Martedì 27 giugno a Khartoum, Sudan, il Presidente Salva Kiir e il leader della ribellione SPLM-IO hanno firmato l’ennesimo accordo di pace dall’inizio della guerra civile nel dicembre 2013. L’accordo è stato reso possibile grazie alla mediazione del Presidente ugandese Yoweri Museveni e dal suo omonimo sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir e prevede un cessate il fuoco che dovrebbe entrare in vigore domani sabato 30 giugno, la creazione di un corridoio umanitario per assistere i rifugiati, il ritiro delle rispettive truppe dai vari fronti sparsi nel Paese, la formazione di un Governo transitorio e la ripresa della produzione petrolifera. Il Governo transitorio avrebbe il compito di organizzare libere e trasparenti elezioni, formare un esercito nazionale che inglobi i vari gruppi ribelli e disarmare le milizie. L’Unione Africana è chiamata a inviare truppe per monitorare il cessate il fuoco.
L’accordo firmato a Khartoum scaturisce da fragili basi e mina l’unità nazionale. L’accordo prevede che durante il periodo di transizione vi siano tre capitali amministrative. Una decisione che equivale a dividere il Paese a seconda dei territori controllati dal Governo e dai principali gruppi armati. La ripresa delle attività di estrazione del greggio interessano i blocchi 1,2 e 4 nello Stato di UnitY e il blocco 5 in Tharjiath. Anche in questo caso la ripresa della produzione è suddivisa tra i contendenti ognuno dei quali è responsabile della sicurezza dei pozzi e degli espatriati cinesi. Anche i proventi saranno divisi tra i belligeranti, lasciando al Governo centrale un mero controllo sulla produzione.
La decisione di riesumare la produzione di greggio sembra dettata dalla necessità dei belligeranti di assicurarsi fonti di rifornimento e dalla ghiotta occasione per Cina, Uganda e Sudan di assicurarsi petrolio a basso prezzo. Lo scorso 24 giugno Khartoum ha offerto fondi e assistenza tecnica per riparare i pozzi danneggiati o chiusi e riprendere la produzione di greggio. Questa offerta tende a riattivare l’oleodotto che dal Sud Sudan giunge alla città portuale sudanese di Port Sudan, l’unica infrastruttura al momento esistente per assicurare l’esportazione petrolifera. Per la disastrata economia sudanese la ripresa delle attività estrattive e l’esportazione di greggio è vitale.
Anche l’Uganda mira al controllo del greggio sud-sudanese, per altro merce di scambio per l’assistenza politica e l’appoggio militare garantito dal Presidente Museveni al suo alleato Salva Kiir. Rispetto a Khartoum, Kampala si trova però in una situazione di svantaggio, non essendoci infrastrutture che possano garantire l’esportazione del greggio verso l’Uganda. Essa dovrebbe avvenire attraverso camion cisterne, che limitano il quantitativo esportato e fanno alzare considerevolmente i prezzi. Al momento attuale l’esportazione del greggio verso l’Uganda è impensabile. Museveni mira ad assicurarsi parte del greggio una volta stabilizzata la situazione attraverso un Governo transitorio in previsione dell’inaugurazione della raffineria ad Hoima, ora in fase di realizzazione.
Anche la tenuta del cessate il fuoco sembra incerta, semmai verrà rispettato il prossimo sabato. Lo scorso 23 giugno le truppe governative hanno lanciato un’offensiva contro i ribelli del SPLM-IO, nello Stato di Wau, attaccando le cittadine di Omboro, Bagari, Engo Hailima, Baslia. L’offensiva è stata respinta dai ribelli che affermano di aver inflitto gravi perdite alle truppe governative. Fonti in loco informano che il Governo di Juba, mentre giura di rispettare il cessate il fuoco concordato, starebbe preparando una seconda offensiva nello Stato di Wau e un’offensiva nello Stato di Imotong.
La scorsa settimana una colonna di caschi blu nepalesi è caduta in una imboscata presso la località di Yei to Lasu. Durante il conflitto due militari nepalesi sono stati uccisi e 10 feriti. Dall’inizio delle ostilità tra le due fazioni la missione di pace ONU ha perso 56 caschi Blu. Il Segretario Generale Guterres ha duramente condannato l’attacco, ricordando che si tratta di un crimine internazionale. L’imboscata non è stata rivendicata da nessun belligerante e gli autori rimangono tutt’ora ignoti. L’attacco ai caschi blu nepalesi e i precedenti atti ostili contro la missione di pace non sono casuali.
La UNMISS (Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan), si è dimostrata incapace di mantenere il suo ruolo di neutralità fin dall’inizio del conflitto. Nel marzo 2014 fu intercettato un convoglio pieno di armi destinate ai ribelli di Rieck Machar. Il supporto alla ribellione è una costante nell’operato UNMISS.
Nel luglio 2016 i caschi blu hanno commesso crimini di guerra contro la popolazione civile e rifiutato di soccorrere vari espatriati durante la battaglia di Juba.
Nel luglio 2017 le Nazioni Unite proposero di mettere sotto la loro tutela il Sud Sudan. Proposta rifiutata dai Stati membri del Consiglio di Sicurezza, in quanto l’ONU non possiede la capacità di gestire a livello amministrativo e di sicurezza una situazione così complessa come il conflitto sud sudanese. Di questa incapacità anche il Palazzo di Vetro a New York ne era consapevole, di conseguenza sorge il dubbio che la proposta fosse tesa a sopperire alle imminenti perdite di fondi dovute dalla chiusura o drastiche diminuzioni di altre missioni di pace in Africa. Missioni che fino ad ora hanno garantito all’ONU una media di 4 miliardi di dollari annui di diretto finanziamento per le missioni di pace e altri 6 miliardi di dollari per il supporto ai profughi gestito dalle agenzie umanitarie ONU. La tutela del Sud Sudan poteva far risparmiare alle Nazioni Unite e alle sue agenzie umanitarie il rischio di fallimento nel continente. La proposta rappresentava, in ultima analisi, un nuovo business nel continente.
L’accordo di pace raggiunto a Khartoum rappresenta un successo diplomatico per i Presidenti Museveni e Bashir ma, ad attenta analisi, rivela una estrema fragilità. Le convenienze personali dei rispettivi belligeranti, il loro dubbio controllo sul terreno, il proliferarsi delle milizie e l’ipocrisia internazionale determinata dagli interessi contrastanti di Cina, Stati Uniti e potenze regionali africane, hanno sempre posto le basi per il fallimento di ogni accordo di pace. Come fa osservare Amnesty International, il nocciolo della questione risiede nel ricercare una pace che ignori i crimini e le violazioni dei diritti umani commessi dalle parti belligeranti contro la popolazione civile. Una pace senza giustizia non può reggere in un nessun Paese al mondo.