La crisi in Venezuela è da tempo protagonista su molte prime pagine internazionali. Gli scontri del 31 aprile, guidati dal Presidente ad interim, Juan Guaidó, si sono risolti in una risposta militare e risoluta del Presidente chavista, Nicolás Maduro. Quella che Guaidó definisce ‘Operazione Libertà’ rischia di inasprire lo scontro politico, molti osservatori sono preoccupati dall’ipotesi di una guerra civile. In questa partita a scacchi tra chavismo e opposizione democratica, tra Maduro e Guaidó, quali sono le pedine che favoriscono uno e l’altro?
La Rivoluzione bolivariana, lanciata da Hugo Chávez nel 1998, viene definita da Ugo Tramballi, in un nostro articolo di febbraio, come la risposta, ma non la soluzione, a “furti clamorosi fatti dalla borghesia venezuelana negli anni precedenti, in un Paese ricchissimo di petrolio”. Di fatto, secondo dati riportati dalla CIA, il Venezuela siede sulla prima riserva mondiale di greggio, quantificabile in 300 miliardi e 900 milioni di barili – segue l’Arabia Saudita con 266 miliardi e il Canada con quasi 170 miliardi. Con Chávez, la compagnia petrolifera, Petróleos de Venezuela (PDVSA), è stata nazionalizzata, ma non ha saputo spesso evitare scandali di corruzione ai danni della popolazione – ora, più che mai, alla fame.
La PDVSA stima che sotto il Venezuela siano presenti 80 miliardi di barili di greggio – numeri molto lontani da quelli riportati in precedenza. La compagnia petrolifera venezuelana è, di fatto, in mano agli alti ufficiali dell’Esercito bolivariano: gestione che lascia spesso a desiderare e lascia spesso spazio ad interesse di parte. Dietro il mondo politico del chavismo si scorgono trame di interessi personali e soldi, che tengono saldi i membri dell’Alto Comando militare delle Forze armate del Venezuela al regime di Maduro. Il Cártel de los Soles è la riprova di questo: molti ufficiali dell’Arma bolivariana sono immischiati nelle tratte internazionali di narcotraffico.
L’esercito è fondamentale nella questione venezuelana. Infatti, in questi giorni, Maduro ha annunciato, in abiti militari, «una marcia militare insieme ai sempre degni e leali ufficiali delle forze armate. Stiamo combattendo per la nostra dignità, per il diritto all’esistenza della nostra Repubblica». La controparte, invece, lancia un appello a «manifestare pacificamente» davanti alle caserme, questo sabato, per chiedere ai militari di abbandonare il Presidente Maduro. Se le rivolte di fine aprile si sono verificate è perché alcune fonti autorevoli, vicine al regime di Maduro e agli Stati che lo supportano, davano per ufficiale la fuga di Maduro in Turchia: Guaidó è stato, forse, tratto in inganno, ma la sua battaglia non finisce qui.
Nella crisi interna i messaggi delle due parti si susseguono. Maduro dice che non si arrenderà mai alle «forze imperialiste» e che il Governo ha risposto «con nervi d’acciaio, massima serenità e azione efficace» contro quella che è stato, a suo parere, un tentativo di creare disordini tali da giustificare un intervento straniero. Guaidó, invece, invita i venezuelani a scendere in piazza per la «fase definitiva dell’Operazione Libertà», aggiungendo che Maduro «non gode del rispetto delle Forze armate» e che lo stesso «aveva tutto pronto per andarsene, e che sono state forze straniere che lo hanno obbligato a restare». Sono stati indetti scioperi dal Presidente ad interim per tutta la settimana, verso uno sciopero generale, con l’obiettivo di colpire il regime bolivariano.
Intanto, la comunità internazionale discute animatamente sul futuro di Caracas. Il Presidente statunitense, Donald Trump, minaccia Cuba per il sostegno a Maduro: «Se le truppe e le milizie cubane non cesseranno immediatamente le operazioni militare e di altro genere allo scopo di causare morte e la distruzione della Costituzione venezuelana, imporremo un embargo totale sull’isola di Cuba, insieme a più sanzioni». Il Segretario di Stato, Mike Pompeo, rincara la dose affermano possibile un intervento militare in Venezuela: «Se necessario gli Stati Uniti lo faranno, anche se preferirebbero la transizione pacifica».
La Russia si muove tramite il suo Ministro degli Esteri, Sergey Lavrov. In una conversazione telefonica con Mike Pompeo, Lavrov aggera che «l’ingerenza statunitense negli affari interni del Venezuela» è una violazione del diritto internazionale, mettendolo in guardia sul fatto che ulteriori passi «aggressivi» di Washington comporterebbero «conseguenze gravi». In ogni caso, Stati Uniti e Russia hanno concordato di continuare i contatti sul Venezuela, pur mantenendo posizioni incompatibili.
La Spagna si inserisce come nuovo attore di rilievo nella crisi venezuelana. Dopo la legittimazione di Guaidó da parte del premier Pedro Sánchez, dopo il viaggio dell’ex premier, José Luis Rodríguez Zapatero in visita a Maduro, ora la diplomazia spagnola entra nuovamente nelle discussioni. L’Ambasciata spagnola, con sede a Caracas, ha deciso di concedere ospitalità a Leopoldo Lopez, attivista e politico venezuelano opposto a Maduro, e la sua famiglia, rifiutandosi di «consegnare Lopez a Maduro». “El Pais” riporta le parole del Ministro degli Esteri spagnolo, Josep Borrell: la sede diplomatica a Caracas non diventerà «un centro per fare attivismo politico».
Insomma, tra le questioni interne legate ad economia, esercito e petrolio, tra quelle legate ad equilibri internazionali e rapporti di forza, i due Presidenti venezuelani continuano a lottare. Per capire che possibilità ha Juan Guaidó di portare a termine la sua “Operazione Libertà”, abbiamo intervistato Giorgio Tinelli, docente dell’Università di Bologna, sede di Buenos Aires.
Che tipo di sicurezza ha portato Juan Guaidó a compiere la ‘tappa finale’ della ‘operazione libertà’, che molti definiscono un tentato golpe?
La sicurezza di Juan Guaidó non è poi una sicurezza così fondata, la situazione venezuelana non è chiara. L’opposizione è molto frammentata, ma trova un elemento di unità nel voler abbattere il regime di Nicolás Maduro, pur non dando prospettive per il dopo-Maduro. Guaidó ha perfettamente coscienza che il chavismo, nell’epoca di Maduro, ha perso consensi, sia nella popolazione che nell’Esercito – che è un attore chiave in questa vicenda. Maduro non ha lo stesso carisma di Hugo Chavez, né la stessa capacità proattiva, né lo stesso appeal dal punto di vista elettorale e di leadership all’interno del movimento bolivariano. Juan Guaidó è consapevole di questa occasione storica, anche coadiuvata da un recente consenso a livello internazionale. Chavez aveva l’appoggio di molti Stati latinoamericani in cui governavano varie tipologie di sinistra – Argentina, Brasile, Perù, Ecuador e Bolivia – e di altri Stati a livello internazionale. Oggi, invece, Juan Guaidó può contare sull’appoggio aperto dell’Amministrazione Trump, ma anche di quello dell’Unione Europea e del Gruppo di Lima.
Il settore petrolifero ha un ruolo importante nell’economia venezuelana e nei suoi equilibri politici: Juan Guaidó può servirsene per portare avanti la sua ‘operazione libertà’?
Hugo Chavez non aveva contemplato l’ipotesi di diversificare la produzione del Paese, impostata quasi esclusivamente sullo sfruttamento del greggio. L’estrazione petrolifera rimane vitale per il Venezuela: addirittura, lo è più di quanto lo fosse ai tempi del Patto di Punto Fijo (31 ottobre 1958), quando Azione Democratica e COPEI – Partito Social Cristiano si accordarono per alternarsi al Governo. Con la rivoluzione bolivariana, la PDVSA è stata completamente nazionalizzata. Ad oggi, la PDVSA è completamente controllata dall’esercito: i militari mantengono posizioni fondamentali nel panorama politico venezuelano, ma anche in quello economico-finanziario. Per questo motivo è difficile a pensare che i ranghi più alti dell’esercito si possano mai schierare contro Nicolás Maduro. Il ‘Venezuela saudita’ produce molto meno greggio oggi perché la PDVSA è evidentemente gestita in maniera poco efficiente. L’economia petrolifera venezuelana risente, inoltre, del blocco imposto dagli Stati Uniti, che sta diventando ‘secondario’ – colpisce agenti esterni che collaborano con Maduro, come nel caso di Cuba. Si cerca di fare ‘terra bruciata’ intorno alla possibilità del Governo chavista di intraprendere una contro-offensiva, anche dal punto di vista economico e finanziario nella gestione dell’enorme settore dell’estrazione petrolifera.
La compagnia aurifera venezuelana, COMIMPEG, controllata dai militari, è coperta da scandali di corruzione ed illegalità. Quanto incide il business illegale sulla stabilità del Governo Maduro?
La crisi politica ed economica del Venezuela ha un attore principale: l’esercito. Ci sono molti militari di alto rango che sono immischiati in scandali di corruzione, di controllo il traffico internazionale di droga: sarebbe il caso del Cartello dei soli (Cártel de los Soles), ovvero un’organizzazione diretta da membri dell’Alto Comando militare delle Forze armate del Venezuela che controlla le tratte di narcotraffico dalla Colombia verso gli Stati Uniti e, tramite la rotta africana, verso l’Europa. Questo cartello ha relazioni sia con cartelli messicani sia con organizzazioni criminali colombiane. Nel caso il Governo Maduro cada, questi ufficiali potrebbero essere giudicati per queste attività al limite della legalità o proprio illegali: questi ufficiali hanno tutto da perdere nel caso l’azione di Juan Guaidó abbia successo. Questa situazione legata al narcotraffico, da una parte è una sicurezza per il Governo Maduro, ma dall’altra parte, la popolazione è sempre più informate sugli scandali di corruzione e illegalità nell’Esercito – anche se i media nazionali manipolano spesso le informazioni. Per queste ragioni, il chavismo potrebbe implodere, lasciando, però, impossibile prevedere lo scenario successivo. Le attività dell’Esercito in campo economico e finanziario – oltre che nel narcotraffico – potrebbero essere decisive nel momento della resa dei conti.
Con le eventuali dimissioni di Nicolás Maduro, il potere rimarrebbe in mano all’Esercito o andrebbe nelle mani di Juan Guaidó?
La questione venezuelana non deve essere ricondotta ad uno scontro personale tra Maduro e Guaidó. L’opposizione a Maduro continua ad essere divisa – lo era, anche, nel 2014 quando negli scontri cittadini morirono 34 persone, nel 2002 durante quello che fu un vero e proprio tentativo di golpe ai danni di Chavez. Guaidó, a livello progettuale, parla solo di ridare la serenità e la calma al Venezuela, lanciando così un messaggio assolutamente nebbioso per il futuro. La figura di Guaidó rappresenta delle forze con obiettivi e background politici ed ideologici che sono completamente diversi: l’opposizione potrebbe implodere per questo motivo. La crisi venezuelana potrebbe concludersi con un negoziato per porre fine al conflitto tra le parti, o l’implosione del chavismo oppure dell’opposizione, potrebbe anche risolversi con un colpo di Stato o un intervento esterno.
Gli Stati Uniti potrebbe intervenire militarmente?
Un intervento degli Stati Uniti è molto improbabile. L’esercito venezuelano è molto ben equipaggiato, ha molti effettivi, è appoggiato dalla Russia e ha consiglieri cubani a livello militare. Per gli Stati Uniti non sarebbe una guerra lampo – come accadde a Panama con Manuel Noriega -, ma potrebbe diventare un nuovo Vietnam. Piuttosto, è molto più probabile che l’Amministrazione Trump conduca una ‘guerra a bassa intensità’, armando o finanziando dei gruppi di guerriglia. In ogni caso, l’intervento militare statunitense risulterebbe molto problematico. Le dichiarazioni del Segretario di Stato degli Stati Uniti, Mike Pompeo, circa la possibilità di un intervento militare sono assolutamente dannose: una minaccia di questo genere accresce l’effetto ‘uniti intorno alla bandiera’ (Rally ‘round the flag), di fatto alimentando la retorica dell’anti-imperialismo, sulla quale si basa il populismo militare bolivariano. Le minacce degli Stati Uniti riuniscono intorno alla bandiera di difesa della sovranità nazionale anche settori della popolazione che si stavano discostando dal Governo Maduro, per via della repressione, della mancanza di medicine e cibo, della crisi economica, della corruzione o dell’insipienza delle manovre economiche attuate.
Dopo la rivolta fallita, Juan Guaidó continua la sua battaglia e indice uno sciopero generale. In cosa può sperare il leader dell’opposizione per sovvertire definitivamente gli equilibri?
L’insurrezione del 31 aprile è stata definita ‘golpe’ da Maduro, definizione che rientra nella sua tipica retorica. Degli ufficiali di medio e basso rango sono stati solidali a Guaidó, ma non hanno dato il loro appoggio ufficiale per via della risposta forte di Maduro. Il tentativo di Guaidó è fallito, o almeno non ha sortito gli effetti desiderati. Leopoldo Lopez rimane nell’Ambasciata spagnola perché ha paura delle ritorsioni personali che prepara Maduro. Intanto, Guaidó continua questa partita a scacchi. Maduro ha tutto gli interessi nel guadagnare tempo per costruire nuove rotte commerciali della PDVSA, ovvero passare dagli Stati Uniti e dagli storici acquirenti a Cina, Turchia e altri Paesi. Il passaggio, però, è complicato: il petrolio venezuelano ha delle caratteristiche tali da richiedere una lavorazione con macchinari e tecnologie non comuni a tutti i Paesi importatori. Guaidó, invece, ha un ‘breve termine’ (corto plazo) per la sua azione e quella dell’opposizione: nel lungo termine, si potrebbe scollare quella pulsione collettiva nel voler abbattere il regime di Maduro. Guaidó deve cercare di far ‘esplodere’ la rabbia popolare, determinata dalla penuria di ogni genere di prima necessità: ogni giorno muoiono centinaia di persone per mancanza di farmaci e si continuano a registrare blackouts totali dell’elettricità. Esiste la possibilità di un bagno di sangue, ma Maduro sta cercando di evitarlo perché darebbe ragione ad eventuali interventi esterni. Per questo motivo, i militari sono riusciti a sottrarre Leopoldo Lopez ai domiciliari e Guaidó riesce ad arringare le folle per le vie di Caracas. Questo è il prezzo che deve pagare Maduro per non inimicarsi la comunità internazionale e gli eserciti dei Paesi che sostengono Guaidó.
Gli equilibri internazionali che corrono in Venezuela che cosa ci ricordano?
In Venezuela stiamo assistendo ad una prova generale degli equilibri internazionali: è un scenario da guerra fredda. La questione venezuelana raccoglie molto interesse esterno per via del petrolio – non come nel caso, ad esempio, del Nicaragua dove la repressione continua ad uccidere i cittadini. In Venezuela ci sono alti interessi dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista della diplomazia e degli equilibri di forza a livello internazionale.
Quale settore della popolazione rimane leale a Nicolás Maduro?
Il Governo Maduro ha perso molto consenso, ma quel consenso non passa interamente a Guaidó e a favore degli Stati Uniti. Molti cittadini sono stanchi del Governo Maduro, ma non partecipano alle rivolte di strada, rimanendo una massa silenziosa. Dall’altra parte, la popolazione leale al madurismo si rafforza proprio con le minacce che giungono dall’esterno. La retorica madurista appartiene a quel tipo di populismo militare rivoluzionario in cui l’alleanza organica tra popolo e forze armate, lanciata da Chavez, si è fatta forte di programmi di assistenza e ‘misiones’. Buona parte di quei beneficiari si sente ancora rappresentata dal chavismo, nonostante Maduro non piaccia.
Cosa succede e come si comporta la popolazione che vive fuori dalla capitale Caracas?
Il Venezuela è politicamente e socialmente variegato nei suoi diversi Stati federati. Il consenso di Maduro è legato al tipo di economia della regione che si analizza. Anche fuori da Caracas si registrano scontri e si registrano focolai, più o meno intensi, di rivolta e di dissenso verso le scelte governative. Ci sono alcuni gruppi di contadini (campesinos) che non si sentono rappresentati dal Governo perché non sono stati approntati dei programmi di credito e di messa a disposizione di macchinari per la raccolta. In questi Stati federati l’economia è minimamente diversificato: nei campesinados, però, la produzione agricola è molto più bassa rispetto al fabbisogno nazionale. Proprio per questo, se si tagliano le importazioni, il Venezuela è perduto: la crisi attuale è dovuta, appunto, alla mancanza di generi di prima necessità.