Dopo la Brexit, la Politica europea di Difesa e Sicurezza comune ha subìto un ulteriore processo di retroazione, che potrebbe portare – e, di fatto, sta portando – a una riconfigurazione nel senso di una maggiore autonomia dalla sfera di influenza atlantica, non solo in termini di principio, ma anche di potere e a livello di organizzazione. Nondimeno, la questione rimane: perché, diversamente dall’ingresso nell’eurozona, tutte queste resistenze da parte degli Stati europei a condividere gli strumenti di Difesa?
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, esistono due organizzazioni istituite, con relativo Trattato, allo scopo di garantire la Difesa in Europa: la NATO e l’Unione Europea Occidentale (UEO). Entrambe prevedono, nel loro atto costitutivo (l’Art. 5 del Trattato NATO, invocato nella storia soltanto dopo l’11 settembre 2001, e l’ Art. V del Trattato di Bruxelles del 1948, documento integrato nel 1954 dai 4 Protocolli di Parigi, con le Forze dell’UEO sotto il comando strategico del SACEUR) una clausola di difesa collettiva, ossia un obbligo, per gli Stati firmatari, di assistenza reciproca in caso di attacco armato. La differenza tra le due disposizioni è che, nel caso europeo, la clausola è automatica: l’aggressione armata implica, da parte del Paesi dell’UEO – e conformemente al diritto di autotutela sancito dall’Art. 51 della Carta dell’ONU -, «aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro potere, militari e di altra natura». La duplicazione delle funzioni militari da parte dei rispettivi organismi è evitata: il Consiglio, ossia il massimo organo di Governo dell’UEO, composto dai Ministri degli Esteri dei rispettivi Paesi, e l’Agenzia di controllo degli armamenti si rivolgeranno alle autorità della NATO competenti per ogni consultazione relativa alle questioni militari.
Tuttavia, ciò significava anche la rinuncia, da parte dell’UEO, ad avere una propria organizzazione e struttura militare.
Negli anni ‘50, a monte dell’UEO, si verifica un fatto storico significativo capace di condizionare l’evoluzione dei rapporti euro-atlantici e le successive scelte di politica europea di difesa comune: fallisce la Comunità Europea di Difesa (CED) e il suo potenziale impatto sugli sviluppi futuri. Come ha recentemente ricordato Giancarlo Aragona, analista e Senior Advisor dell’ISPI, il Presidente del Consiglio francese Pierre Mendès France, «stretto tra gollisti, da una parte, e comunisti dall’altra, fece naufragare un progetto che avrebbe potuto avere un enorme impatto sul percorso di unificazione europea e sugli equilibri tra i due pilastri della Alleanza atlantica». Da allora l’integrazione è concepita come un obiettivo in senso economico, non securitario-difensivo – funzione assolta, in piena Guerra Fredda, dalla preminenza degli USA nella NATO. Di fatto, non c’è stata alcuna produzione di armamenti da parte dell’UEO: la loro standardizzazione e il conseguente approvvigionamento sono avvenuti nell’ambito della NATO.
Alla fine degli anni ’60 i tentativi di regolarizzare ed estendere le consultazioni dell’UEO (da parte di Regno Unito, Belgio e Italia) a settori quali la politica estera e internazionale, la difesa, la tecnologia e la moneta incontrano l’opposizione della Francia, che esce dal Consiglio ministeriale quando gli altri 6 Paesi decidono comunque di cooperare in politica estera. Peraltro, dopo l’ingresso del Regno Unito nella CEE nel 1973 (contesto di riferimento per la cooperazione europea), la UEO rimane quiescente fino ai tempi degli euromissili, quando il Presidente francese Mitterrand, preoccupato per il dissenso diffuso nell’opinione pubblica, si adopererà per un suo rilancio spostando il ruolo di guida dall’Inghilterra all’asse franco-tedesco (a preminenza francese), catalizzatore di una effettiva integrazione europea. Di fronte al gigante sovietico, che – fallito nel 1986 l’accordo tra Mosca e Washington sugli euromissili – deteneva il primato in fatto di armamenti, gli anni ’80 vedono profilarsi una risposta europea: il Consiglio permanente torna a riunirsi (con cadenza trimestrale), sono istituiti gruppi di lavoro speciali (come quello sul Mediterraneo, formato da Italia e Francia) e 3 agenzie competenti per impulso alla Cooperazione agli armamenti, controllo e disarmo, Sicurezza e Difesa. Questo processo di ‘europeizzazione’ porta all’approvazione della Piattaforma dell’Aja (27 ottobre 1987), che definendo gli interessi europei in materia di sicurezza e le potenziali aree di intervento (la prima è esterna: quella del Golfo) costituisce un – primo? – manifesto di Difesa comune.
Il rilancio della UEO, che avrebbe dovuto sostituire la CED, rimane di fatto privo di effetti (nonostante l’esistenza della clausola ‘automatica’ di difesa collettiva).
Passando a tempi più recenti, dal novembre 2000, in forza del Trattato di Amsterdam, il Consiglio dei Ministri non si è più riunito e l’organizzazione – sciolta nel 2011 – ha progressivamente trasferito alla PSDC le proprie funzioni operative nella gestione delle crisi.
La forza di attrazione esercitata da un rapporto fedele all’alleanza atlantica non ha impedito all’Italia di appoggiare la UEO, nella convinzione che il processo di integrazione europea sarebbe passato anche attraverso una dimensione essenziale (per un’entità politico-territoriale) come la Difesa.
Su questo bilanciamento, senza dimenticare i nuovi equilibri che, a partire dagli anni ’90, hanno da un lato ridefinito la centralità dell’Europa e dei suoi interessi unitari, dall’altro esteso alla regioni baltica e orientale i confini della NATO (l’Alleanza comprende oggi 28 Paesi, mentre 10 sono in lista di attesa), si gioca il nostro rapporto con la NATO rispetto all’esistenza concreta di istituzioni e strumenti di Difesa comune.
Dal punto di vista geografico, se la NATO ha rafforzato il suo ruolo – e il budget – militare in Polonia e lungo tutto il confine orientale, per l’Italia il bacino del Mediterraneo e le aree balcanica e mediorientale costituiscono, oggi in misura aumentata, fonte di rischi e tensioni. Scrive, in proposito, Aragona: «Bene ha fatto il Governo, per mano congiunta dei Ministri degli Esteri e della Difesa, ad avanzare una sua proposta unendosi in tal modo alle iniziative che, sulla scia della Global Strategy dell’Alto rappresentante Federica Mogherini, Germania e Francia avevano intrapreso».
Nel suo ruolo di media potenza esposta alle minacce alla sicurezza provenienti da Sud-Est (ad esempio, la presenza radicata e ‘reticolare’ delle organizzazioni criminali operanti nell’area balcanica), l’Italia trae dell’alleanza con la NATO diversi vantaggi: oltre al supporto in caso di conflitto, una ‘interoperabilità’ e progressiva standardizzazione delle Forze armate risalente al Partenariato per la Pace del 1994, un accordo-quadro di cooperazione militare (in primis, addestramento ed esercitazioni congiunte) complementare a una serie di intese bilaterali siglate con i singoli Stati partecipanti. Concetto-chiave per intendere la cooperazione NATO e la portata trasformativa del suo ruolo, l’interoperabilità come policy – approvata ufficialmente nel 2005 – attiene sia ai requisiti preliminari al compimento delle missioni (definizione degli obiettivi, terminologia, una serie di codici e apparati comuni – c.d. ‘core’), sia all’uniformità della logistica: materiali ed equipaggiamenti, tecniche, strumenti e procedure dai quali dipenderà l’efficacia di un’operazione (c.d. ‘enhancement’ o ‘valorizzazione’), rafforzata dalle attività addestrative congiunte.
In termini di politica strategica e riconfigurazione degli equilibri, la centralità di una integrazione europea, assolta dall’Italia partecipando a quella che oggi è denominata Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC, ex-PESD), si è dimostrata non solo un utile complemento, ma una necessità rispetto al suo ruolo di membro della NATO. Ciò emergeva in dettaglio già da un Rapporto collettivo dello IAI, pubblicato nel 2009, sull’evoluzione dei processi di integrazione e cooperazione interni alla NATO e alla PESD, dove si legge che «L’Ue si è rivelata un potente fattore di stabilizzazione della periferia europea e dell’area europea dell’ex-Patto di Varsavia, e in particolare nei Balcani».