La fonte è ufficiale, l’Istituto di Ricerca e Protezione Idrogeologica del CNR: le frane hanno ucciso oltre 3400 persone, 715 le vittime delle alluvioni. La regione con il più alto numero di morti il Veneto: nel conteggio rientrano anche le vittime del disastro del Vajont. Un fenomeno che colpisce la Campania come la Lombardia, la Sicilia come il Piemonte e il Trentino…nomi di paesi ormai si identificano con tragedie: Sarno, Quindici, Giampilieri…
Pensate, secondo il rapporto Ecosistema Rischio solo in Calabria sono ben 409 i comuni a rischio. In Campania 210. Con Umbria e Valle d’Aosta sono le regioni con più alta percentuale di paesi classificati a rischio. Il Consiglio Nazionale dei Geologi stima che le aree ad elevata criticità idrogeologica costituiscono il 10 per cento della superficie italiana. Esiste un Inventario dei fenomeni franosi in Italia, attivo dal 1996: ha censito qualcosa come 485mila frane grandi e medie. Quando poi si cerca di capire di chi sia la responsabilità si scopre che i permessi per costruire in zone rese pericolose da sbancamenti dissennati e disboscamenti selvaggi come è accaduto in Calabria, Campania e Sicilia, sono regolari, i permessi sono stati rilasciati dalle autorità competenti. Oppure, come per l’alluvione a Genova, la colpa va imputata a incuria e incapacità decisionale delle strutture per la salvaguardia della popolazione. Non basta: spesso accade che si finisca col ricostruire esattamente dove il disastro ha provocato morte e distruzione.
A questa nota bisogna aggiungere solo due ‘particolari’. I dati dell’Istituto di Ricerca e Protezione Idrogeologica del CNR relativi al numero delle vittime si riferiscono ai cinquant’anni che vanno dal 1960 al 2010. Sono dunque sicuramente aumentate, nei successivi sette anni.
La nota che avete appena letto, sono appunti ritrovati in un vecchio taccuino alla data 28 agosto 2012. La si potrebbe pubblicare oggi, senza mutare una virgola. Non è come dice Mario Missiroli che ‘niente è più inedito dell’edito‘. E’ che tutto passa, nulla passa mai, in questo benedetto/maledetto paese.
Consola poco sapere che nel Texas, una città come Houston, in queste ore devastata dall’uragano Harvey, è priva di piano regolatore e si continuano a costruire le abitazioni con il legno compensato. Significa solo che l’erba del vicino è velenosa quanto la nostra.
Ancora sul filo della memoria. Trentacinque anni fa, i killer della Cosa Nostra siciliana uccidono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Da appena cento giorni è prefetto di Palermo. Per ognuno di quei cento giorni invoca quei poteri promessi che Roma non gli concede. Ucciso, dirà Giovanni Falcone, perché era solo. Quando l’hanno ammazzato, rivela il mafioso diventato collaboratore di giustizia Marino Mannoia, i mafiosi hanno brindato.
Dalla Chiesa la Sicilia la conosce. Una prima volta ci va nel 1948; poi nel 1966. Del fenomeno mafioso comprende l’essenziale: alla mafia interessa sempre e solo il denaro; e comprende come se lo procura: la ramificata rete di connivenze e complicità su cui può contare, e che costituisce l’acqua in cui nuota e sguazza.
Quando nel 1982 Dalla Chiesa viene mandato per la terza volta a Palermo, la città è sconvolta da una quantità di delitti eccellenti: il segretario provinciale della DC Michele Reina; il vice-questore Boris Giuliano; il giudice Cesare Terranova, il presidente della regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il procuratore di Palermo Gaetano Costa, il segretario del PCI regionale Pio La Torre…
E’ già un mito, il generale. Se le Brigate Rosse sono state sconfitte, lo si deve anche a lui, e a quel pugno di uomini che in lui crede ciecamente: hanno catturato Renato Curcio e Alberto Franceschini; ma è solo dopo il delitto di Aldo Moro che si prende finalmente coscienza del pericolo costituito dal terrorismo; a Dalla Chiesa vengono dati quei poteri che gli consentono di infliggere colpi di maglio a intere cellule di terroristi. Ne fa uso da ‘servitore dello Stato’. Nel senso più estensivo di questa espressione: e chi ha buone orecchie per intendere, intenda.
Racconta, Dalla Chiesa, che negli anni in cui era comandante dei carabinieri a Palermo, la mafia minaccia un suo capitano, di stanza in un paese vicino. Lui va in quel paese, prende sottobraccio il capitano; i due passeggiano lentamente lungo il corso principale del paese, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro… fa capire a tutti che quel capitano non è solo; che le minacce sono inutili; che possono anche eliminare quel capitano, ne arriva subito un altro uguale a lui; e poi un altro, e un altro ancora… Vero o inventato che sia, l’aneddoto ha una morale: «Chiedo solo che qualcuno mi prenda sottobraccio e passeggi con me», dice Dalla Chiesa. Il 3 settembre 1982, alle 21,15, mentre transitano da via Carini, una motocicletta, guidata da un killer che aveva alle sue spalle il mafioso Pino Greco, e una BMW 518, guidata da Antonino Madonia e Calogero Ganci, uccidono Dalla Chiesa, la moglie, l’agente di scorta. Qualcuno deve aver assicurato che nessuno avrebbe preso Dalla Chiesa sotto braccio.
Lo uccidono, Dalla Chiesa, perché aveva capito, perché capiva? Lo uccidono perché è pericoloso, perché è incorruttibile, perché il suo esempio può essere seguito da tanti? Possono essere tanti i motivi. Ma c’è un ‘particolare’ che merita di essere raccontato.
Il generale non si separa mai dalla sua borsa. Compare in ogni immagine, in ogni fotografia. Lo conferma chi lo conosce. Che cosa c’è in quella borsa? Chissà, certo qualcosa di importante, perché il generale non la molla un minuto. E’ probabile che l’avesse con se anche la sera del 3 settembre 1982, quando viene ucciso assieme alla moglie e all’agente di scorta dai killer della mafia. Che fine fa quella borsa? Per molto tempo non se ne sa nulla.
La storia della borsa sarebbe finita nel dimenticatoio, se non l’avesse portata d’attualità un dossier anonimo. L’anonimo sostiene che sarebbe stato un carabiniere a trafugare la borsa, con dentro documenti scottanti sulle indagini condotte personalmente da Dalla Chiesa. Un anonimo che appare molto bene informato. Alla fine però la borsa si trova: in uno scantinato della procura di Palermo. E cosa c’è dentro la borsa? Nulla. Un momento: se la borsa è stata portata in tribunale, qualcuno l’avrà inventariata, prendendola in consegna avrà steso un verbale, in quel verbale ci sarà scritto chi l’ha presa, chi l’ha consegnata, cosa c’era dentro, chi ha preso i documenti se c’erano, e che documenti erano…non se ne sa nulla, nessuno sembra interessarsene.
Una notizia, infine, che ci si augura qualcuno abbia posto in bella evidenza nella cartellina del ministro della Giustizia Andrea Orlando, con le pratiche urgenti da esaminare.
Siamo al tribunale di Roma. C’è un funzionario dell’Agenzia del Demanio che incappa nelle maglie della giustizia. Capita. Il funzionario viene poi assolto ‘perché il fatto non sussiste’. Un brutto fastidio, una perdita di tempo, di denaro; il nome che viene schizzato da mille sospetti e ‘si dice’. Capita, e purtroppo tutti i giorni, ormai ci si fa il callo a storie come queste. Il fatto che ‘non sussiste’ si sarebbe consumato tra il 2005 e il 2012; se ne parla nel 2017. Capita usualmente anche questo, purtroppo: questa lungaggine e queste dilatazioni insopportabili dei tempi. Però, alla Totò: ‘Ogni limite ha la sua pazienza’. E qui si abusa di entrambe le cose. State a sentire:
La lettura del dispositivo avviene il primo aprile del 2016. Quel giorno si comunica che le motivazioni del ‘fatto che non sussiste’ sarebbero state depositate in cancelleria due mesi dopo: giugno. Passano i giorni, le settimane, i mesi…nulla. Trascorrono così ben sedici mesi. Sedici mesi per motivare il giudizio di assoluzione, un ‘semplice’ ritardo di 427 giorni, rispetto alla data annunciata. Uno a questo punto, potrà pensare che si tratta di motivazioni particolarmente elaborate, che si è fatto ricorso in abbondanza a precedenti, a sentenze di Cassazioni, si sono consultati febbrilmente codici, digesti, pandette. Le ‘motivazioni’ sono spalmate in sette fogli sette, per un totale di 3.829 parole. Però 1.291 di queste parole sono un semplice e puro copia incolla dei capi di imputazione, procedura comune a tutte le sentenze. Dunque il lavoro di stesura delle motivazioni consiste in 2.533 parole; diciamo che chi ha redatto la sentenza ha scritto mezza pagina al mese, una media di otto parole al giorno. Ennesima conferma che questo paese non è la culla del diritto, piuttosto del suo rovescio.