Italia, 2015. In un giorno, secondo fonti attendibili, sono in media 20 milioni gli italiani che visitano Facebook, il social network più popoloso del pianeta (erano 17 milioni ad agosto 2013 e 15 milioni ad aprile 2013).
Gli strumenti e gli operatori sempre più specializzati segnalano 28 milioni di account potenziali. Il dato che conta, però, riguarda il numero di utenti attivi al mese, che sarebbero 25 milioni, in crescita di un milione rispetto ad un anno fa.
Una massa di persone mai raggiunta in Italia da un servizio web.
Il grafico sull’utilizzo per fasce d’età appare come una torta divisa in fette, le cui dimensioni non susciterebbero proteste e litigi, in una festa di compleanno: dal 9,4 dei giovanissimi al 21,7 della zona ‘addicted’, che è quella tra i 35 e i 46 anni.
Dunque, si può oggi rispedire al mittente con una certa ragionevolezza l’obiezione scettica di chi ha fin qui sostenuto che i social network, e Facebook in particolare, non siano un termometro credibile del mood popolare.
Anzi, direi che sta diventando sempre più vera un’affermazione dello scrivente, datata un paio d’anni fa, secondo la quale la maggioranza silenziosa, come veniva definita in era pre-internettiana la grande massa, un po’ amorfa e generalmente ‘benpensante’, di cittadini che decideva di fatto l’esito delle elezioni politiche, aveva trovato la sua voce.
Ma attenzione. Se negli anni tra i sessanta e gli ottanta alla maggioranza silenziosa era relativamente facile associare un orientamento centrista, pigramente accodato alle posizioni governative, ben più ardua risulta l’interpretazione politica del cosiddetto ‘popolo del web‘.
Il Movimento a 5 Stelle di Beppe Grillo, forza politica tra le più votate, fonda la sua idea di società nuova su un modello che definisce ‘democrazia diretta’: i politici del futuro non sarebbero altro che passivi interpreti di una volontà popolare espressa da pareri telematici.
A parte l’orrore spontaneo che personalmente provo verso un simile approccio alla politica, che evoca nel migliore dei casi scenari orwelliani, non posso fare a meno di pensare a Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich hitleriano, perno essenziale del consenso nazista e di ciò che ne è seguito. Rabbrividisco al solo pensiero che un nuovo Goebbels, e ce n’è a bizzeffe pronti a entrare in scena, possa disporre di strumenti tecnologici che negli anni trenta erano pura fantascienza.
C’è poi da notare il notevole livello di distorsione comunicativa indotto dal linguaggio perentorio, potenzialmente poco ragionato, utilizzato dagli utenti in rete.
Chi frequenta i social network ha esperienza diretta dell’incredibile facilità di fraintendimento che il mezzo comporta, per sua natura. Nascono amicizie, simpatie, amori destinati a bruciarsi in pochi giorni, o addirittura nei pochi secondi di quelli che, non a caso, in gergo web si chiamano ‘flame’: furibondi litigi, fiamme di cui sembra di avvertire fisicamente il crepitare sinistro, che mandano in fumo mesi di ‘like‘, faccine sorridenti e reciproci apprezzamenti.
Twitter, il grande rivale di Facebook, costringe addirittura l’espressione di un qualsiasi pensiero in 140 caratteri tipografici, limitando al massimo dialogo e contraddittorio. Il trionfo della solitudine narcisista, l’autoreferenzialità eletta a stile di vita.
Conclusioni? Il web è materia da maneggiare con estrema cura. La lettura dei social ci restituisce, a prima vista, l’immagine di un’ Italia di cani rabbiosi, pazientemente coltivata da agitatori senza scrupoli, esperti nell’arte di ricavarne il peggio. Anche perché è cosa facile e redditizia, per comunicatori corredati di fondamentali tecnici e del necessario cinismo. Ma gli umori del popolo sono per natura mutevoli e, almeno finora, regolati in maggioranza dalla realtà dei fatti concreti.
Nel segreto della cabina elettorale, in fondo, la coscienza ti vede e il web no.