La Romania è un Paese ancora poco noto in Italia, nonostante che la sua comunità sia la più numerosa tra gli stranieri ed è quindi opportuno conoscerla più a fondo, soprattutto dal punto di vista sociale e politico.
Come ben noto la Romania, delimitata nello sviluppo longitudinale, ad ovest dai Carpazi ed a Est dal Mar Nero ed attraversata dal tratto finale del Danubio, proviene dall’esperienza comunista che dal secondo dopoguerra fino al 1989 l’ha vista priva di democrazia.
Nicolae Ceaușescu ha dominato gran parte della storia rumena a partire dalla seconda meta degli anni 60, quando divenne segretario generale del Partito Comunista Rumeno succedendo a Gheorghe Gheorghiu – Dej. L’azione politica di Ceaușescu si caratterizzò con una costante opposizione a Mosca e per l’apertura in senso occidentale che impresse alla Romania pur rimanendo fedele al dettato stalinista e quindi costituendo un interessante caso di nazional-comunismo.
Tale opposizione è spesso letta non in senso liberale, ma come contrasto al processo di destanilizzazione attuato in Urss dal nuovo segretario Nikita Krusciov, attuato nel XX e XXII congresso del Pcus. La sua politica estera fu in controtendenza rispetto a quella del blocco socialista: non ruppe ad esempio i rapporti con Israele e si presentò come mediatore tra esso e l’ Olp al fine di trovare un accordo per la Palestina e non ruppe le relazioni diplomatiche neppure con il Cile dopo il colpo di Stato che portò a potere Augusto Pinochet. Parimenti la Romania non partecipò nel 1968 all’invasione militare della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia guidato dall’Unione Sovietica, di cui faceva formalmente parte.
In politica interna si dotò di un organo statale particolarmente repressivo, la Securitate (Departamentul Securităţii Statului, Dipartimento di Sicurezza dello Stato), che fu uno dei più temuti servizi segreti dei Paesi dell’Est.
Ceaușescu resse la Romania dal 1965 al 1989 quando a natale fu giustiziato a Târgoviște nella regione della Muntenia, insieme alla moglie dopo disordini e sommosse contro il suo potere. E da qui vogliamo partire per fare alcune considerazioni su questo stato balcanico. Infatti, un dato salta subito agli occhi: la Romania è stata l’unica nazione in cui la caduta del comunismo si è consumata in maniera cruenta e si è conclusa con l’esecuzione del dittatore.
Non è successo così nel Paese guida del Patto di Varsavia, l’Unione Sovietica, non è successo così per la Germania Est o la Bulgaria, o l’Ungheria o la Polonia, con la parziale eccezione del conflitto tra serbi e croati che si svolsero dal 1992 al 1995 dopo la dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Tuttavia, questo conflitto fu una conseguenza della caduta del regime piuttosto che la causa, come nelle situazioni precedentemente richiamate. Solo in Romania c’è stato un evento così forte, così tranchant, che ha posto fine al regime in maniera violenta.
Ma lasciamo in disparte, per ora, questo evento e passiamo alla cronaca e vediamo come il 2017 sia stato in Romania un anno particolare; un anno che si è aperto e chiuso con moti di piazza. All’inizio anno con migliaia di cittadini radunati a Piața Victoriei che protestavano contro l’ordinanza d’urgenza del governo di Sorin Grindeanu che modificava il codice penale e terminato con le proteste contro alcune leggi della giustizia del nuovo esecutivo, guidato fino a gennaio di quest’anno da Mihai Tudose, ora sostituito da Viorica Dăncilă.
Attualmente la riforma del codice penale è all’attenzione della corte suprema rumena che le ha già dichiarate in parte anticostituzionali destando la preoccupazione della Ue tramite il commissario per la Giustizia Vera Jouronova.
Questa sorta di ‘Mani Pulite’ balcaniche sono una reazione popolare al tentativo dei governi a guida socialista di addolcire la normativa anticorruzione e questo ha provocato i moti di piazza dei cittadini che vedono in questo atto una norma di auto – assoluzione dei politici.
È interessante ora connettere questi recentissimi eventi con la caduta del regime e la fine di Ceausescu di cui prima accennavo. In tutti e due i casi il popolo ha agito per strada e non utilizzando lo strumento della mediazione politica.
Nel dicembre del 2016 hanno infatti votato solo il 40% della popolazione, ma ai moti del 2017 hanno partecipato fino a 150.000 persone per volta, segnando un comportamento contradditorio. È come se i rumeni, appunto, non si fidassero dello strumento politico e vogliano utilizzare direttamente l’azione popolare, come è successo con la fine cruenta del dittatore.
Una possibile spiegazione sociologica di questo comportamento può essere rintracciata nel fatto che il Paese, in realtà, è caratterizzato da due entità, e cioè una parte cittadina con Bucarest e Timișoara come ‘guida’ e il resto rurale, con comunità ancora arretrate in Transilvania, Moldavia e la parte sud vicina alla Bulgaria.
Sono due mondi opposti e non comunicanti: nelle grandi città tira un’aria occidentale, fatta di tecnologia, innovazione, terziario in tentativo di avanzamento, cultura, giovani, mentre le zone rurali restano legate ai modelli agricoli e tradizionali, con accentuata presenza di anziani e forte emigrazione verso l’Occidente.
Importante rimarcare in questa sorta di eventi che potremmo denominare ‘rivoluzione blu’ (dai colori di Twitter e Facebook) il ruolo dei social media che ha permesso di coordinare i moti di piazza, come è successo nelle cosiddette ‘primavere arabe’.