Olivier Roy, noto orientalista e politologo francese, ha presentato al Festivaletteratura di Mantova il libro ‘Generazione Isis‘, nel quale ha analizzato i comportamenti dei giovani che si arruolano nello Stato Islamico. I motivi che spingono i figli degli immigrati di seconda generazione a uccidere e diventare martiri non sono da ricercare nella fallita integrazione e nella contrapposizione alla cultura occidentale. Secondo Roy, uno dei massimi studiosi del fenomeno, questi ragazzi, nati in Europa, pur appartenendo a classi sociali sfavorite sono perfettamente integrati nella società, spesso sono professionisti, laureati e ingegneri che nel tempo sono approdati al radicalismo. Sono occidentali, cresciuti in una cultura giovanile simile a quella di tutti i ragazzi europei, ascoltano musica, commettono reati, si drogano, parlano la lingua del loro paese e non conoscono l’arabo.
«Stiamo assistendo a un’islamizzazione dell’antagonismo e non a una radicalizzazione dell’Islam storico», afferma Roy, «poche persone tra quelle che si radicalizzano hanno una formazione religiosa. Acquistano nozioni religiose molto velocemente, spesso in pochi mesi, informandosi su internet. Nell’Islam predicato dal Califfato i giovani trovano una grande narrazione radicale che li affascina. Dal punto di vista della comunicazione e dell’estetica della morte, l’Isis è ipermoderno, utilizza mezzi tecnologici, filma le esecuzioni e persino le prove che precedono le uccisioni. In pratica i terroristi mettono in scena il proprio martirio».
Spesso i commentatori affermano che l’Islam è solo un pretesto per chi aderisce alla sua ideologia. «In realtà», spiega il politologo, «si tratta di fedeli che credono realmente nella religione, come dimostra l’esistenza di teologi dell’Isis che costruiscono le basi teoriche per giustificare la violenza. Si sente dire anche che la loro ideologia si fonda sul salafismo. Non è vero, l’Isis ha una visione distorta ma originale dell’Islam».
I giovani, caratterizzati da una profonda propensione al nichilismo, si radicalizzano nelle carceri piuttosto che nelle moschee: «Le prigioni sono luoghi di isolamento e desocializzazione. L’obiettivo dell’Isis è dare vita a un movimento anti-islamico approfittando del fatto che le moschee, veri luoghi di socializzazione, vengono costruite e insediate in zone periferiche della città, ai margini dei centri urbani».
Chi sono i ragazzi che si radicalizzano? «Sono giovani individualisti con un forte sentimento di rivalsa contro la società», sottolinea Roy, «si considerano eroi invincibili che hanno il compito di vendicare la comunità musulmana, navigano in rete e diffondono il loro messaggio di vendetta».
Il tratto che accomuna gli adepti dell’Isis è che non hanno un “piano B”: «Si fanno quasi sempre uccidere, non piazzano una bomba e se ne vanno. Sono nichilisti, cercano la morte, credono di andare in paradiso, non compiono gli attentati per rendere la società più giusta. Non costruiscono scuole e ospedali. Vanno in Siria per battersi e cadono sul campo di battaglia. Dal 1997 in poi i gruppi terroristici annoverano tra le loro fila molti fratelli ma non genitori o altri membri delle loro famiglie. Per questo il mio libro si intitola “Generazione Isis”».
In Europa, dal 1995 a oggi il 65% di chi ha compiuto attentati è costituito dai figli degli immigrati di seconda generazione. «Tali cifre sono confermate dalle forze dell’ordine», osserva lo studioso francese, «in Belgio, Inghilterra, Olanda, Francia e Stati Uniti i convertiti rappresentano il 25% di chi si radicalizza. In Italia questa percentuale è più alta. Tutti hanno in comune la deculturazione».
Secondo Roy la violenza si produce quando le religioni perdono la propria cultura: «Oggi è possibile passare da una religione all’altra senza cambiare cultura. Per descrivere lo scontro tra i terroristi e l’Occidente si utilizza la metafora della guerra tra l’Europa cristiana e il mondo musulmano. Tuttavia l’Europa, come ha ricordato Benedetto XVI, non ha più valori fondanti ma solo radici cristiane. Inoltre il mondo musulmano è attraversato dal fenomeno della secolarizzazione che incide profondamente sulla sfera religiosa».
Un altro aspetto da sottolineare, osserva Roy, è che finora tra le “terze generazioni” non esistono terroristi: «Le seconde generazioni sono per lo più francofone, non parlano la lingua dei genitori. I terroristi di Barcellona parlavano catalano. Inoltre non apprendono in famiglia il culto della religione». In Germania la maggior parte dei musulmani è formata da turchi che non compiono attentati. In questo caso i figli e i nipoti parlano la lingua dei parenti: «In Francia, invece, i marocchini non parlano l’arabo».
I terroristi 2.0 si nutrono di nichilismo e mettono in discussione i valori della tradizione islamica: «I giovani registrano video e li mettono sui social network. Si rivolgono sempre alla madre e non al padre. Considerano le madri delle cattive musulmane che non sono state capaci di trasmettere la giusta religione ma che, nonostante tutto, grazie al loro sacrificio andranno comunque in paradiso. I ruoli si rovesciano, sono i figli che danno la vera vita ai genitori».
Non è l’unico paradosso. Questi giovani sono soliti procreare prima di morire. La loro prole sarà cresciuta dal Califfato e sarà destinata al martirio: «I terroristi sono iconoclasti, distruggono la memoria, la cultura e l’arte musulmana, le chiese ma anche le moschee. Sono affascinati dall’Apocalisse. La disfatta militare dello Stato Islamico, che sta arretrando su tutti i fronti in Siria e in Iraq, è un fatto apocalittico che fa parte della loro mentalità».