Il tour di Donald Trump in Estremo Oriente e Sud Est Asia sta avendo ed ha avuto diversi ‘picchi’ di interesse nei media globali, soprattutto occidentali, alla luce di alcuni fattori come il contesto più pragmaticamente proficuo degli scambi commerciali (in specie in merito allo squilibrio additato da Trump negli interscambi con la Cina) ed ovviamente nel campo più squisitamente diplomatico, in particolare la ripresa ‘al volo’ del dialogo tra Trump e Putin e la sempre calda situazione nordcoreana.
Al di là della maggiore o minore rappresentatività mediatica di alcuni temi rispetto ad altri, alcuni osservatori e fruitori dei media si chiedono come mai non vi siano state manifestazioni pubbliche orchestrate contro la visita di Trump, un po’ come accade durante i meeting del G8 quando tutta l’ala della protesta estremista globale si riunisce precisa come un orologio svizzero per attuare forme di protesta estrema, spesso distruttiva. I più attempati tra i lettori ricorderanno certamente che specie negli Anni ’70, ogni visita di un Presidente USA era quasi demonizzata dalle proteste di larga parte della gioventù mondiale in particolare in merito al ruolo detenuto dagli USA a sostegno delle dittature militari in Sud America, ritenuto all’epoca il ‘giardino di casa’ degli Stati Uniti, oppure in relazioni alle pesanti e violente operazioni militari condotte in Vietnam, dove vi furono bombardamenti il cui volume complessivo è passato alla Storia planetaria e per l’utilizzo di sostanze oggi ritenute bandite dalle Convenzioni internazionali, i cui effetti sono manifesti ancor oggi, dopo più di 40 anni, sia negli ecosistemi asiatici sia nelle locali popolazioni.
In Cina le proteste non fanno parte dello scenario comunicativo nazionale, per evidenti motivi: abbiamo tutti in mente quel che accadde durante la protesta in Piazza Tienanmen, il ragazzo con il sacchetto di plastica che si oppone ad un carro-armato e soprattutto la violenta, chirurgica e pervicace persecuzione a cui furono sottoposti tutti coloro che a quella protesta aderirono. Al giorno d’oggi non è consentita nemmeno la protesta attraverso i nuovi media, come accade ai blogger.
Ma durante il tour del novembre 2017 di Trump, sebbene non numerose o vistose come ci si sarebbe atteso, pur non sono mancate le proteste. Nelle Filippine in particolare, dove il Presidente Rodrigo Duterte certo non si è lasciato sfuggire l’occasione e ha lanciato accuse pesanti verso gli USA a all’Amministrazione di Barack Obama (definito dal Presidente filippino ‘a son of a whore‘) reo di aver additato anche in sede ONU la violenta campagna militare e di polizia messa in campo contro il narcotraffico nelle Filippine, che ha condotto a migliaia di morti tra i civili disarmati e innocenti. Si tenga conto del fatto che lo stesso Duterte aveva promesso in campagna elettorale che avrebbe ucciso anche più di 100.000 persone se ne fosse valsa la pena, pur di debellare il mondo della droga nelle Filippine. Da quando Duterte è entrato in carica, 16 mesi fa, ad oggi, la Polizia ammette di aver ucciso 3.967 persone. Altre 2.290 sono state uccise pur sempre per reati connessi con la droga, mentre migliaia di altre morti sono ancor oggi materia controversa, secondo i dati messi a disposizioni dalle stesse agenzie governative filippine preposte al settore. Si consideri che proprio in queste ore, lo stesso Duterte ha confessato di aver ucciso una persona quando aveva 16 anni con una coltellata (il portavoce ha sconfessato dicendo che era uno scherzo, ma si sa, quando si tratta di Duterte non si sa mai quando scherza e quando non scherza affatto).
Con Trump le cose vanno meglio, Duterte che ha adottato una politica ‘switch swing’ tra Cina e USA secondo le convenienze (facendo persino finta di mettere in secondo piano le controverse con la Cina circa le contese nelle acque del Mar Meridionale Cinese, quando il caso lo riteneva opportuno), oggi si fa ritrarre in mondovisione con un flute in mano e brinda con Trump in nome della rinnovata (e storica) amicizia con gli USA, diventata un fattore-chiave nella strutturazione delle relazioni diplomatiche nel quadrante Sud Est Asia-Pacifico già dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Nelle Filippine hanno protestato i membri del movimento politico Bagong Alyansang Makabayan, un’alleanza di formazioni politiche di Sinistra e vari attivisti di Sinistra che nell’agone politico che ha ‘partorito’ Duterte Presidente sono stati sconfitti nelle urne, tutti uniti nello scrivere sui loro cartelli ‘Metti al bando Trump‘, oppure ‘Trump fascista imperialista‘. Le proteste si sono svolte ovviamente nella Capitale Manila durante gli incontri previsti nel piano designato dall’ASEAN e del vertice APEC. Il brindisi con i flute in mano tra Duterte e Trump segnala al Mondo che i due si riconoscono l’un l’altro più simili di quanto accadeva con Obama. I due leader attuali, infatti, sono stati definiti ‘boombastic’ nel gergo degli analisti dell’area.
Trump, inizialmente concentrato sulla sua politica ‘USA first’, è addivenuto a più miti consigli nel valutare l’area Pacifico-Asia, in quanto il disavanzo commerciale con la Cina, le relazioni rese tumultuose con la Russia di Putin soprattutto a causa delle operazioni militari in Siria e la questione nordcoreana lo hanno a forza ricacciato nel calderone asiatico sempre torrido. L’accoglienza in terra vietnamita è stata calda, il Governo di Hanoi è alleato degli USA e questo gli garantisce una ‘sponda’ diplomatica importante nelle controversie territoriali con la Cina nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale dove pure il Vietnam ha interessi.
Il tour di Trump, iniziato il 3 novembre scorso, ha incontrato proteste anche in Corea del Sud, Nazione oggi particolarmente sensibile alle minacce di guerra, avamposto delle minacce nucleari del leader nord-coreano Kim Jong-un e soprattutto Paese preoccupato che Trump possa distruggere come un elefante che si addentri in una cristalleria il fragile dialogo tra le due Coree, a fronte del bullismo diplomatico mostrato dai Capi di Corea del Nord e USA in numerosi e recenti frangenti. La paventata visita di Trump alla zona di confine tra le due Coree ovvero nella base militare di Pyeongtaek, la più grande base militare USA in quell’area e dove stazionano 650.000 soldati sud-coreani, è stata l’apice delle preoccupazioni sudcoreane, circa il rischio di fratture definitive con la Corea del Nord. Le operazioni navali congiunte col Giappone e gli USA hanno d’altro canto, infastidito non poco non solo Kim Jong-un ma anche Pechino, che -come la Corea del Sud – preferisce una ‘via asiatica’ in diplomazia, una via che agli occidentali sembra lenta o quasi-ferma secondo gli standard inveterati della diplomazia occidentale la cui storia, però, è costellata di conflitti che -solitamente- sono la dimostrazione del fallimento delle vie diplomatiche.
Il Segretario ONU Ban Ki-moon, sud-coreano anch’egli, ha segnalato come fattore positivo la visita e il suo apice nelle relazioni con Giappone, Cina e Corea del Sud, l’unità degli intenti di questi tre Paesi – afferma il Segretario ONU – può essere un certo blocco di fronte al quale Kim Jong-un potrebbe veder infrante le sue aspirazioni di supremazia nucleare tra Asia Orientale e versante Pacifico. «E’ la crisi più preoccupante che stiamo vivendo dai tempi della guerra di Corea», ha aggiunto affranto Ban Ki-moon ai microfoni dei media internazionali.