L’atteso verdetto su quella che sarà la strategia americana nella guerra in Afghanistan è atteso per questa sera (in America). Lo aveva annunciato la Casa Bianca nei giorni scorsi, simultaneamente alla notizia delle dimissioni di uno dei consiglieri chiave di Trump fin dalla campagna elettorale, Steve Bannon. Alcuni analisti americani hanno intravisto una stretta correlazione fra i due avvenimenti, considerando la centralità del ruolo di Bannon su argomenti di politica estera in netta controtendenza con quanto promosso da altri consiglieri del Presidente.
Uno dei dibattiti che più ha tenuto banco fra i palazzi di Washington è stato quello relativo alla situazione afgana. La guerra in Afghanistan è un conflitto che va avanti ininterrottamente dal 2001, essendo stato il primo obiettivo della reazione statunitense ed occidentale agli attentati dell’11 settembre. Da allora, l’impegno militare nel Paese per riuscire a controllare e debellare la presenza talebana ha previsto un ingente utilizzo di risorse umane e monetarie, con investimenti di miliardi di dollari e risultati discutibili. A fronte di un impegno di forze armate statunitensi e NATO, la situazione nel Paese mediorientale non è tutt’oggi risolta, con numerose aree del Paese ancora sotto l’influenza di gruppi legati al fondamentalismo islamico.
Nessuno avrebbe potuto prevedere che la guerra iniziata nel 2001 potesse durare così a lungo. L’utilizzo di forze armate, arrivato fino ad un massimo di 100 mila truppe, è stato impiegato in chiave antiterroristica per ridurre l’influenza dei Talebani nel Paese, e, in visione futura, per formare un esercito afgano che potesse essere in grado di contrastare, senza aiuti internazionali, le cellule terroristiche ancora attive. Dopo un impegno costante di oltre dieci anni, e dopo aver offerto supporto per le elezioni del 2004, 2009 e 2014, NATO e Usa avevano deciso, proprio nel 2014, di avviare un progetto di demilitarizzazione dell’Afghanistan, forti del fatto che i distretti controllati dai Talebani erano stati ridotti a soli quattro sui 372 totali.
A fronte di questi risultati, e consapevole del dissanguante impegno economico e armato sostenuto fino ad allora, la NATO aveva ridotto la presenza militare fino ad un massimo di 15 mila unità, in gran parte legate al programma Train, Advise, Assist (TAA), ovvero quello relativo la formazione militare delle truppe afgane in chiave antiterrorismo. Tuttavia, il piano di progressiva demilitarizzazione non ha dato i suoi frutti. Anzi. Dal 2014 al 2017 si è registrato un incremento dell’influenza talebana nel Paese, che, ad oggi, avrebbe il controllo su circa un terzo della popolazione afgana. Non solo. Nel Paese sono nate nuove cellule legate all’ISIS, che hanno determinato un incremento degli attentati, uno dei più recenti a marzo di quest’anno.
Proprio per questo, l’Amministrazione Trump, come la NATO stessa, avevano annunciato un probabile aumento delle forze armate nei prossimi mesi, sebbene ancora nulla di specifico a livello di strategia militare e impegno di risorse sia ancora trapelato. I soli annunci arrivati da Trump parlavano vagamente di uno sforzo militare fra le tremila e le cinquemila unità in più, senza offrire ulteriori dettagli su nuove e diverse modalità d’intervento.
Il silenzio della Casa Bianca e la poca chiarezza in merito hanno trovato motivo d’essere negli scontri interni all’Amministrazione stessa, relativi a quale potesse essere la strada da seguire nel contesto afgano. È proprio in questo scenario che assume importanza il ruolo di Steve Bannon e lo stretto rapporto fra le sue dimissioni e l’annuncio della strategia futura di Trump. Il neo dimissionario Capo stratega americano aveva, fino ad oggi, rappresentato un elemento di ostruzionismo alla strategia interventista voluta da altri funzionari. Schieratosi da sempre contro i cosiddetti ‘globalists’, Bannon spingeva ostinatamente verso la ‘guerra economica alla Cina’, unico vero pilastro che avrebbe dovuto seguire la politica estera americana, invece di concentrarsi su sforzi bellici secondari come quelli, ad esempio, in Afghanistan.
Steve Bannon ha rappresentato la voce fuori dal coro dalla politica estera Usa, sempre in aperto contrasto con i membri più rappresentativi dell’establishment repubblicano, tra cui il Segretario della Difesa John Mattis, il Segretario di Stato Rex Tillerson e il Capo di Gabinetto John Kelly. La decisione di rassegnare le dimissioni è stato l’atto conclusivo di un rapporto che non poteva più continuare, considerando il completo disaccordo fra Bannon e le altre voci forti della Casa Bianca.
Ora che l’ex consigliere di Trump ha lasciato, la linea di John Kelly sarà verosimilmente quella che prevarrà per la politica estera statunitense, quindi anche in relazione a quanto succederà in futuro in Afghanistan. Tuttavia, alcuni analisti hanno sottolineato come l’abbandono di Bannon dei centri del potere potrebbe, paradossalmente, determinare una sua influenza maggiore sulla Casa Bianca. Questo grazie al suo peso come opinionista e al megafono rappresentato dal portale online ‘Breitbart’, giornale di estrema destra di cui Bannon è stato presidente esecutivo prima del suo mandato per la Casa Bianca, e di cui ora tornerà ad occuparsi, come da lui stesso dichiarato. Un canale che Bannon potrà usare liberamente per sostenere le proprie idee e portare dalla sua parte una fetta dell’opinione pubblica, un potenziale gruppo di pressione ulteriore sulle scelte future di politica estera del Presidente.
Detto questo, rimane da vedere quale sarà l’effettiva strategia portata avanti dagli Stati Uniti per cercare di superare la situazione di stallo afgano. Benché ora sia più chiaro quale delle due linee di intervento sia prevalsa, l’ultima parola spetta al Presidente Trump, che in Bannon ha sempre riposto completa fiducia, salvo negli ultimi mesi. La linea politica di Bannon ha dato, del resto, un chiaro segno all’Amministrazione Trump fin dall’inizio, promuovendo un modello isolazionista, che tenesse conto del rapporto effettivo tra sicurezza interna americana e missioni all’estero. Una strategia molto in linea con le idee di Trump, ma che ha portato a duri scontri interni. La situazione fra il Governo e Bannon si è infatti progressivamente incrinata. Prima, con la rimozione del nome di Bannon dal National Security Council lo scorso aprile, poi, con l’intervista rilasciata da Bannon al ‘The American Prospect’, che aveva messo in imbarazzo la presidenza Usa e posto ancora più in cattiva luce il Capo stratega di Washington. Nell’intervista Bannon definiva dei clown i suprematisti bianchi dei quali aveva cercato l’appoggio durante le presidenziali, e aveva smentito la politica aggressiva annunciata da Trump nei confronti della Corea del Nord.
Nelle prossime ore vedremo quindi quale sarà la decisione di Trump. Al momento, nel Paese arabo sono presenti 8400 truppe statunitensi e 5000 truppe NATO, in una situazione che, dal primo gennaio fino a maggio di quest’anno, ha registrato la morte di 2500 unità tra forze di polizia e truppe afgane. Con l’abbandono di Bannon, naufraga probabilmente anche una proposta che, nelle ultime settimane, l’ex Capo stratega aveva sostenuto apertamente: affidare il dilemma Afghanistan ad un esercito mercenario guidato da un Governatore plenipotenziario in diretto dialogo col Presidente. Una soluzione che avrebbe voluto aggirare la burocrazia di Washington affidando il comando ad una singola persona. Un’idea tanto bizzarra quanto divenuta reale proprio grazie all’appoggio di Bannon e alla pressione di diverse lobby militari nei palazzi del potere americano.
In realtà, il fallimento di fondo della questione afgana, così come evidenziato da un report di questo luglio di Remote Control, sembra essere molto più legato alla mancanza di una strategia politica piuttosto che da una carenza in ambito militare. La proliferazione di elementi legati al terrorismo islamico, così come il ritorno al potere dei talebani dopo il ritiro delle truppe voluto da Obama, è stata in gran parte determinata da un sistema sociale corrotto e non in grado di garantire stabilità politica al Paese. In situazioni in cui non esistono istituzioni forti e riconosciute e in cui si vive in un’atmosfera di grave incertezza sociale, l’ascesa al potere di movimenti armati è molto più probabile che in altri contesti. In questi anni, continua il report, è mancata la volontà politica di portare i diversi attori del territorio intorno ad un tavolo per identificare strategie comuni e durature. Per questo, la possibile decisione di aumentare la presenza armata in un conflitto che dura ormai da sedici anni sembra una soluzione scontata e, sostanzialmente, inutile.