Il commissario europeo Marianne Thyssen ha presentato e discusso il 26 aprile scorso, durante la seduta plenaria del Parlamento europeo, l’iniziativa per un pilastro sociale voluta dalla Commissione. Il suo obiettivo è quello di garantire una migliore protezione sociale, la dignità ed un equilibrio tra lavoro e vita per i cittadini dell’UE. Un proposito del genere, mai come di questi tempi, pone una serie di interrogativi di non semplice risposta e la certezza di incontrare ostacoli di ampia portata, per esempio: come si costituirà il nuovo pilastro, attraverso quali politiche e in risposta a quale situazione nell’Ue dopo l’austerità? Quali sono le posizioni dei diversi Paesi sull’argomento e sulle proposte implicite nel documento?
Per tentare di fornire risposte a tali interrogativi, abbiamo consultato il prof. Renzo Rossolini, docente associato presso l’Università di Parma di Diritto dell’Unione europea e titolare, in particolare di un corso in Diritto e normativa sociale dell’Ue, e il prof. Alberto Pizzoferrato, ordinario di Diritto del lavoro nella Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Bologna e Direttore del Master in Diritto del lavoro dell’Università di Bologna, nonché curatore, insieme al prof. Franco Carinci, di uno dei principali manuali italiani di Diritto sociale UE (Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Giappichelli, Torino, 2015).
Con riferimento alle politiche necessarie per edificare il nuovo pilastro, il prof. Rossolini afferma che “Le norme sul Trattato sul funzionamento dell’Unione europea assegnano all’Unione un circoscritto ambito di azione nel settore sociale le cui politiche sono sostanzialmente sviluppate dagli Stati membri. Entro tali limiti l’Unione ha adottato o si prefigge di adottare norme obbligatorie che, come accade per la disciplina delle condizioni di lavoro, costituiscono il minimo comune denominatore delle politiche degli Stati membri. In alcuni campi, come per la disciplina dell’orario di lavoro, la Commissione opera anche per assicurare un’adeguata recezione della normativa europea in ambito nazionale. In altri ancora, come per la lotta contro l’esclusione sociale, l’Unione, ed in specie il Parlamento europeo, indirizza agli Stati membri risoluzioni o raccomandazioni che, pur avendo un alto valore politico, non sono tuttavia giuridicamente vincolanti“.
Nelle parole del prof. Pizzoferrato si rintraccia in merito a ciò un atteggiamento simile, di consapevolezza degli scogli da superare, anche se sembra di intravedere un maggiore un ottimismo di fondo: “Lo European Pillar of Social Rights nasce a seguito di un processo di consultazioni pubbliche avviate dal Presidente della Commissione Europea Junker che, unitamente al Commissario per gli Affari Sociali Thyssen, hanno fortemente voluto, incoraggiato e patrocinato il riavvio di una seria riflessione europea sul ruolo centrale e strategico del Welfare e dei diritti del lavoro per controbilanciare le spinte economicistiche che hanno segnato l’Europa nel precedente quinquennio. Si tratta dunque di uno strumento di grande rilevanza poiché mette al centro delle iniziative politiche europee le questioni sociali legate alla qualità e dignità di vita e del lavoro, tracciando una netta discontinuità rispetto alla precedente Presidenza Barroso. Rimangono i limiti di un documento indirizzato all’euro-zona e non all’intera Europa a 27, così come quelli legati alla natura politica e di indirizzo delle iniziative ivi previste, senza valenza normativa diretta o indiretta e quindi con semplice finalizzazione alla promozione di azioni e misure implementative da parte degli attori coinvolti (Istituzioni europee, Stati membri, Organizzazioni sindacali). Tuttavia rappresenta un impegno politico e un monito per il Parlamento europeo e per i Governi nazionali di straordinario impatto e di ineludibile riferimento programmatico. In particolare, le iniziative richieste vertono sui temi del training e del life-long learning, dell’uguaglianza di genere, delle pari opportunità, delle politiche attive all’impiego, delle retribuzioni minime invalicabili, del dialogo sociale e del coinvolgimento dei lavoratori, sino ad arrivare ai sussidi per la disoccupazione, agli interventi in materia sanitaria e pensionistica (su quest’ultimo versante sempre in una logica di coordinamento dei sistemi, non di armonizzazione regolativa)».
Un altro tema di primaria importanza è quello relativo alle fonti di finanziamento del nuovo pilastro. Il prof. Rossolini afferma, a tal proposito, che “Il finanziamento delle politiche sociali, per i motivi già esposti, è di competenza degli Stati membri. Può intervenire il Fondo sociale europeo a sostegno delle priorità nazionali secondo il principio del cofinanziamento. Un incremento delle risorse proprie dell’Unione da destinare eventualmente al settore sociale è difficile da ipotizzare perché presuppone il consenso unanime di tutti gli Stati membri”.
Un accenno al Fondo sociale europeo si trova anche nella visione del prof. Pizzoferrato, che risponde anche in relazione alla fiscalità all’interno dell’Unione; essa non dovrà aumentare a seguito dell’introduzione del nuovo pilastro: “La principale fonte di finanziamento è rappresentata dal Fondo Sociale Europeo, ma anche gli Stati membri dovranno concorrere ed integrare le risorse per metterle a sistema e renderle strutturali ed efficaci. Naturalmente questo sarà il principale problema dell’Italia che, come noto, soffre il peso di un enorme debito pubblico che supera il 130% nel rapporto debito/PIL e che ci costringe a continue manovre correttive per ridurre il deficit annuale di bilancio. Non credo che un irrobustimento delle politiche sociali europee e nazionali possa scaricarsi nell’aumento della fiscalità interna all’Unione anche se di certo dovranno essere reperite nuove risorse e valorizzate al massimo quelle esistenti come è stato brillantemente fatto negli anni passati con riguardo alla Youth Guarantee“.
Uno spunto sul finanziamento del pilastro sociale dell’Ue giunge anche da un riferimento del prof. Pizzoferrato alla possibile introduzione di una fiscalità comune europea: “Una maggiore coesione nelle politiche fiscali potrebbe senz’altro essere positiva. Tuttavia non ci sembra determinante ai fini di una compiuta realizzazione del Pilastro sociale europeo e pertanto, avendo essa un significativo impatto nella gestione delle politiche pubbliche interne, è bene valutare attentamente ciò che è fattibile da ciò che potrebbe rivelarsi controproducente perché sentito come un’eccessiva intrusione nella sfera della sovranità nazionale“.
Altra questione è quella relativa al superamento delle politiche di austerità: l’Europa va o no verso una svolta rispetto al passato? Ecco l’opinione del prof. Rossolini: “Costituisce un passo nella giusta direzione la volontà, manifestata dalla Commissione nella sua recente Comunicazione sul”pilastro sociale” dell’Unione europea, di inserire il quadro di valutazione delle politiche sociali (comprendente,ad esempio, l’analisi delle misure nazionali di contrasto alla povertà e disoccupazione giovanile) nell’ambito del semestre europeo. Infatti ciò non può che rafforzare il processo in atto teso a bilanciare la politica sociale con gli obiettivi economici degli Stati euro. Non si può negare che, almeno per una lunga fase, il contenimento delle spese sociali ha costituito una delle soluzioni più frequentemente invocate per ridurre l’esposizione debitoria degli Stati membri. Le raccomandazioni adottate nell’ambito del coordinamento e sorveglianza delle politiche economiche nazionali hanno perciò trascurato valori essenziali quali solidarietà, equità e coesione. È pertanto urgente l’adozione di un nuovo approccio che prenda atto che politiche fondate esclusivamente sull’austerità, propugnate da alcuni Stati del Centro Nord Europa, non solo non hanno risolto,ma rischiano anzi di aggravare la crisi in atto“.
Un’affermazione simile a quest’ultima quella del prof. Pizzoferrato: “Sicuramente ce lo auguriamo (il superamento delle politiche di austerità, ndr), anche perché senza investimenti è complesso riattivare virtuosamente l’economia e senza investimenti nel sociale si rischia di privare l’Europa della sua anima e di promuovere uno “strabismo” operazionale che allontana le persone e genera crisi di rigetto per un sistema unitario”.
In merito alle principali posizioni in campo da parte degli Stati membri, non è una novità il fatto che ci siano delle diversità di vedute che possono essere la base su cui costruire il futuro, da un lato, e dall’altro una possibile causa del rallentamento e della complessità del processo di decision making europeo. Così al riguardo il prof. Rossolini: “Il concreto sviluppo del “pilastro sociale” dipenderà non solo dall’iniziativa delle istituzioni, ma anche dalla volontà degli Stati membri, il cui consenso unanime è richiesto in vari casi. La diversità degli approcci nazionali in campo sociale potrebbe comportare difficoltà che, in ultima istanza, potrebbero essere superate ricorrendo alla cooperazione rafforzata tra almeno nove di essi“.
Difficoltà evidenziate anche dal prof. Pizzoferrato: “Purtroppo la tendenza di numerosi Stati membri è quella di ripiegarsi all’interno di sé stessi con una revisione fortemente al ribasso delle politiche sociali esistenti in un’ottica di riduzione dei costi pubblici ed imprenditoriali e con l’arretramento delle tutele normative del lavoro, nonché di rinnovata nazionalizzazione degli ambiti e dei contenuti dei singoli interventi. Una tale iniziativa europea ci auguriamo possa risvegliare tali Stati rinnovando l’adesione ad un progetto europeo in grado di assicurare progresso e stabilità economica, ma anche crescita professionale e sociale attraverso il sostegno alla stabilizzazione dei rapporti ed alla implementazione di un mercato del lavoro equo e solidale“.
Un accordo del genere, sempre secondo il prof. Pizzoferrato, “Certamente si muove nella logica della più intima ed estesa convergenza ma non vi è dubbio che ogni operazione che esclude, alimenta più velocità di integrazione che peraltro non è detto siano in sé sbagliate poiché di fronte all’inerzia di una conduzione unitaria è preferibile l’attivismo condiviso di una parte soltanto“.
Un cenno particolare del prof. Pizzoferrato va al ruolo della Germania in Europa, spesso contestato per via della sua forza economica ritenuta eccessiva rispetto agli altri: “Non è vero che la Germania abbia intaccato le tutele sociali nel mondo del lavoro, al contrario è stato uno dei Paesi europei in cui sono state meno incise le garanzie del lavoro ed in cui le ricadute sul sociale della crisi economica sono state meno avvertite, anche per la migliore tenuta dei conti pubblici e del sistema produttivo. Pensiamo al tema dei licenziamenti, individuali e collettivi, che hanno visto forti compressioni nella maggior parte dei Paesi europei di “lungo corso” (ad esempio Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda), ma non in Germania dove la disciplina è rimasta sostanzialmente immutata prima e dopo la recessione“.