La giunta militare ieri ha ordinato l’arresto di Yasir Arman, vice Presidente del gruppo ribelle Harakat Al-Sha’abi Li-Tahrir Al-Sudan-Al-Shamal, conosciuto in Occidente con la denominazione Sudan People’s Liberation Movement – Nord (SPLM-N). Ad effettuare il blitz sono state le Rapid Support Forces (RSF).
E’ di oggi la notizia che il Consiglio di Sicurezza e Pace dell’Unione Africana (UA), dopo una riunione straordinaria sul Sudan, ha annunciato la sospensione immediata dalla UA del Sudan «fino all’effettiva istituzione di un’autorità transitoria guidata dai civili», recita la nota.
La scorsa settimana le autorità militari avevano ordinato ad Arman di lasciare il Sudan e di non tornarci mai più. Arman è giunto nella capitale lunedì 28 maggio a seguito della promessa del Transitional Military Council di non arrestarlo. Su Arman e Malik Agar, Presidente del SPLM-N, pendono condanne a morte emesse nel 2014. Lo scopo ufficiale della visita di Arman era quello di incontrare i leader della giunta militare per discutere sulla ripresa degli accordi di pace. L’incontro si era concluso con l’invito della giunta di scegliere l’esilio.
I motivi dell’arresto sono semplici da comprendere: indebolire la capacità di risposta militare del movimento rivoluzionario, in attesa dello scontro finale, e vendicarsi per i risultati ottenuti da Arman sulle diplomazie britannica a americana.
La decisione è stata presa dopo che i generali hanno compreso i veri motivi della visita di Yasir Arman a Khartoum. Assieme a Ibrahim El Maz Deng, leader del gruppo armato di liberazione del Darfur Ḥarakat al-ʿAdl wal-musāwāh , conosciuto come Justice and Equity Movement (JEM); Arman, tra il 28 e il 31 maggio, aveva incontrato i dirigenti del Sudanese Professionals Association (SPA) e del Partito Comunista e i capi della diplomazia americana e britannica, Steven Koutsis Incaricato degli Affari presso l’Ambasciata americana a Khartoum, e Irfan Siddiq, Ambasciatore britannico a Khartoum.
Sugli incontri avvenuti con SPA e Partito Comunista sono trapelate poche notizie. Rumors parlano di accordi presi tra le parti per misure di contenimento di una possibile contro-rivoluzione. I leader del SPLM-N e del JEM avrebbero assicurato l’appoggio delle loro rispettive milizie in caso la giunta militare riattivasse la repressione arrivando allo scontro finale per impedire la transizione democratica. Questi timori si sono concretizzati il primo week end di giugno, quando il Transitional Military Council ha chiuso i negoziati, dichiarando che il periodo di transizione sarà unicamente gestito dall’Esercito per il bene della popolazione e per assicurare la stabilità del Sudan, minacciato da misteriose ‘forze esterne’ secondo i generali. Per addolcire questo secondo colpo di Stato (il primo attuato il 11 aprile scorso con la deposizione e l’arresto del Presidente Omar el Bashir) la giunta ha promesso elezioni anticipate tra nove mesi.
Un’apparente concessione del TMC che nasconde l’inganno. La giunta militare intende emulare l’ascesa al potere del generale Abdel Fattah al-Sisi in Egitto. Proclamando la data delle elezioni anticipate, il TMC intende avere le mani libere per poterle pilotarle affinché il risultato delle urne favorisca un loro futuro candidato alla Presidenza. Obiettivo: ottenere riconoscimento e legittimazione internazionali grazie alle elezioni per trasformare il TMC in un governo di militari collusi con il vecchio regime in un rispettabile governo civile.
Secondo osservatori sudanesi, l’arresto compiuto ieri è stato anche motivato dagli incontri che Arman ha avuto con le diplomazie britanniche e americane. Incontri dove entrambe le due potenze occidentali hanno chiarito il loro sostegno alla rivoluzione e il loro desiderio di un passaggio di poteri ai civili in tempi brevi. L’incaricato degli Affari presso l’Ambasciata americana a Khartoum si era spinto a dichiarare che tutti i gruppi armati di liberazione dovevano essere inclusi nella ripresa dei colloqui in vista della transizione democratica. Una proposta inaccettabile per i gerarchi del TMC, che hanno sempre considerato questi gruppi ribelli come dei terroristi ben più pericolosi di Al-Qaeda e Daesh, gruppi, questi due, supportati dall’Arabia Saudita con cui i gerarchi del TMC hanno sempre avuto ottime relazioni, divenute più discrete ma mai abbandonate, dopo che il regime di Omar al-Bashir fu parzialmente sdoganato dall’Occidente, a seguito della iniziativa diplomatica italiana, con la promessa di lottare senza esitazione contro il terrorismo islamico in Africa: Al-Qaeda Magreb e Daesh.
I frutti degli incontri tra Yassir Arman, Steven Koutsis e Irfan Siddiq sono stati compresi dalle successive mosse diplomatiche di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Gran Bretagna e Norvegia (che assieme agli Stati Uniti compongono la Troika per il Sudan) in un comunicato stampa pubblicato ieri condannano le violenze istigate dalla giunta militare, affermando, senza mezzi termini, che con questi attacchi ai civili il Transitional Military Council sta mettendo a rischio il processo di transizione e la pace in Sudan. La mazzata finale data dalla Troika alla giunta militare nel comunicato stampa riguarda il chiaro avvertimento che non verranno riconosciute valide le elezioni anticipate se organizzate dal TMC. «Il popolo Sudanese necessita di un Governo di transizione in mano ai civili che crei le condizioni per libere e trasparenti elezioni e non di elezioni anticipate imposte dal Transitional Military Council e dalle sue forze di sicurezza».
Due pezzi grossi dell’Amministrazione Trump, Tibor Peter Nagy, uno dei più alti ufficiali americani del Dipartimento Affari Africani ed Assistente del Dipartimento di Stato americano, e Robert Bolton, Consigliere per la sicurezza nazionale, si sono apertamente schierati contro la giunta militare chiarendo che non verrà riconosciuto nessun Governo di transizione controllato dall’Esercito, e tanto meno il risultato di elezioni anticipate che saranno pilotate dal TMC. Una presa di posizione che vanifica al momento tutti gli sforzi del generale Salah Gosh e dell’Arabia Saudita per convincere Stati Uniti e Unione Europea a dare il loro appoggio al giunta militare per evitare che il Sudan «finisca nelle mani di un governo civile debole e diviso che non riuscirebbe a garantire sicurezza e stabilità nazionali con il rischio di aprire la porta ai gruppi terroristici di Al-Qaeda Magreb e Daesh».
L’offensiva diplomatica americana è proseguita con l’incontro ufficiale tra David Hale, Sotto Segretario di Stato per gli Affari Politici, e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman Al Sa’ud. «David Hale, ha incontrato oggi Khalid Bin Salman per discutere della situazione politica in Sudan, della brutale repressione delle manifestazioni pacifiche fatta dal Transitional Military Council e per rendere possibile la transizione dei poteri ad un governo di civili, per esaudire le richieste del popolo sudanese», informa il telegrafico comunicato stampa della Casa Bianca.
La missione diplomatica di Hale ha inaspettatamente invertito i ruoli tra Riyad e Washington. La strategia del TMC era quella di convincere Stati Uniti (e di conseguenza l’Unione Europea) a ridare fiducia, appoggi politici ai generali, tutte facce note a Washington e Bruxelles con cui si sono strette collaborazioni nel nome della lotta contro il terrorismo islamico e contenimento dei flussi migratori. Un’alleanza col diavolo che ha reso vari Paesi dell’Unione Europea corresponsabili dei crimini contro l’umanità commessi dal regime islamico di Khartoum contro gli immigrati e i profughi, come ampiamente dimostra il Rapporto Clingendael.
L’Arabia Saudita, forte della sua influenza sull’Amministrazione Trump, doveva convincere la Casa Bianca ad appoggiare il TMC. É successo il contrario. Hale ha convinto la monarchia saudita (e di conseguenza gli Emirati Arabi) ad appoggiare il trasferimento di poteri ai civili. «Il governo del Regno della Arabia Saudita segue con grande preoccupazione gli sviluppi dei nostri fratelli della Repubblica del Sudan e la repressione delle manifestazioni che ha causato morti e feriti. É nostra convinzione che per risolvere la crisi ed evitare altre pericolose escalation occorre la ripresa dei negoziati tra le parti», recita un comunicato ufficiale saudita.
«Gli Emirati Arabi Uniti incoraggiano la ripresa di un dialogo costruttivo e sperano che la ragione prevalga tra gli attori politici sudanesi al fine di garantire sicurezza e stabilità in Sudan, evitando al popolo il peggio e assicurando pace e unità”», afferma il Ministro degli Esteri di Abu Dhabi. Invece di riuscire a convincere Trump ad appoggiare la sanguinaria giunta militare sudanese, ora le due monarchie arabe temono di essere considerate dalla comunità internazionale come i responsabili di una eventuale guerra civile in Sudan.
I due Paesi sono già accusati di aver provocato l’invasione dello Yemen e di aver compiuto numerosi crimini di guerra grazie alle armi vendute da Francia e Italia. La situazione delle due monarchie arabe riguardo lo Yemen è peggiorata nel settembre 2018, quando l’associazione americana in difesa dei diritti umani Human Rights Watch, mostrò le prove del tentativo saudita di chiudere l’indagine per crimini di guerra in Yemen voluta dalle Nazioni Unite. HRW definì la mossa saudita «uno spudorato tentativo di evitare lo scrutinio della sua condotta in Yemen». Le due monarchie temono anche un incontrollato flusso di profughi sudanesi qualora il loro Paese entrasse in un scenario libico. Riyad e Abu Dhabi considerano che la presenza di un elevato numero di profughi sudanesi (tra essi molti rivoluzionari) potrebbe far scoppiare una non desiderata primavera araba per abbattere le rispettive monarchie feudali.
La posizione assunta dall’Amministrazione Trump è frutto di enormi pressioni provenienti da influenti avvocati americani e dalla lobby delle associazioni per i diritti umani, che avevano seriamente criticato l’ambigua posizione della Casa Bianca sulla crisi sudanese, avvertendo delle nefaste conseguenze nel caso che gli Stati Uniti si fossero lasciati convincere dai due Paesi della Penisola Araba, noti per il ‘regno di terrore’ imposto ai loro cittadini, promotori del terrorismo islamico di stampo salafista-wabbita, e responsabili dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante la guerra di aggressione che tutt’ora divampa nello Yemen. Il 28 maggio, 77 Congressmen e Senatori americani hanno preteso che Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti spiegassero gli aiuti economici al Sudan, pari a 3 miliardi di dollari, di cui 750 milioni già versati presso la Banca Centrale di Khartoum, definendo questo aiuto un evidente sostegno alla giunta militare. I Congressmen e Senatori americani avevano espresso tutte i loro timori che questi aiuti fossero utilizzati per acquistare nuove armi, corrompere i partiti della coalizione Alliance for Freedom and Change, arruolare mercenari e reprimere nel sangue le proteste popolari. Visto il comportamento ambiguo della giunta militare i Congressmen avevano dato indicazioni alla Casa Bianca di mantenere l’embargo economico e di appoggiare il movimento democratico.
Per ironia della sorte o più semplicemente l’ennesimo segnale della schizofrenica politica estera del Presidente Donald Trump, l’aiuto di vitale importanza alla rivoluzione sudanese, giunge proprio da Bolton, detto ‘Madman’ (pazzo), ‘War Honry’ (eccitato sessualmente dalla guerra) e ‘War Lover’ (amante della guerra) in riferimento al passato sostegno di Bolton per la guerra del Vietnam anche se trovò all’epoca il modo di sfruttare le sue amicizie al Congresso e al Senato per sfuggire all’arruolamento obbligatorio, evitando di finire nell’inferno provato dagli americani in Vietnam.
Bolton è stato uno degli architetti della guerra in Iraq, e uno dei pochi politici americani che ancora oggi pensa che quella guerra sia stata una buona idea. Bolton sta spingendo per attacchi preventivi contro Corea del Nord e Iran. Essendo sempre stato contrario alla politica adottata da Barak Obama di dialogo con Pyongyang e Teheran, cerca di convincere il Presidente Trump che il dialogo con questi ‘malefici’ Paesi darà ai due regimi il tempo di produrre più armi di distruzione di massa.
Borton è anche l’architetto delle nuove sanzioni contro Cuba, considerata dall’Amministrazione Trump come ‘uno dei nostri avversari storicamente più aggressivi’ e definita, assieme a Nicaragua e Venezuela la ‘Troika del terrore’, gli ultimi baluardi del comunismo in America. Le nuove sanzioni vietano ai cittadini statunitensi di recarsi per turismo a Cuba, al fine di tenere il dollaro americano fuori dalla portata di servizi militari, intelligence e sicurezza cubani.
A seguito di questi avvenimenti, l’arresto di Yasir Arman è diventato obbligato. La giunta militare aveva tentato di arrestare Arman al suo arrivo a Khartoum, nonostante la promessa di immunità. Solo il tempestivo intervento della Commissione Parlamentare Britannica per il Sudan aveva fatto desistere i gerarchi dai loro intenti. Ora evidentemente si è deciso essere necessario eliminare un pericoloso avversario militare anche se il suo arresto aumenterà le frizioni con la Gran Bretagna. «Se il Transitional Military Council arrestasse o deportasse i leader dei movimenti ribelli armati, questo gesto sarebbe da considerare un atto contrario al processo di pace e riconciliazione nazionale e una aperta ostilità alla realizzazione di un governo di civili. Qualsiasi arresto comprometterebbe seriamente le relazioni tra la giunta militare sudanese e la comunità internazionale», recita il comunicato stampa redatto dalla Commissione Britannica due giorni fa.
L’arresto di Arman è subito risultato un grave errore. Il secondo gruppo armato del Darfur, il Ḥarakat Taḥrīr Al-Sūdān, noto come Sudan Liberation Movement (SLM), ha interpretato l’arresto del leader del SPLM-N come un chiaro segnale che il TMC intende riprendere la politica di sterminio dell’opposizione, quella dell’ex Presidente Omar el Bashir. Questo pericolo ha convinto il leader del SLM, Minni Minnawi a rompere indugi e riserve fino ad ora adottate, offrendo tutto il supporto politico al movimento rivoluzionario e supporto militare qualora venisse richiesto. Altri 3.000 uomini si aggiungono così al potenziale di difesa della SPA e Partito Comunista, in caso fossero costretti a contrastare un’offensiva militare dei Gerarchi.
L’Ambasciatore britannico a Khartoum ha duramente condannato l’arresto di Arman, chiedendo l’immediato rilascio. «Occorre costruire fiducia reciproca per riprendere i negoziati, non ulteriori escalation e provocazioni. Yassir Arman è ritornato a Khartoum per intraprendere un dialogo di pace. Il suo arresto dimostra quanto sia ingannevole il desiderio sbandierato dalla giunta militare di riprendere le negoziazioni per il passaggio dei poteri ad un governo civile» , ha dichiarato l’Ambasciatore Ifran Siddiq.
Il Transitional Military Council non ha commentato sull’arresto. Probabilmente accortosi dell’errore, il TMC ha tentato di lanciare una timida proposta di ripresa dei negoziati. «Il Transitional Military Council è disposto a riprendere i negoziati per l’interesse nazionale e per completare l’instaurazione di legittime autorità che si occupino della transizione democratica come chiaramente espresso dalla rivoluzione e dal popolo sudanese nella sua diversità», recita il breve comunicato firmato dal Presidente del TMC, Abdel Fattah al-Burhan. Un comunicato pubblicato 4 ore dopo l’arresto di Arman, e 24 ore dopo il colpo di Stato e le operazioni di Polizia compiute dalle milizie arabe Rapid Support Forces che hanno fatto una carneficina tra i civili. L’ultimo bilancio delle vittime sulla base dei dati forniti dall’Associazione Medici Sudanesi parla di 100 morti e oltre 500 feriti.
Un evidente passo indietro che dimostrerebbe che il secondo golpe tentato dai gerarchi non sta andando come previsto.
SPA e Partito Comunista hanno rifiutato la proposta, proclamando un secondo sciopero generale in tutto il Paese. «Non possiamo considerare genuina l’apertura fatta all’ultimo momento dal TMC quando ha realizzato gli errori compiuti. Le loro azioni di questi ultimi giorni dimostrano la vera natura di questo Consiglio Militare. In questa ultima settimana questo Consiglio ha bloccato l’accesso ai social media, interrotto le negoziazioni, attuato un golpe e massacrato centinaia di civili. Dinnanzi a questi crimini noi diciamo chiaramente che la Alleance for Freedom and Change non tratta con degli assassini», recita il duro comunicato della direzione rivoluzionaria.
Il TMC ha ricevuto un altro duro colpo. Le attività di estrazione del petrolio sono state bloccate nel Kordofan Occidentale dai lavoratori della Petro Energy Oilfield Operations Group Limited – Balila.
I pozzi di El Salam, Fula, FNA, Maki, Kiyi, Jake, Hodeida e Sufyan sono fermi.
I lavoratori del settore petrolifero (membri della Sudanese Professionals Association) in un comunicato stampa hanno informato che le attività riprenderanno solo quando il TMC avrà passato tutti i poteri ai civili. Il blocco dei pozzi priva la giunta militare di vitale valuta pregiata, peggiorando la già disastrosa economia del Paese.
La lotta per la democrazia e la libertà in Sudan non smette di produrre continui colpi di scena. La decisione di attuare il secondo golpe presumeva un’attenta analisi sulle probabilità di successo. Essendo la contro-rivoluzione iniziata con drammatica pompa magna, si pensava che i gerarchi fossero sicuri della vittoria. Il risultato al momento ottenuto è stato quello di peggiorare la loro situazione in meno di 24 ore.
Il rifiuto a riprendere il dialogo della SPA e Partito Comunista pone il TMC nella difficile situazione di dover scegliere. Continuare l’offensiva, avviandosi ad una guerra civile con vacillante lealtà degli alleati arabi, o cedere il potere ad un governo di civili con zero possibilità di negoziare.