mercoledì, 22 Marzo
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Tunisia al voto: dal caos populista alla rinascita democratica?

La Tunisia si appresta a un doppio turno di elezioni, le presidenziali, il 15 settembre -se nessuno dei candidati ottiene la maggioranza assoluta dei voti nel primo turno, un secondo turno si terrà entro due settimane dall’annuncio dei risultati finali del primo turno, previsti per il 21 settembre-, le amministrative il 6 ottobre.
L’appuntamento per le presidenziali era stato inizialmente fissato per il 17 novembre, è stato anticipato causa la morte del Presidente Beji Caid Essebsi, lo scorso 27 giugno 2019, perché il Presidente ad interim può mantenere legalmente l’incarico per un massimo di novanta giorni, fino al 23 ottobre.

Il 15 settembre, 6,7 milioni di tunisini si recheranno alle urne per scegliere tra 26 candidati alla presidenza, i quali avranno pochissimi giorni -dal 2 settembre- per presentarsi e presentare i propri programmi a elettori che hanno dimostrato, nel corso delle ultime tornate elettorali, molta disaffezione e sfiducia per per la politica, in particolare per i partiti tradizionali  -vecchi e nuovi. 

Il contesto politico è caratterizzato da una aspra lotta tra chi vuole portare a termine la rivoluzione del 2011 (la così detta ‘Rivoluzione dei Gelsomini’), e rompere con il passato, e chi desidera la continuità con il vecchio regime
All’interno di questa lotta si inserisce il conflitto tra le forze politiche laiche e quelle islamiche

In questo contesto, che ha visto la proliferazione di partiti e candidati indipendenti, outsider della politica, quasi sempre dal marcato tratto populista, è spuntata, con il sostegno del Partito Liberale, la candidatura alla presidenza di Mounir Baatour, avvocato presso la Corte di Cassazione , dichiaratamente omosessuale e difensore dei diritti degli LGBT.
La candidatura di Baatour ha rappresentato una novità assoluta nel mondo arabo -basti vedere il risalto che ha avuto sui media internazionali-, dove l’omosessualità è praticata con discrezione, mai dichiarata e punibile per legge. La Tunisia non fa eccezione, anche se è uno dei Paesi islamici più all’avanguardia sui diritti umani, in particolare per le donne. L’omosessualità qui è ascritta al reato di sodomia, punibile fino a 3 anni di reclusione. 

A seguito della rivoluzione del 2011, è sorta la prima web radio gay ‘Shams Rad’, sostenitrice della  battaglia per la depenalizzazione dell’omosessualità. È, infatti, ormai opinione diffusa tra la popolazione che l’essere gay non debba costituire reato. Nell’aprile del 2018 si è svolto a Tunisi il secondo festival gay in tutto il Maghreb.  ‘Shams Rad’ ha contribuito al nascere di un dibattito nazionale sulla depenalizzazione. Argomento che è entrato a far parte dei programmi politici di vari partiti e candidati.
Baatour fa parte di un pool di giuristi che si sta battendo affinché l’articolo 230 che punisce l’omosessualità venga cancellato dal Codice Penale. Vari giuristi sono fortemente convinti che l’amore tra due persone dello stesso sesso riguardi la sfera privata del cittadino e quindi non dovrebbe interessare la legge tunisina.  Su queste basi ha preso consistenza il dibattito sulla depenalizzazione.

Ed è proprio questo dibattito nazionale sull’omosessualità che l’avvocato Baatour intendeva sfruttare nella sua campagna elettorale, pur precisando che la difesa dei diritti LGBT non era l’unico argomento del suo programma politico.
Nonostante il suo impegno per la causa, Baatour si è scontrato con lo scetticismo e la diffidenza della comunità gay del Nord Africa. Una ventina di associazioni gay del Nord Africa e del Mediterraneo hanno sostenuto che la candidatura di Baatour rappresentava un pericolo per la comunità gay tunisina, causa una oscura storia di sodomia con un ragazzo minore di 17 anni che risale al 2013, vicenda che ha visto il giurista  condannato a tre mesi di prigione. 

«Riteniamo che l’avvocato Baatour non rappresenti in nessun modo la comunità LGBT in Tunisia. Consideriamo la sua candidatura alla Presidenza legata ai temi dell’omosessualità una minaccia per la nostra comunità» Questa dichiarazione fa parte di una petizione firmata da 18 associazioni gay del Nord Africa, tra queste 11 sono tunisine.
L’opposizione di queste associazioni gay si è trasformata in un boomerang per l’avvocato Baatour.  

La candidatura dell’avvocato Mounir Baatour è stata respinta mercoledì 14 agosto dalla Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni (ISIE). Ad ostacolare la candidatura non è stata la pena scontata da Baatoru, in quanto la legge prevede che si possano accettare le candidature di persone condannate che abbiano pagato il loro debito con la giustizia, a meno che le autorità giudiziarie abbiano espressivamente emesso l’interdizione a ricoprire cariche pubbliche.
L’ostacolo maggiore è stato il sentimento omofobo di una parte delle istituzioni tunisine che hanno considerato la richiesta dell’avvocato gay a partecipare alle Presidenziali come un oltraggio alla moralità del Paese. La comunità gay tunisina non sostenendo Baatour ha dato prova di immaturità politica, e ha mancato l’occasione di provare avere un suo rappresentante nel cuore dello Stato.
La lotta per depenalizzare il reato di omosessualità si inserisce nel contesto della lotta tra la società laica tunisina e le forze islamiche che tendono a conquistare progressivamente il potere. Se da una parte vi è un clima favorevole alla comunità LGBT, dall’altra la magistratura continua a perseguire le minoranze sessuali, e parte della popolazione è apertamente ostile. 

Una candidatura, quella di Baatour che è anche l’espressione del clima politico del Paese.
La popolazione si sente stretta nella morsa dei partiti islamici e delle forze che spingono per ritornare alla dittatura. Molti tunisini considerano l’attuale classe dirigente popolata da traditori del Paese, incapaci di fare decollare l’economia, interrompere i flussi migratori verso l’Europa causati dalla povertà, e far fronte  al pericolo dell’Islam radicale.
Secondo un sondaggio condotto dall’International Republican Institute, l’87% degli intervistati ritiene che il Paese stia andando politicamente nella direzione sbagliata.
La gente ha bisogno di solidarietà e di reale cambiamento. E la reazione si esprime, da una parte, nel proliferare degli indipendenti e populisti, frutto della formazione di in un movimento popolare dal basso dall’orientamento politico assai confuso, dall’altra si stanno creando istituzioni popolari parallele a quelle dello Stato. Sono sorti collettivi di solidarietà finanziaria che prestano denaro senza interessi senza passare dal circuito finanziario ufficiale, così come scuole parallele a quelle statali non a fine di lucro.
Recenti sondaggi rilevano come il sentimento di ribellione all’attuale sistema stia crescendo tra gli elettori e il rischio è di una forte astensione. Nelle precedenti elezioni municipali solo il 20% degli elettori si è recato a votare. Molti degli intervistati nel corso dei sondaggi esprime il desiderio di ritornare all’ordine garantito dal regime di Ben Ali. La disillusione nei confronti dei partiti e dell’establishment, e la confusione la fanno da padrone, insieme ad un attivismo politico che esprime la ribellione nel sostegno agli outsider populisti.
Un quadro caratterizzato, dunque, dalla crisi dei partiti tradizionali, dall’avanzare di forze populiste, dalla frammentazione del quadro.

Le 26 candidature alle presidenziali sono la fotografia fedele di questa situazione.  Tra i 26 spiccono importanti figure politiche, quali il Ministro della Difesa Abdelkarim Zbidi e il Primo Ministro Yūssef al-Shāhed.  Zbidi, 69 anni, supportato dalle Forze Armate, con un programma che si concentra sulla sicurezza nazionale e la lotta contro l’Islam radicale e i gruppi terroristici, rivendica l’eredità del ex Presidente Essebsi. Zbidi è il più serio rivale del Primo Ministro Shahed, 43 anni, alla sua prima candidatura alle presidenziali per il partito Tahya Tounes (Viva la Tunisia), fondato il 27 gennaio 2019. 

Tra gli altri candidati, vi è il ricco uomo d’affari e magnate della stampa Nabil Karoui, recentemente accusato di riciclaggio di denaro e sospettato di essere in contato con il ‘Signore della Guerra’ libico Abdelhakim Belhadj, a capo del partito conservatore islamico Al-Watan (la Patria).

Nonostante la condanna e i sospetti di simpatie islamiche, Karoui è molto popolare, e la sua candidatura rappresenta l’intrusione del mondo imprenditoriale tunisino nella politica nazionale, un fatto che non ha precedenti nella storia del Paese. La sua campagna elettorale potrebbe avere il sostegno finanziario dei generali algerini, con i quali Belhadj mantiene da anni strette relazioni. 
Concorre anche una donna, Abir Moussi, avvocato presso la Corte di Cassazione, acerrima nemica della comunità gay tunisina, membro del forum nazionale degli avvocati che prestano consulenze presso il Rassemplement Costitutionnel Démocratique (RCD), il partito del ex dittatore Zine el-Abidine Ben Ali e Segretario Generale dell’Associazione Tunisina delle Vittime del Terrorismo. La Moussi si dichiara apertamente nostalgica del regime di Ben Ali e promette di sradicare l’islamismo estremista, sostenendo che la rivoluzione ha portato il Paese al caos e al sorgere dell’Islam radicale. 

Il partito islamico al Governo, Ennahdha (Movimento della Rinascita), nato nel 1981, messo fuorilegge e costretto per 20 anni ad agire in clandestinità, che dopo la rivoluzione del 2011 si è orientato verso un Islam moderato, dichiarandosi un partito di mussulmani democratici e prendendo le distanze dall’ideologia dei Fratelli Mussulmani, per poter far breccia in una Tunisia fondamentalmente laica, ha candidato Abdelfattah Mourou.  Un avvocato che, in tempi non sospetti, ha preso chiaramente le distanze dalle posizioni più conservatrici del suo partito.
Mourou è ritenuto un moderato dialogante -caratteristica che gli ha guadagnato l’accusa di essere un ‘camaleonte’, di non avere una chiara posizione sull’Islam nella società tunisina. Il suo obiettivo dichiarato è quello di ‘unire’ i tunisini, e, secondo gli osservatori politici è il candidato più appetibile che Ennahda potesse offrire alla Tunisia laicaDalla sua ha la forza del partito, quella classica di un partito ‘popolare’, molto coeso, che ha un ottimo radicamento, ottime reti nella Tunisia profonda, a differenza delle forze laiche che si sono frantumate in svariati partiti.
Secondo alcuni osservatori, Ennahda sta cercando di nascondere il volto conservatore e di promuovere quello modernista, la candidatura di Mourou ne è l’espressione, e potrebbe convincere l’ala moderata degli elettori di Ennahda così come i laici.
La sua predisposizione al dialogo con tutti gli avversari e il suo profilo moderato e modernista lo fa essere molto adatto per l’accoglienza da parte della comunità internazionale, da Bruxelles -in Europa è molto forte la diaspora tunisina- a Washington. 
Una capacità di dialogo che sarà preziosa anche per far ingoiare ai tunisini le riforme economiche orientate al mercato che sono state sollecitate dal Fondo Monetario Internazionale e che rientrano nelle intenzioni di Ennahda ma che sono osteggiate dai sindacati e da una consistente fascia di popolazione, in sofferenza causa la crisi economica che ha aggredito il Paese.

Secondo i primi sondaggi Moussi ha al momento un 15% dei voti, Nabil Karoui, che incarna l’ondata di populismo in salsa tunisina si sta rafforzando, tanto che godrebbe già del 22% dei voti. Pare certo, altresì, che  Ennahda, Heart of Tunisia, Tahya Tounes non avranno il 25-30% dei voti. 

Per quanto i sondaggi tunisini non siano tra i più affidabili, si può intravedere già ora, a campagna elettorale non ancora iniziata, come queste elezioni potrebbero segnare l’avvio di una nuova fase politica, complessa e incerta per il Paese, come sostiene una recente analisi dell’ISPI, che identifica nella morte del Presidente tunisino e nell’anticipazione del voto, il punto di caduta. «La scomparsa del Presidente rischia di mettere a nudo tutte le debolezze del Paese: una difficile governabilità tra forze politiche di natura e orientamento molto diverso, alti tassi di disoccupazione uniti a una emarginazione economica e sociale di alcune parti del paese, e non ultimo il pericolo dell’islamismo armato».
Queste elezioni presidenziali e ancor più quelle legislative, secondo gran parte degli analisti internazionali, saranno una prova di capitale importanza per la democrazia tunisina e definiranno la sua struttura democratica, quanto meno la struttura della fase di transizione verso la democrazia compiuta.

Le elezioni legislative -in un Paese che ha 220 partiti, sono state ammesse 1.503 liste, di cui 673 liste di partiti, 312 liste di coalizione e 518 liste indipendenti- saranno probabilmente quelle che evidenzieranno, più delle presidenziali, il caos che dovrà sopportare la Tunisia in questa fase.

La morte di Essebsi ha cambiato l’ordine dello svolgimento delle elezioni, con le presidenziali che si svolgono prima delle legislative, il che potrebbe influenzare il modo in cui la gente vota in entrambe le tornate. La campagna elettorale per le presidenziali sta eclissando le elezioni parlamentari, quando, considerato il sistema che esprime la Tunisia, è il Parlamento l’organo centrale per la democrazia. Una campagna elettorale che mostra scarsa attenzione per i programmi, le proposte, e piuttosto è concentrata sui singoli candidati, su quello che viene definito ‘culto della personalità’.  Chi vince le elezioni presidenziali può influenzare il voto alle parlamentari e ottenere la maggioranza.
Considerato che sono cresciuti i nuovi partiti politici e i candidati indipendenti, potrebbero essere loro i protagonisti del futuro Parlamento tunisino, che sicuramente sarà caratterizzato dalla frammentazione. 
E, secondo alcuni osservatori, proprio questi nuovi soggetti potrebbero rappresentare la rinascita della dinamica democratica della Tunisia e forse la fine del dominio dei partiti tradizionali. In questo contesto anche  Ennahda, potrebbe subire un drastico ridimensionamento.

Che dal caos  -che pare l’unica certezza a poco meno di un mese dalla prima tornata elettorale-  possa nascere, certo non a breve, la democrazia compiuta è la previsione che alcuni analisti azzardano, sottolineando come questa parabola tunisina sia molto più somigliante a quella dei Paesi europei che ai percorsi che stanno facendo gli altri Paesi africani alla ricerca della democrazia. 

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