domenica, 26 Marzo
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Steve Bannon, alfiere dell’atlantismo?

«Esiste ormai un’internazionale populista europea, e l’Italia ne è il leader». Con questo messaggio Steve Bannon, straordinario comunicatore a cui Donald Trump deve in buona parte il successo elettorale del novembre 2016, ha salutato l’esito del voto dello scorso 4 marzo, particolarmente favorevole a Movimento 5 Stelle e Lega. Già, perché Bannon – un po’ come Edward Luttwak – ha sempre considerato l’Italia una sorta di laboratorio politico da cui molto spesso emergono tendenze destinate ad affermarsi su scala ben più ampia nel corso del tempo. Il motivo per cui l’ex consigliere strategico di Trump guarda con particolare favore alla galassia cosiddetta (impropriamente) ‘populista’,  che riunisce al proprio interno tutti quei movimenti euroscettici e critici della politica migratoria portata avanti finora dall’Unione Europea a guida tedesca, è dato proprio dalla necessità di rifondare l’atlantismo per adeguarlo alla congiuntura attuale, contrassegnata dal forte declino delle forze inclini a mantenere integro l’assetto neoliberale su cui si è sviluppata la globalizzazione.

Nel ‘vecchio continente’, la nebulosa ‘conservatrice’ raggruppa sia i partiti socialisti che quelli gravitanti nell’orbita del Partito Popolare Europeo; le compagini, insomma, che hanno tenuto saldamente le redini della politica in tutti i Paesi dell’Europa occidentale dal secondo dopoguerra in poi. Il loro punto di riferimento oltreoceano è indubbiamente costituito dal clan dei Clinton, di cui fa parte l’intero establishment del Partito Democratico e che gode dell’appoggio sostanziale dei big della Silicon Valley e di una parte preponderante dei colossi di Wall Street, oltre che di alcuni finanzieri particolarmente influenti come George Soros. Anche una nutrita ‘fronda’ interna al Partito Repubblicano (in particolare quella facente capo al senatore dell’Arizona John McCain, defunto recentemente) si sente molto più vicina al fazione clintoniana che a Donald Trump, considerandolo un demagogo che con la sua irresponsabilità potrebbe arrivare a scardinare le fondamenta su cui si basa la supremazia geopolitica statunitense. A questa stessa ragione l’attuale inquilino della Casa Bianca deve l’ostilità di un fetta assai considerevole dello Stato profondo‘, molto più propenso a ragionare in una dimensione strategica che in termini economicisti e quindi piuttosto indifferenti alle ripercussioni sulla società Usa generate dalla postura imperiale che gli Stati Uniti mantengono ininterrottamente dal 1945.

Secondo l’ex diplomatico canadese e docente universitario Peter Dale Scott, Trump si inserisce nella «divisione a livello dei grandi detentori di ricchezza che hanno generosamente finanziato la campagna elettorale del 2016 […]. La contrapposizione vera è tra i petrolieri di estrema destra e la John Birch Society da un lato e il relativo internazionalismo di Wall Street dall’altro. Questa opposizione non è mai stata tanto potente e ben finanziata […]. [Sta attualmente verificandosi] un’aspra e duratura lotta tra i cultori dell’America first e i globalisti che anelano alla costruzione di un Nuovo Ordine Mondiale. Lo scontro, in atto ormai dagli albori del XX Secolo, vede la fazione orientata a favore degli apparati industriali (di cui fa parte la National Association of Manufacturers) combattere contro quella schierata a sostegno degli interessi della grande finanza (di cui fa parte il Council on Foreign Relations)». Giocando sul filo della contrapposizione tra le due grandi compagini economiche di cui si compone lo ‘Stato profondo’, il tycoon newyorkese sarebbe quindi riuscito ad accreditarsi come una sorta di mediatore disposto a tenere in debita considerazione tanto gli interessi degli industriali – facenti capo ai potentissimi fratelli Koch – quanto quelli dei finanzieri di Wall Street. I primi puntano all’abolizione delle norme a tutela dell’ambiente e a una forte riduzione delle tasse nei confronti dei redditi da capitale e degli strati più abbienti della popolazione, mentre i secondi ambiscono a reintrodurre una sorta deregulation 2.0 che elimini le inefficaci ma comunque fastidiose leggi atte a disciplinare l’attività finanziaria introdotte dal 2008 in poi.

Il tutto preservando ovviamente il primato geopolitico che gli Stati Uniti detengono quantomeno dal crollo dell’Unione Sovietica. Ed è qui che entra in gioco Steve Bannon, convinto propugnatore della teoria huntingtoniana dello ‘scontro delle civiltà’ in quanto funzionale alla strategia statunitense di prevenire la formazione di un blocco geopolitico eurasiatico in grado di relegare gli Stati Uniti a una posizione tutto sommato secondaria. Invocando la difesa dell’identità giudeo-cristiana di fronte alle minacce rappresentate dalla Cina e dall’Islam, Bannon mira evidentemente a conseguire il duplice scopo di sabotare il progetto cinese della Belt and Road Initiative (Bri) e scardinare allo stesso tempo l’Unione Europea, accusata di aver incoraggiato flussi migratori incontrollati. Nell’ottica di Bannon e dello stesso Trump, la struttura comunitaria costituisce un strumento nelle mani di una Germania sempre più inclina a guardare con favore a Russia e Cina, di cui Berlino si serve per di più per promuovere la propria politica mercantilista; politica che ha non solo accelerato e approfondito la deindustrializzazione degli Stati Uniti ma anche determinato il depauperamento del ‘vecchio continente’ e la cosiddetta ‘invasione di migranti’ favorendo le pulsioni nazionalistiche un po’ ovunque in tutta l’Europa mediterranea – Francia compresa. Si tratta tuttavia di quel ‘piccolo nazionalismo’ contro cui si era scagliato a suo tempo lo stesso Friedrich Nietzsche, puntando il dito contro la «piccola politica […] [destinata a] mantenere in eterno la divisione d’Europa in Stati minuscoli», per effetto del «morboso estraneamento che l’insania nazionalista ha interposto e tuttora continua a interporre tra i popoli europei».

Il punto è che questo ‘piccolo nazionalismo’ risulta del tutto confacente alla strategia di divide et impera elaborata da Bannon, che non a caso ha messo in cantiere The Movement, una sorta di ‘internazionale populista’ concepita per riunire al proprio interno tutte le compagini populiste «dall’Europa agli Stati Uniti al Sud America, Israele, India, Pakistan, Giappone». In tale contesto, il governo italiano formato da Movimento 5 Stelle e Lega si configura come la testa d’ariete attraverso cui il fondatore di ‘Breitbart News’ prevede di distruggere il – già pericolante di suo – edificio comunitario europeo: «Italia e Ungheria alle ultime elezioni hanno mandato un messaggio chiaro, anche contro i migranti. È finita, come sono finiti i diktat di Bruxelles e il fascismo dello spread. E sull’ euro dovranno decidere gli italiani. Presto avrete una confederazione di Stati liberi, non questa Unione Europea», ha dichiarato Bannon lo scorso giugno. Una ‘libertà’ che rimarrebbe comunque vincolata all’inquadramento dei Paesi europei nei ranghi della Nato, strumento principe attraverso cui si esercita l’influenza statunitense sul ‘vecchio continente’. Come ricorda l’esperto Manlio Dinucci, è grazie a questa influenza che «Washington ha potuto spingere l’Europa in una nuova Guerra Fredda, facendone la prima linea di un sempre più pericoloso confronto con la Russia, funzionale agli interessi politici, economici e strategici degli Stati Uniti. Emblematico il fatto che, proprio nella settimana in cui in Europa si dibatteva aspramente sulla ‘questione italiana’, è sbarcata ad Anversa (Belgio), senza provocare alcuna significativa reazione, la prima Brigata corazzata della 1° Divisione statunitense di cavalleria, proveniente da Fort Hood in Texas. Sono sbarcati 3.000 soldati, con 87 carri armati Abrams M-1, 125 veicoli da combattimento Bradley, 18 cannoni semoventi Paladin, 976 veicoli militari e altri equipaggiamenti, che saranno dislocati in cinque basi in Polonia e da qui inviati a ridosso del territorio russo […]. Proprio mentre sbarcavano in Europa i carri armati inviati da Washington, Steve Bannon incitava gli italiani e gli europei a ‘riprendersi la sovranità’ da Bruxelles».

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