La crisi in Ucraina sta facendo venire a galla le magagne della NATO.
Due ordini di problemi affliggono la NATO. Il problema politico, ovvero la diversità di vedute e relative spaccature tra gli alleati europei e gli Stati Uniti, e le spaccature interne agli alleati europei, sia tra quelli UE e non-UE, sia tra quelli UE. Il secondo è il problema strettamente militare.
Alla base del problema politico, e non estraneo, anzi, a questo, c’è una questione di DNA, la quale è al centro della crisi attuale.
Il ‘pezzo’ di DNA che ha creato il cortocircuito è quello che l’ambasciatore James Dobbins, alla guida dell’area diplomazia e sicurezza del think tank statunitense RAND Corporation, definisce il ‘principio pericolosamente anacronistico‘. Tale principio recita che: «tutti i vicini europei della Russia dovrebbero essere liberi di chiedere l’adesione alla NATO e che la NATO dovrebbe essere libera di incorporarli».
«Già dalla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno esteso le garanzie di sicurezza, sotto forma di adesione alla NATO, a sei ex Stati del Patto di Varsavia e tre ex repubbliche sovietiche. Ora la NATO continua a insistere affinché la sua porta rimanga aperta», sostenendo «che le sei restanti ex repubbliche sovietiche, quattro delle quali confinano con la Russia, dovrebbero essere ugualmente libere di presentare domanda e di essere prese in considerazione per l’adesione. La richiesta del Presidente russo Vladimir Putin agli Stati Uniti è che questa opzione sia preclusae, in particolare, che gli Stati Uniti non cerchino di estendere il proprio perimetro di difesa oltre il confine russo. Washington ha respinto questa richiesta, sostenendo che le sfere di influenzacome quella che la Russia sta cercando di preservare, rappresentano un concetto obsoleto e ora illegittimo». Argomentazione, prosegueDobbins, «alquanto poco convincente come difesa per il continuo allargamento di una delle principali fonti di influenza americana, ovvero l’alleanza NATO». Come dire, che gli Stati Uniti sostengono e difendono per se stessi un diritto che negano alla controparte russa.
L’espansione della NATO verso il confine russo è stata per anni al centro delle preoccupazioni e della insofferenza russa. «Per molti anni la Russia ha potuto fare poco al riguardo. Questo è cambiato. Negli ultimi anni, Putin ha ripetutamente dimostrato che la Russia è capace e disposta a usare la forza armata per prevenire un’ulteriore invasione della NATO ai suoi confini. Questa è una delle ragioni per cui la politica delle porte aperte della NATO è un anacronismo».
I pericoli generati dalla politica delle porte aperte della NATO, afferma la guida del settore diplomazia e sicurezza di RAND -centro di ricerca che vanta 76 anni di attività e 1.500 cervelli in pancia- «sono diretti, in primo luogo, a coloro che prendono in parola gli Stati Uniti e i loro alleati. Nel 2008, in un vertice della NATO a Bucarest, i leader dell’alleanza, spinti dal Presidente Bush, hanno promesso a Georgia e Ucraina che un giorno sarebbero diventati membri della NATO. Ora sono passati 13 anni. La Russia ha invaso entrambi i Paesi e si è impossessata del loro territorio sia per sé che per i regimi per procura russi, lasciando l’Ucraina e la Georgia più lontane che mai dall’adesione alla NATO. Diventare un membro della NATO in attesa al confine con la Russia lascia l’aspirante in una posizione più vulnerabile, provocando Mosca senza impegnare la NATO». Quello che sta succedendo in questo momento, per altro nella perfetta e dichiarata consapevolezza di Joe Biden che l’Ucraina è ben lontana (forse due decenni) dall’essere in condizioni di aderire all’Alleanza, e altra cosa ancora sarà poi l’eventuale adesione. Eppure gli Stati Uniti stanno difendendo il principio. E per parte sua l’Ucraina sembra pronta a una sconfitta storica e devastante in nome dell’illusione che un giorno possa aderire alla Nato, qualcosa che tutti i soggetti coinvolti sanno essere fantasia.
L’Ucraina non entrerà nella Nato, almeno ancora per decenni. La Nato non entrerà in guerra con la Russia per l’Ucraina. Due fatti che oramai, nello scorrere di queste settimane di crisi, si sono acclarati, per quanto non detti, o detti tra i denti da entrambe le parti.
Dalla parte opposta, sempre più si sta affermando la convinzione che la Russia non potrebbe occupare l’Ucraina se anche volesse, per una serie di motivazioni tattiche, economiche e militari.
Gli ostacoli politici rafforzano quelli militari e completano il quadro dell’impotenza difronte alla quale si trova la Nato.
L’eurodeputata Nathalie Loiseau, Presidente della sottocommissione per la sicurezza e la difesa del Parlamento europeo, già Ministro francese per l’Europa e Direttore dell’École nationale d’administration di Strasburgo, in un intervento per il think tank britannico di difesa e sicurezza Royal United Services Institute for Defence and Security Studies (RUSI), mette in fila quelli che definisce ‘segnali di debolezza’ dell’Alleanza.
Il tema di fondo è che «le priorità degli Stati Uniti e dell’Europa non sempre coincidono», in questa fase in particolare gli Stati Uniti sono impegnati altrove. In questo quadro, si aggiungono poi comportamenti e precedenti poco esaltanti e le spaccature interne tra alleati. Sulle più evidenti si concentra Loiseau.
«In primo luogo, c’è la Turchia, con il secondo esercito più grande della NATO, che si prende delle libertà con l’Alleanza senza pagarne davvero il prezzo. Ha acquistato un sistema di difesa missilistica russo; ha contribuito alle tensioni nel Mediterraneo orientale; ha rifiutato di sottoporsi all’ispezione della NATO per il rispetto dell’embargo libico; ha bloccato i piani di difesa polacchi e baltici; e attacca le milizie curde che sostengono la Coalizione contro l’ISIS. Negli ultimi mesi Ankara è stata meno esplicita, ma è giusto dire che ci è voluto del tempo prima che le legittime preoccupazioni europee fossero ascoltate».
«E poi c’è l’Afghanistan: la prima e più importante operazione NATO al di fuori del suo tradizionale teatro delle operazioni, e la prima e unica volta in cui è stato invocato l’articolo 5 della sua Carta, per venire in aiuto degli Stati Uniti dopo il terrorismo dell’11 settembre attacchi. L’acquisizione del potere dei talebani è il più grande fallimento dell’Alleanza, anche se fa fatica ad accettare questo verdetto. Con la vittoria dei talebani, il rischio terrorista è tornato ad essere reale: un triste primato, insomma, per un’alleanza». E grava il come si è arrivati a questo risultato. «All’interno della stessa NATO, il ritiro degli Stati Uniti è avvenuto senza consultazione o considerazione dei suoi alleati. Quando Regno Unito, Francia e Germania hanno chiesto agli Stati Uniti una proroga del termine per il ritiro militare, sono stati ascoltati? No. Questa conversazione ha avuto luogo alla NATO? Affatto. C’è voluto un incontro straordinario del G7 perché si svolgesse. La NATO ha discusso la sua strategia di uscita? I ministri della difesa dell’Alleanza si sono incontrati per coordinare il ritiro? Non una volta».
«E poi c‘è AUKUS. Nel momento stesso in cui l’UE pubblica la sua prima ‘strategia indo-pacifica’, è superbamente emarginata da un asse Washington-Londra-Canberra, che si presenta come una nuova alleanza militare e che silura, nel processo, la franco partnership australiana con il suo contratto per la consegna di 12 sottomarini. Il colpo è duro per la Francia, e sconcertante per l’Ue, che ha espresso la sua opinione in merito. Ma cosa dice della NATO? Nient’altro che ciò che gli Stati Uniti ripetono dalla presidenza di Barack Obama: che gli Stati Uniti hanno fatto perno e le loro priorità sono altrove».
Per Nathalie Loiseau queste sono le ‘debolezze’ che tagliano le gambe alla Nato. Ma c’è altro che proprio questa crisi rende molto evidente.
Ci sono le divisioni all’interno dei membri europei della Nato. Qui, «la percezione della Russia varia ampiamente in tutta Europa tra coloro storicamente e geograficamente più vicini, che vedono la Russia come una minaccia alla sicurezza, e coloro, per lo più nell’Europa occidentale, che non si fidano più di Mosca ma cercano il dialogo in virtù dei legami economicied energetici e un riconoscimento del ruolo storico della Russia in Europa», come sintetizza Rosa Balfour, direttrice di Carnegie Europe.
Polonia, Romania e Paesi baltici –Estonia,Lettonia e Lituania– sentono il fiato sul collo della Russia, si sentono minacciati e premono perchè la NATO assicuri una capacità difensiva di alto profilo. La Polonia è arrivata a scontrarsi con la Germania causa la decisione tedesca di non fornire armi all’Ucraina. La Romania da parte sua è da tempo che invoca una maggiore presenza di truppe americane in Europa, in particolare a protezione dei Paesi confinanti con la Russia.
Ungheria, Bulgaria e Croazia sono decisamente restii a scontrarsi con Mosca, ma contestualmente, pur usando parole forti contro l’interventismo della Nato, indipendentemente dalle dichiarazioni pubbliche e dai giochi politici, sicuramente non sarebbero disponibili a rinunciare a tale ombrello, sanno benissimo, fanno notare gli analisti, che i Paesi dell’ex Patto di Varsavia senza tale copertura sarebbero stati più vulnerabili alla così detta ‘diplomazia dell’heavy metal’ del Cremlino, ovvero l’uso di minacce militari per costringere i governi vicini a fare concessioni.
Dall’altra parte, gli alleati occidentali, Francia, Germania, Italia, sono molto più ‘rilassati‘ e politicamente moderati, tendono a premere sulla linea diplomatica. «Francia e Germania, non sembrano prendere sul serio le opinioni degli Stati baltici e dell’Europa centrale, a differenza della NATO», afferma Judy Dempsey, senior fellow del Carnegie Europe e redattore capo di ‘Strategic Europe‘ . «Questa è la più grande debolezza dell’UE: la mancanza di una politica strategica verso i suoi vicini orientali da un lato e verso la Russia dall’altro. La crisi in corso in Ucraina conferma questi deficit intellettuali, politici e strategici» e grava sulla debolezza della NATO.
La posizione della Germania in particolare è quella che preoccupa gli USA e gli altri Paesi favorevoli alla linea dura.
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha esortato alla cautela quando si tratta di potenziali sanzioni contro la Russia. Se la Russia invade l’Ucraina, ha detto alla ‘Süddeutsche Zeitung‘: «La prudenza impone la scelta di misure che avranno il maggiore effetto [sulla Russia].… Allo stesso tempo, dobbiamo considerare le conseguenze che questo avrà per noi», una velata allusione alla significativa dipendenza della Germania dall’energia russa e alla sua storica riluttanza a rischiare interruzioni energetiche per il bene dei suoi vicini. Le sue dichiarazioni hanno suscitato scalpore a Washington. In effetti, «gran parte della copertura stampa ha ritratto la dichiarazione di Scholz come un indicatore del fatto che la Germaniasemplicemente non era disposta a fare la dura con la Russia, presentando il Paese come un potenziale spoiler dell’unità occidentale», affermano Emma Ashford, ricercatrice presso lo Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council, e Rachel Rizzo, ricercatrice senior presso l’Atlantic Council’s Centro Europa.
Parlando di Germania, infatti, l’ostacolo che si frappone è il gas.
Quasi la metà della fornitura di gas di Germania e Polonia proviene dalla Russia; Paesi come Slovacchia, Lettonia, Estonia e Finlandiadipendono quasi al 100%. Inevitabile, dunque, che la Germania freni sul fronte delle sanzioni. Il Paese si è prima rifiutato di fornire armi all’Ucraina, come per altro ha fatto anche l’Italia, e poi è al lavoro cercando di evitare non solo sanzioni che colpirebbero il gas, ma anche qualsiasi scontro fosse pure solo dialettico con Mosca, rifiutando i toni duri e minacciosi di Washington. E proprio a causa della situazione difficile in cui si trova, la Germania è stata in gran parte messa da parte dalle discussioni in corso sulle sanzioni.
L’intransigenza tedesca espressa da Scholz, spiegano Ashford e Rizzo, è espressione della continua dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, riflette «la difficile realtà che gli Stati europei devono affrontare mentre cercano di trovare una risposta al potenziamento militare della Russia nel bel mezzo di una crisi energetica invernale. I responsabili politici devono affrontare la scelta di Hobson: esentare le transazioni energetiche da potenziali sanzioni ed è improbabile che siano efficaci; o includere transazioni energetiche e sostenere quelli che potrebbero essere costi estremi per le economie occidentali».
«La Germania, e più in generale l’economia europea, è fortemente dipendente dall’energia russa. Tuttavia, il governo russo è anche fortemente dipendente dai profitti derivanti dalla vendita di quell’energia. I responsabili politici in Germania sono consapevoli che questa è tanto una storia di interdipendenza quanto di dipendenza, che limita la misura in cui la Russia può usare l’energia come randello. Quasi il 38 per cento delle importazioni di gas naturale dell’UE proviene dalla Russia, il che rappresenta circa il 70 per cento delle esportazioni russe di gas naturale. Nel 2021, il solo mercato europeo delle esportazioni di gas valeva quasi 50 miliardi di dollari per la Russia. Una chiusura in entrambe le direzioni sarebbe reciprocamente disastrosa per le economie interconnesse».
«I responsabili politici tedeschi hanno quindi ragione sull’attuale difficoltà di utilizzare l’energia come strumento per imporre cambiamenti nei comportamenti, sia da parte dell’UE che da parte russa», affermano Emma Ashford e Rachel Rizzo. «La crisi non poteva arrivare in un momento peggiore per il nuovo governo», nel contesto del quale Olaf Scholz deve cercare di «bilanciare l’opinione pubblica, le divisioni all’interno del suo stesso partito e la pressione dei Verdi aggressivi – che sovrintendono sia al Ministero degli Esteri che al Ministero dell’energia e del clima- e vogliono prendere una linea più dura contro Russia e Cina».
Non bastasse, la questione gas insinua anche diffidenze tra le due sponde dell’Atlantico: che quella in atto sia una guerra tra il gas americano e il gas russo per l’accaparramento del mercato europeo.
«La realtà della sicurezza energetica dell’Europa suggerisce che potrebbe essere impossibile raggiungere l’unità alleata attorno all’attuale posizione di Washington», affermano le due analiste dell’Atlantic Council.
E probabilmente non è soltanto la sicurezza energetica, per quanto sia di capitale importanza, quella che si sta profilando sembra lo sfaldamento di un matrimonio causa fine dell’amore, dopo una serie di tradimenti, sfilacciamenti vari, dispetti, recriminazioni, ma soprattutto scelte di vita diverse. La crisi ucraina potrebbe certificare la fine di un percorso, o almeno l’inizio di una fine.