti stanno a stracciarsi le vesti fra i pro e i contro, in particolare sui vincoli finanziari e la moneta unica, io considero completamente silenziato il tema principe: la politica europea che viene divisa come i panni di Cristo fra i soldati, privandola di una prodromica visione d’insieme.
E’ su tale circostanza che Mazzella richiama l’attenzione del lettore, per poi fare un’analisi ampia e argomentata sul caso Italia, verso il quale, come dice la casa editrice nella nota di accompagnamento del volume, l’intervistato nutre un pessi-ottimismo.
E’ un termine audace, che, probabilmente, sta ad indicare uno stato d’animo di sospensione del giudizio, di fronte alle iniziative che saranno prese dal nostro Governo per dare al Paese la giusta spinta europeista.
Il messaggio di Mazzella in qualche modo riattualizza il celebre appello di Calatafimi, attribuito a Giuseppe Garibaldi, ‘Qui o si fa l’Italia o si muore’ in ‘Qui o si fa l’Italia (da convinti europeisti) – ma anche l’Europa da convinti europeisti, aggiungerei io – o si muore’.
Dopo aver letto il libro, mi accingerò, oggi pomeriggio, ad assisterne alla presentazione in anteprima, giacché in scena al Piccolo Eliseo vi è davvero un panel assai autorevole composto da Livia Azzariti, conduttrice televisiva; Domenico De Masi, sociologo del lavoro; Giancarlo Leone, vicedirettore generale RAI e Claudio Strinati, storico dell’arte, moderati dal giornalista de’ ‘La 7‘ Andrea Pancani.
Passo ora a parlarvi del secondo ‘fiore’ intellettuale del mio semi-week end lungo. E’ un racconto ed una logorroica come me è perfettamente consapevole che scrivere un racconto ha difficoltà assai maggiori che spaziare in un romanzo.
Ancora più che nella narrativa a torto considerata ‘maggiore’ ogni parola cesella pagine e pagine sottintese.
Francesco Palmieri, Collega dell’ ‘Agenzia Giornalistica Italia‘, trasferisce dalla professione la santa sintesi che deve praticare quotidianamente.
Non so resistere alla digressione: io invidio tutti i giornalisti d’agenzia (insomma, invidio quelli bravi) perché hanno tale straordinaria capacità e grande rigore espressivo.
In più, troppo spesso si vedono depredati da Colleghi degli altri media che li copiano tel quel senza citarli o avviliti dalla formuletta ‘fonti di agenzia’; ci si mette, poi, anche il semianonimato della sigla in fondo al pezzo (a meno che non si tratti di un vero e proprio servizio) che toglie la soddisfazione – egocentrica vanità quanto volete voi – di veder riconosciuta la propria identità.
Ecco, mi stavo perdendo nei soliti rivoli dei miei pensieri e non è giusto far smarrire il filo anche a voi.
Torniamo a Francesco Palmieri, che ha dato vita a un piccolo gioiello, il racconto ‘La camorrista’, cameo di vita vissuta napoletana da leggere come un complesso di scatole cinesi, perché dentro ci trovate un ragazzo, una famiglia, un quartiere, una città, un popolo e le sue inquietudini.
Interessante anche la genesi di questo racconto, pubblicato in ebook da Mondadori: esso nasce da una poesia di Carlo Carabba, ‘Discendenza’ e divenne prima reading teatrale e poi racconto.
Non basta: un musicista veneto, Giorgio Susana, chiese a Francesco Palmieri un testo in napoletano per una sua canzone -che non lo sappia Zaia, altrimenti gli toglie la cittadinanza veneta!- e lui ne scrisse uno un vernacolo proprio ispirandosi ai fatti narrati nel suo racconto, che venne poi interpretato dalla cantante Elvira Cadorin (un cognome che ne attesta l’origine… dei Quartieri Spagnoli!). Confesso che non mi è mai giunta notizia di un intreccio tanto complesso e fecondo di declinazioni narrative e mi ha molto colpito la capacità dell’Autore di proporre un tale bouquet di sollecitazioni intellettuali intorno ad una vicenda che, dalle scabre righe in cronaca, apparirebbe come un caso di ordinaria delinquenza, presieduto da una matriarca.
Con un colpo di scena finale, fulmineo e incisivo come uno staffile, che corona l’intera vicenda.