mercoledì, 22 Marzo
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Ucraina: parole, azioni e simboli ambivalenti

Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto;

è quanto mi hanno dato al posto di un fucile

(Philip Roth)

Nel congedarmi a fine del 2020 dal primo anno di pandemia da virus scrivevo su L’Indro una riflessione sulla valenza simbolica delle parole. Oggi, in questi sanguinanti giorni, riguardo alla guerra scatenata dall’invasione di Putin all’Ucraina, ho sottolineato la qualità delle parole ‘fuori dei denti’ usate da Biden contro Putin dandogli del macellaio, criminale, dittatore sanguinario accompagnate da fuorvianti semplificazioni storiche di qua e di là dell’Atlantico sulla vulgata di Putin-Hitler. Dopo Gheddafi, Saddam Hussein e qualche altro, con sceneggiatura sempre americana. Attribuzioni utili più per compattare e calmare masse ed opinioni pubbliche con qualche distinguo. Il Putin hitleriano è un dire sviante perché nell’enfatizzare l’eccesso di gravità dell’aggressione russa sminuisce l’immensa gravità dell’Olocausto. Assimilare la prima al secondo devia da un elemento chiave: l’Olocausto non è stata una guerra tra due Paesi bensì un indicibile attacco di uno stato nazista suuno specifico gruppo etnico come gli ebrei. Dimenticarsene è ignoranza storica che pone in continuità eventi di discontinuità storica.

Detto ciò, ci si profonde in sensazioni (un inconscio volerlo far fuori) di tumore al cervello più che di cancro alla tiroide del ‘male assoluto’ Putin, improbabile connessione tra agire politico-stato mentale-malattia grave che scatena una guerra. Una sorta di abissale impotenza del mondo libero che vorrebbe (vorremmo, tutti?) annientare Putin ma è conscio di questa chiara guerra asimmetrica, convenzionale vs. conflitto nucleare. Per cui non potendo intervenire dinanzi all’estremo nucleare manifesta un’unità d’azione Usa-Nato con Europa che segue compatta, qui ed ora, vedremo poi su altri temi in agenda, lo si fa per interposto invio di significativi quantitativi di armi agli ucraini. E sblocca investimenti per armi e difesa al 2% del pil per tutti. Con un effetto straniante. Immagini continue di un desolante panorama di città distrutte con milioni di profughi, alcune occupate dai russi, per poi approfondire con gli inviati e sappiamo che invece resistono oppure le truppe ucraine avanzano. Quindi non sappiamo dire dove si sia l’asticella di sconfitta o vittoria in un conflitto già lungo e virato, pare, per i russi nel voler ‘solo’ ri-appropriarsi di Crimea e Donbass dopo, dicono, 8 lunghi anni di conflitto che avrebbero scatenato gli ucraini. Quanti sono, sarebbero gli effettivi morti ucraini, qui di più per drammatizzare, mentre là dai russi si sminuiscono numeri ben più alti? Più vediamo, sentiamo “siamo” in guerra meno riusciamo a capire. Mariupol ed Odessa sono cadute? Poi si dice che resistono, mentre gli ucraini riprendono postazioni per perse. Insomma, non si capisce quasi nulla, presi tra opposte quanto similari operazioni di propaganda finalizzate a negoziare, unica necessità immediata, da posizioni di forza per manipolare (i russi) o sostenere (ucraini) la migliore situazione alle diverse popolazioni, ed al mondo.

Dunque nel mentre optiamo con chiarezza sul colpevole e le vittime, il resto appare oscurato da eserciti” di quanti scrivono, parlano, commentano, auspicano, temono, confermano questa guerra che tutti vedono. Ma diversamente commentata, con sgradevoli e surreali posizioni di russi, cominciando dai giornalisti, per cui non è una guerra, e se c’è non c’è un’invasione, e se non c’è invasione è solo perché si vogliono “riunificare” i popoli ucraino e russo che per questi ultimi sono un solo popolo, così si prescrive che siano tutti russi. E qui in un gioco dell’oca insanguinato, torniamo al punto di partenza.

Ciò detto torno alle parole iniziali che Biden vomita con troppa facilità. Ciò che tutti sanno, certo per alimentare una strategia del nemico, ma che nelle relazioni internazionali le si pensa ma non le si dice nei modi usati. Il fine condivisibile di sostegno all’Ucraina nasconde però altri passaggi, forse meno nobili di certo più legati a dinamiche internazionali di mutamento dei parametri politici pre guerra che disegneranno un mondo diverso. Di cui l’America vuol continuare ad essere ‘l’impero’ da cui dipendere. Così quel linguaggio offensivo più che costituire il pensiero che si può manifestare nei confronti di un nemico, farebbe parte di una strategia comunicativa di attacco frontale e totale nei confronti del ‘nemico’ russo. Un misto di violenza verbale e di impotenza emotiva con un linguaggio cheap inusitato per chi assolve il ruolo di presidente degli Stati Uniti che rappresenta la “dignità suprema della repubblica oltre ad essere Comandante in capo dell’esercito e della marina”, come afferma la filosofa De Monticelli. Un linguaggio triviale inaccettabile per un ruolo simile. E dicevo allora che «Nella quotidianità vi è un largheggiare nell’uso di parole cosiddette ‘in libertà’, specchio e rifrazione di una precaria consistenza cognitiva e molta rabbia emotiva. Insomma, alla fine, le parole significano a seconda di come le affermiamo, di che cosa vi insinuiamo tra i suoi interstizi, del tono modo allusione cui destiniamo una semantica di noi stessi trasfusi in ciò che affermiamo, vogliamo sostenere, vogliamo intendere o far capire. Le parole costituiscono, così, l’interfaccia esteriorizzato di ciò che noi siamo interiormente, di che cosa sentiamo, percepiamo. Parla come mangi, vecchio detto, che si protrae oltre l’antico buon uso delle posate». Quelle parole di Biden usate con inusitata chiarezza con l’intento di compattare un blocco di forze alleate opera in forma di un “pensiero feroce ed oscurantista proposto per definire la politica: l’opposizione amico-nemico” elaborato di Carl Schmitt, che finisce per ridurre la politica ad un magma arcaico primitivo e tribale essere estraneo al pensiero libero e democratico. E citavo, Josè Saramago, grande scrittore portoghese, secondo il quale «Le parole sono buone. Le parole sono cattive. Le parole offendono. Le parole chiedono scusa. Le parole bruciano. Le parole accarezzano…. Le parole consigliano, suggeriscono, insinuano, ordinano, impongono, segregano, eliminano».

Appunto, ordinano, impongono, segregano o eliminano. Si dirà, tutto va bene se serve annichilire un nemico. Sarà, ma questa deriva taglia ogni ponte con cui sempre la diplomazia deve poter gestire le dinamiche della geopolitica, lo studio delle interazioni e scambi tra collettività, lasciando aperta la sola opzione delle armi a produrre caos. E difatti pace e pacifismo sono alienate dal dibattito. Certo un pensiero che dice abbondate (agli ucraini) le armi e qualcosa se ne ricaverà costituisce un paradosso. Chi si arrenderebbe dinanzi all’invasione sul proprio territorio di una forza militare che vuole distruggerti, o piuttosto riformulare confini ed appartenenze con le armi? Insomma l’attualità di questa guerra obbliga e spinge ad occuparsi, ciascuno con i propri strumenti, ad indagare altri corpi di pensiero, altre dimensioni di senso che orientano ad occupare un campo semantico e di appartenenza che la guerra ha fortemente accentuato, nelle risposte fin qui fornite in Occidente.

Tra tutte le parole espresse un po’ da tutti verifichiamo quale clima d’opinione fatto di credenze tendenze convinzioni preesisteva all’aggressione e quali scostamenti la guerra ha prodotto nelle opinioni pubbliche. Ovvero la percezione di ciò che è accaduto che interseca il campo di quanto hanno pesato parole e richiami alle appartenenze. Ovvero come le percezioni di un evento, qui a copertura quotidiana massima, inducono orientamenti che formano atteggiamenti che poi promuovono comportamenti. Allora, un’indagine condotta da YouGov di gennaio, poco prima dell’invasione, evidenzia come l’Italia fosse la più filorussa tra 8 paesi testati. In virtù di consistenti forze di ampio peso elettorale a destra dello schieramento politico che hanno stretto contatti con la Russia, quanto pericolosinon sappiamo con sostegni economici per attaccarel’Europa dall’interno, solo il 25% riteneva quella nazioneuna minaccia, contro il 36% dei francesi, il 41% dei tedeschi, per gli stretti contatti con l’energia dalla Russia, il 57% degli inglesi ed il 58% degli americani. Solo questi ultimi oltre la metà. Ma già nel 2017, fase di massima espansione di forze populiste e disgregatrici, l’Italia per il 43% forniva opinioni positive verso la Russia, mentre i “russofili” francesi erano al 34%, Germania 24%, Gb20%. Un atteggiamento quello italiano ben presente e radicato, anche in virtù delle ‘campagne di Russia’ dell’amico Silvio, quello che oggi dopo ben 40 giorni emana un soffio vitale per dire con 7 parole che condanna l’invasione ma si dimentica di citare l’amico di lettone Putin! Cosa fa l’età, primi segnali di sfacimento con la memoria che se ne va, anche se selettiva…

Quanto la costruzione di un’immagine positiva di Putin è asseverata da un’indagine Demos del luglio 2019, a cavallo tra primo e secondo governo Conte, dai populisti ai mezzi populisti più il Pd. Qui Putin era collocato addirittura al secondo posto tra i leader occidentali più apprezzati dagli italiani con ben il 43%, con la Merkel appena sopra, 47%. Mentre Macron non era benvoluto che dal 27%. La stagione populista con tutti i suoi disastri rifletteva il consenso e le preferenze elettorali. Difatti nella Lega, che andava a Mosca a tifare per Putin ed avere i suoi cospicui denari, il russo era apprezzato dal 65%, mentre Trump aveva il 58% e la Le Pen il 47%. Mentre i penta poi stallati erano presi da Putin per il 49% e per Trump il 40%. Questa sbornia sovranista che nel nostro paese si è presentata con diverse formazioni nazional-populiste si è repentinamente ribaltata con lo scoppio della guerra. Difatti quasi tutta la popolazione, il 95%, ha considerato grave l’aggressione russa all’Ucraina con repentini voltafaccia tra le forze politiche più vicine al pensiero putiniano. Così la condanna totale è dell’84% nel Pd, l’83% tra i 5 Stelle, l’82% in Forza Italia, il 79% nella Lega ed il 73% tra i sodali della Meloni. Consensi contro Putin anche un poco sospetti comprensibili pensando che gli italiani si dicono molto preoccupati per gli effetti economici, tra il 70 e l’80%. A riprova un sondaggio Swg evidenzia come il 39% degli italiani ritiene che si dovrebbe essere cauti per le grandi aziende italiane che hanno relazioni commerciali con la Russia. Che a ricaduta fa esprimere il 60% per una netta contrarietà alla partecipazione diretta al conflitto. Dando luogo come sappiamo ad una guerra per interposte armi facendo finta di non essere stati messi nel novero dei paesi belligeranti a fianco dell’Ucraina.

Questa chiara guerra rimescola molte posizioni dei Paesi e quando si fermeranno le armi il quadro d’insieme di nuove alleanze e consolidate contrarietà prenderà direzioni che oggi possiamo solo intuire. Per quanto concerne le parole, tutte quelle utilizzate rilasciano in molti di noi qualche dubbio relativo a due aspetti. Il primo è che il carico di stati d’animo è dovuto ad una guerra che di nuovo vediamo. Per cui soffro se vedo qualche frammento di realtà, trionfo dell’immagine nella società dello spettacolo (questo il rischio in Ucraina se di tempo ne passa molto), se invece non riproduco nulla allora la realtà non c’è. Seconda questione, quella delle parole. Questo è un conflitto dai tratti inediti. Altrove chi aggrediva si mostrava, qui invece i russi bombardano uccidono stuprano e con il massacro di civili di Bucha di qualche ora fa negli occhi tutto si nega, si nega persino che sia una guerra, perché è solo una ricostruzione scenica ucraina. Infine, le parole tra realtà raccontata dagli inviati e finzione che aleggia quale elemento della propaganda, comincia in tv la serie-fiction una distopia che anticipa la realtà, di ‘Servant the people’ come si chiama la formazione politica di Zelensky e qui titolo della serie, che da attore qualche anno fa mimava un presidente, mentre oggi è un presidente che come un attore consumato occupa la scena mediatica del pianeta parlando ai diversi parlamenti nazionali. Realtà della realtà con finzione realistica che trascende in una realtà finzionale. E noi non sappiamo ciò che realmente accade lì, tranne case distrutte e cadaveri a terra, dove, chi, quando, come.

Massimo Conte Schächter
Massimo Conte Schächter
PhD Sociologo, scrittore per elezione e ricercatore per vocazione, inquiete persone ancora senza eteronimi di Pessoa. Curioso migrante di mondi, tra cui Napoli, Vienna, New York. Ha percorso solo per breve tempo l’Università, così da preservarlo da mediocrità ed ipocrisie, in un agone dove fidarsi è pericoloso. Tra decine di pubblicazioni in italiano ed in lingua si segnala l’unica ricerca sociologica al mondo sull’impianto siderurgico di Bagnoli, Conte M. et alii, 1990, L’acciaio dei caschi gialli. Lavoro, conflitto, modelli culturali: il caso Italsider di Bagnoli, Franco Angeli, Milano, Pref. A. Touraine. Ha diretto con Unione Europea e Ministero Pari Opportunità le prime indagini sulle violenze contro le donne, Violenza contro le donne, (Napoli 2001); Oltre il silenzio. La voce delle donne (Caserta 2005). Ha pubblicato un’originale trilogia “Sociologia della fiducia. Il giuramento del legame sociale” (ESI, 2009); “Fiducia 2.0 Legami sociali nella modernità e postmodernità” (Giannini Editore, 2012); “Fiducia e Tradimento. In web we trust Traslochi di società dalla realtà diretta alla virtualità della network society”, (Armando Editore, 2014). Ha diretto ricerche su migrazioni globali, lavoro e diritti umani, tra cui 'Partirono bastimenti, ritornarono barconi. Napoli e la Campania tra emigrazione ed immigrazione' (Caritas Diocesana Napoli, 2013 con G. Trani), ed in particolare “Bodies That Democracy Expels. The Other and the Stranger to “Bridge and Door”. Theory of Sovereignty, Bio-Politics and Weak Areas of Global Bίos. Human or Subjective Rights?” (“Cambridge Scholar Publishing”, England 2013). Nella tragica desiderante società dello spettacolo scrive per non dubitare troppo di se stesso, fidarsi un poco più degli altri e confidare nelle sue virtuose imperfezioni. Sollecitato, ha pubblicato la raccolta di poesie Verba Mundi, Edizioni Divinafollia, Bergamo. È Vice Presidente e Direttore Scientifico dell’Associazione Onlus MUNI, Movimento Unione Nazionale Interetnica.
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