giovedì, 23 Marzo
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Turchia: là dove il pluralismo informativo non è di casa

Mentre Strasburgo giorno dopo giorno lancia appelli alle forze turche affinché fermino il sanguinoso assedio nella Ghouta orientale, con il Presidente Recep Tayyip Erdogan che fa orecchie da mercante, anche in Turchia c’è qualcosa che lentamente va a morire: il pluralismo informativo.
Così, a un anno e otto mesi da quel 15 luglio 2016 non si fa fatica a definirla  -come in tanti hanno già fatto-  «la più grande prigione di giornalisti al mondo». I dati sono allarmanti e ci vengono forniti da Antonella Napoli, referente in Italia per la campagna Free Turkey Media. Ad oggi i giornalisti in carcere sono 120, 520 invece hanno processi in corso. Non solo, ma sono state chiuse ben 178 testate, 16 canali televisivi, 24 stazioni radio, 63 quotidiani, 20 riviste e 30 case editrici; chiaramente, questo smantellamento di massa ha provocato licenziamenti per migliaia di persone. C’è stato poi addirittura un caso, decisamente anomalo, di auto-censura: nel febbraio dello scorso anno un settimanale satirico,Girgir’, ha deciso di chiudere i battenti per volere dei suoi stessi editori, a seguito di una vignetta definita dal portavoce di Erdogan, Ibrahim Kalin, «un fatto immorale che nulla a che fare con la libertà di stampa».

Abbiamo fatto il punto della situazione con Alberto Negri, Senior Advisor dell’Ispi, Istituto di studi di politica internazionale, che nel pomeriggio di ha partecipato ad un incontro dal titolo ‘Turchia: la grande prigione dei giornalisti’ a Roma, presso la sede della Federazione nazionale della Stampa italiana, insieme ad Antonella Napoli, Riccardo Noury di Amnesty International Italia e Murat Cinar.

 Negri, esistono ancora testate giornalistiche indipendenti in Turchia? esistono e soprattutto resistono?

Intanto, pensare che ad oggi esistano testate indipendenti in Turchia è un’illusione, tant’è vero che addirittura è stato bloccato anche ‘Ahval’, un sito di informazione diretto da Yavuz Baydar, uno dei migliori giornalisti turchi, inviato di Zaman (una delle testate vittime della censura del governo turco, ndr.): insomma, un sito con sede a Londra e Parigi è stato bloccato fuori, si figuri cosa accade dentro! Oggi una delle pochissime fonti ancora affidabili è ‘Hürriyet’, giornale della borghesia turca che fa parte del Gruppo Dogan e che è stato messo in vendita a Demiroren, editore vicino a Erdogan, con un passo ulteriore verso la riduzione degli spazi per i media indipendenti dal potere. Ma la stampa e le televisioni sono continuamente messe sotto pressione, come è messo sotto pressione anche il web. Basti pensare cos’è accaduto recentemente con l’invasione turca della zona nord siriana, che addirittura sono stati arrestati coloro che su Facebook e Twitter esprimevano opinioni di dissenso nei confronti di questa operazione militare, questo di per sé lascia immaginare qual è oggi la libertà di stampa. la stampa e le televisioni hanno la museruola in Turchia. A questa situazione della stampa è stata accompagnata poi anche la repressione politica estesissima, che ha visto l’arresto di tutta la leadership del partito curdo HDP. In poche parole, ci troviamo di fronte a una sorta di autocrazia travestita da democrazia al punto che la stessa Unione Europea, lo stesso presidente Macron che aveva ricevuto a gennaio Erdogan all’Eliseo, sono stati molto chiari: questa Turchia in Europa non ci può entrare.

 La chiusura di queste testate giornalistiche che effetto ha provocato sull’opinione pubblica e sulla democrazia turca?

Quando hai una stampa e dei media sottoposti a una continua censura, con arresto dei giornalisti, minacce e costrizioni, è evidente che questo debba avere un effetto sull’opinione pubblica; un’opinione pubblica in cui naturalmente ha da una parte la metà del Paese, o poco più della metà, che sostiene ancora Erdogan e l’AKP (cosa che si è vista nei numeri del referendum costituzionale dell’aprile dell’anno scorso), dall’altra parte c’è un 40-45% del Paese che in qualche modo è contrario a questo andamento negativo della Turchia, questo tenendo presente che il presidente Erdogan ha iniziato l’operazione militare nel Kurdistan siriano proprio anche in vista delle elezioni presidenziali del 2019. Quindi da un lato repressione delle espressioni democratiche, dall’altro un evidente tentativo di cogliere fuori un successo militare e politico e diplomatico da sbandierare in vista delle elezioni dell’anno prossimo. I settori che vengono colpiti molto evidentemente da questa cosa sono quattro: la stampa, la politica, la magistratura e l’economia. Perché alla repressione dei media, alla repressione in campo politico, si accompagna una magistratura che è sempre meno indipendente, oppure addirittura opera con delle chiarissime violazioni della stessa carta costituzionale turca: se ne può fare un esempio molto concreto parlando del giornalista Ahmet Altan (ex direttore del quotidiano indipendente ‘Taraf’, chiuso anche questo, ndr.), arrestato nel settembre del 2017, condannato a trent’anni di carcere o addirittura sotto possibile pena di ergastolo. La Corte costituzionale aveva stabilito la sua scarcerazione insieme a quella di altri giornalisti; questa liberazione, però, è stata disattesa con una decisione del tribunale ordinario che si è addirittura opposto alla decisione della Corte costituzionale turca. C’è quindi un corto circuito molto evidente per quanto riguarda la magistratura, mentre per quanto riguarda la libertà di stampa, questa è ormai decisamente decapitata. Purtroppo sono caduti nella rete anche personaggi come lo stesso Ahmet Altan, vittime molto spesso di accuse artefatte necessarie proprio per eliminare personaggi che avevano grande presa sull’opinione pubblica.

 Perché fino ad ora da parte dell’Europa non si è visto un grande impegno nel salvaguardare la democrazia turca e cosa invece potrebbe ancora fare?

L’ascesa di Erdogan e anche la sua deriva autocratica e autoritaria hanno avuto come complice l’Europa e l’Occidente: questa complicità è stata duplice, perché durante gli anni successivi alla presa del potere, (perché la prima elezione del AKP è stata vinta del 2002) quindi dal 2002 al 2010, l’Unione Europea è stata la “stampella” che ha supportato la presa del potere completo di Erdogan, il quale aveva dei negoziati con la stessa. Contemporaneamente invocava le regole europee per contrastare i suoi concorrenti nella corsa al potere, come per esempio le forze armate. L’UE non si accorgeva, nonostante gli avvertimenti vari (come quello del sottoscritto), che in realtà il partito AKP e Erdogan avevano un disegno egemonico sulla società turca. Non si sono afferrati, in Occidente, i piani egemonici del partito musulmano moderato, che era sì moderato nelle sue espressioni politiche e sociali, ma allo stesso tempo non rinunciava e anzi puntava all’egemonia della società turca. Poi c’è stata anche l’incapacità di gestire la situazione soprattutto a seguito dei fatti di piazza Taksim nel 2013; è mancata la forza da parte di Stati Uniti e Unione Europea di sanzionare Erdogan, che poi ha avuto in realtà una terza complicità, quella più grave di tutte, la guerra di Siria. Nonostante le ultime prese di posizione come quella di Macron, anche l’Italia si è resa complice di Erdogan quando è venuto recentemente a Roma e nessuno del governo ha avuto il coraggio di dirgli che con questa situazione non poteva e non può entrare in Europa. Cosa che invece aveva fatto Macron un mese prima, quando l’aveva ricevuto all’Eliseo in una pubblica conferenza stampa. Il risultato è stato che poi Erdogan ha addirittura messo un blocco navale militare alla piattaforma Saipem di Cipro. È evidente che questi continui cedimenti e questa complicità sulla guerra di Siria sono pagati in maniera salatissima. La Turchia ha preso una deriva sempre più antioccidentale e anti-Nato: un membro dell’alleanza atlantica dopo esser stato sull’orlo del conflitto con la Russia, si è addirittura dovuto metter d’accordo con Mosca e con Teheran per salvaguardare i propri confini e in qualche modo allontanare l’incubo di un possibile stato siriano o di una regione autonoma siriana ai suoi confini. Oggi Erdogan attua una politica che definirei del pendolo: un’oscillazione fra est e ovest, cercando di massimizzare la sua posizione strategica in quell’area e oscillando appunto fra l’alleanza atlantica e gli accordi con Mosca e con Teheran. In sostanza, l’Europa potrebbe fare, ma non vuole fare.

 

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