sabato, 1 Aprile
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Trump, gli Stati Uniti e l’Impero di Augusto

Forse siamo Roma? si chiedeva Cullen Murphy nel 2007 in ‘Are We Rome?’ (!). La sua preoccupazione principale nello scrivere questo libro era la riconfigurazione del Paese (gli Stati Uniti) dopo l’11 settembre. L’autore ha costruito una ‘accusa’ molto erudita, sebbene discutibile da diversi punti di vista: principalmente, la differenza nel sistema economico pre e post capitalista, il colonialismo americano come fenomeno specifico e il dominio bellico americano senza annessione di territori.

Nel suo testo, l’analogia di Roma con gli Stati Uniti consiste essenzialmente nel declino e nella caduta di un impero le cui cause principali sarebbero due, una esterna -la scarsa difesa dei confinie una interna, cioè la stagnazione culturale ed economica. Conclude che questa ultima non riguarderà gli Stati Uniti a causa del loro «genio inventivo che è permanentemente in uno stato di rinnovamento dinamico» (parafrasando), qualcosa che, in senso stretto, potrebbe essere attribuito al sistema capitalista piuttosto che a un ‘DNA nazionale’.

Mentre la questione del declino della patria è un ‘tropo’ universale, onnipresente e senza tempo, nonché un ricco substrato per la creazione di miti, è legittimo ospitare la domanda di Murphy nell’attuale congiuntura del suo Paese. È giunto il momento in cui i due universi paralleli convergonoe solo uno sopravviverà.

All’alba di domenica 15 novembre, sotto la luna nuova in Scorpione, le milizie neofasciste (Proud Boys) e la resistenza civile (BLM, Antifa) si sono scontrate per le strade. La Polizia ha svolto un ruolo minore e passivo, non si sa se per la paralisi dei vertici o per la manifesta intenzione di liberare la zona, soprattutto a Washington D.C. Il Presidente Donald Trump, chiedendo in ritardo e male (dopo gli eccessi, via Twitter) al sindaco della città -una donna, nera e democratica- di intervenire, propone un ordine per liberare l’area e mettere il nemico politico sotto i riflettori.

È stato molto scioccante vedere la macchina da guerra del trumpismo in azione: mentre gli eventi si svolgevano, i video clip catturati con i telefoni cellulari, ritagliati e incorniciati in un racconto demonizzante di BLM e Antifa, sono stati febbrilmente viralizzati sui social network. I relativi media hanno rafforzato il quadro della storia. Il Presidente ha twittato mentre Twitter lo censurava, rendendo più evidente l’intervento dei media egemonici contro di lui. ‘The Silent Media is the Enemy of the People!!!’, scrive Trump, anche loro fanno parte del complotto corrotto e ora ‘sono in evidenza’. È che il trumpismo conosce i suoi tempi, controlla le fonti, i dati, ottiene gli appuntamenti dagli specialisti. Al termine, seguono analisi lunghe e ponderate sul ‘New York Times’ e sul ‘Washington Post’.
Nel frattempo, in un vero e proprio blitzkrieg digitale, Proud Boys e Antifa sono diventati argomenti di tendenza, entrambi con lo stesso contenuto: i primi, eroi; gli altri, terroristi. La velocità e la sincronicità dei tweet di milioni di account reali è stata travolgente.

Così, con un bisturi millimetrico e premeditato, questa storia transmediale multidimensionale si è svolta in iterazioni coordinate e ha prevalso di fronte al silenzio fragoroso dell’altra parte. Non un singolo contrattacco, non un hashtag, non una nota su un sito di second’ordine, non un’azione coordinata tra le figure del partito Democratico e gli alleati. Niente. Joe Biden stava dormendo?

In considerazione del danno arrecato, dello spostamento di tanti limiti, della violazione o stravolgimento di tante regole, è opportuno chiedersi se siamo ancora in campo politico o se siamo di fronte ad altro. Certamente un altro gioco con regole diverse richiede un altro nome. Ma cos’è questa cosa che stiamo vedendo sorgere davanti ai nostri nasi, dispiegarsi, acquisire massa e volume?

Perché sta nascendo qualcosa. Non morire, non cadere. Il vecchio mondo sta morendo. Il nuovo richiede tempo per apparire. E in quel chiaroscuro emergono i mostri.
Gli analisti anti-Trump hanno azzardato l’ipotesi di un auto-colpo di Stato, ma forse è più di questo.

Tornando alla domanda di Cullen Murphy, potremmo rispondere che , siamo (sono) Roma, ma non nel 476 o nel 1453, ma nel 27 a.C. Siamo spettatori di lusso del passaggio dalla Repubblica all’Impero, saltando -sì- la goffaggine di Giulio Cesare, per articolarsi direttamente con la figura del primo Imperatore legittimo, cioè legittimato da un altro Potere (Senato / Corte Suprema): Augusto.
Con il favore delle sue truppe, il sostegno popolare e politico, Donald Trump affronta un progetto di evoluzione degli Stati Uniti d’America. In questo progetto, annientare la legittimità del processo elettorale è solo un primo passo. Demarcare la volontà popolare dall’atto del voto e legarla, invece, alla volontà divina e al Destino Manifesto (la stessa cosa): un passo necessario ma non sufficiente per portarel’Americaal livello successivo.

Qual è il livello successivo? Si potrebbe azzardare l’ipotesi che si tratti di una fortificazione di fronte all’ombra proiettata sull’Occidente dal tandem sino-russo.
In effetti, questi due attori agiscono in modo sincronizzato, unendo i loro punti di forza -Cina: capitale; Russia: capacità politica, intelligenza e strategia- per accelerare il nuovo equilibrio geopolitico multipolare. Gli Stati Uniti contano solo come alleati su di una Europa scomposta e frammentata; e Israele, che è solo al servizio di Israele. Pertanto, è possibile considerare un’ipotesi di robustezza interna.
Ora, un’obiezione valida: visti i buoni rapporti di Putin con Trump, viene da chiedersi quale interesse politico possa avere nell’aiutare il suo amico a vincere le elezioni. È probabile che Putin favorisca, come ha sempre fatto nei conflitti nella sua regione e in Medio Oriente, una leadership forte. Ma rafforzare il suo principale nemico, quali benefici potrebbe portare?

In linea di principio, si potrebbe pensare a una preferenza per ‘scarto’: trattare con un vero capo è più facile che con un portavoce ombra di interessi. In secondo luogo, una polarizzazione più cristallina è più efficace, serve meglio allo scopo di costruire giustificazioni interne. Un buon cattivo, un altro irriducibile, un capro espiatorio se necessario, un chiaro nemico è sempre utile. Mobilita, motiva, tonifica e unifica.

Terzo, un triumvirato per il dominio del mondo è una grande idea perché c’è sempre uno squilibrio, cioè se tra due parti sorge troppo antagonismo, c’è sempre la terza a mediare o contrastare. Tutti e tre concorderanno sul fatto che un accordo tra poteri esecutivi è l’opzione migliore per evitare l’ipotesi di dover ungere un potere legislativo sovranazionale, dal momento che non si sa mai quando sarà necessaria o rivendicata un’autorità globale.

Allo stesso modo, il progresso delle piattaforme digitali come arbitri con interferenze dirette negli eventi nazionali e locali non sarebbe divertente.
Quindi, ricapitolando, sarebbe un triumvirato a impedire l’emergere di qualche istituzione con giurisdizione legale a livello sovranazionale e l’avanzata del capitale globalizzato, sempre in tensione con lo Stato Nazionale.

Per entrare in sintonia con le circostanze, quindi, non è illogico che gli Stati Uniti cerchino di appiattire le loro differenze interne, estinguere le fonti del dissenso, omogeneizzare l’identità nazionale e, in definitiva, mettere tutti sulla stessa pagina, riducendo rivendicazioni di identità e critiche accademiche a frange universitarie, organizzazioni giovanili e fanzine culturali.

Il problema in questo progetto -prevedibile- è che ogni sogno imperiale finisce male. Le manie di grandezza, siano esse di un uomo, di un gruppo o di un popolo, finiscono -nel migliore dei casi- eliminando i grigi, annullando le sottigliezze, appiattendo le dimensioni dell’esperienza umana. E, se i movimenti di identità servono a qualche cosa, è proprio a rivendicare tutta quella tavolozza di colori, tutti gli arcobaleni.
Il soffocamento della gabbia di ferro, della perfetta efficienza dello Stato e del Capitale, così squisitamente descritti da Max Weber e Franz Kafka, tra gli altri (o Aldous Huxley, Ray Bradbury, George Orwell), incombe sulle nostre teste.
Dobbiamo decidere, nel mezzo di una pandemia senza precedenti, cos’è un mondo vivibile e respirabile; cos’è la ricchezza o il lusso e come viene distribuito; che è, insomma, una piattaforma percorribile per ospitare ogni soggettività senza essere sovrascritta, espulsa o annientata.

Se forse questo nuovo impero riuscisse a riflettere le pratiche del suo antenato romano, articolando il soft power del suo dominio culturale con sufficiente rilassamento punitivo per garantire i diritti individuali, ritirando le truppe dalle nazioni invase, riformando istituzioni repressive come la Polizia, facilitando

l’accesso alla salute, all’alloggio e all’istruzione, incorporando l’agenda ambientale e investendo in infrastrutture per generare occupazione di qualità, avrebbe degli oppositori? Questo non è il caso di Trump o Biden, chiaramente; ma forse è, per ispirazione o per calcolo, quella del suo successore.

Florencia Benson
Florencia Benson
Sociologa all'Università di Buenos Aires, professore di Scienze economiche e politiche della Facoltà di Design e Comunicazione dell'Università di Palermo (Buenos Aires), e analista politico collaboratrice di molte testate, tra le quali ‘Le Monde Diplomatique’ e ‘Clarín’
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