giovedì, 23 Marzo
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Sopra e sotto la soglia di sbarramento: LeU – e gli ‘altri’

Programma LeU

Nato dalla fusione di Sinistra Italiana, Articolo1-Movimento Democratico Progressista (MDP) e Possibile, il movimento guidato da Pietro Grasso, 73 anni, magistrato antimafia (PNA) fino al 2012 e Presidente del Senato dal 16 marzo 2016, costituisce un soggetto politico unitario, non una coalizione: la nuova lista si presenta, nelle parole del suo leader, come il «primo passo verso la costruzione di un nuovo soggetto politico comune delle forze progressiste, civiche e di sinistra nel nostro Paese». Tra i fondatori, Giuseppe Civati (Possibile), Pierluigi Bersani e Roberto Speranza (MDP).

Improntato a un ritrovato progressismo teso al recupero della funzione economico-sociale dello Stato democratico, il Programma parla di recessione: sommata a «un processo di globalizzazione non regolato», essa «ha enormemente accresciuto le diseguaglianze», ritenute «il principale fattore di crisi dei sistemi democratici». La compressione dei diritti si specchia nel lavoro dequalificato, nelle difficoltà di inserimento e nella disoccupazione dei giovani (e degli over 30), generando nuova «povertà e insicurezza sociale». Combinandosi con la «stagnazione della produttività» e le derive del sistema di welfare, questo processo ha portato la precarietà nella vita quotidiana delle persone. Persone che, si legge, stanno al centro del movimento: scuola, lavoro, salute, una casa… Ecco i diritti di welfare che garantiscono l’uguaglianza cui la denominazione (‘LeU’) si riferisce, presentandosi come nuovo soggetto capace di riunire le «forze progressiste, civiche e di sinistra nel nostro Paese».

In politica estera, non si fa mistero di una scelta chiaramente europeista, anche se orientata all’uscita dalla  «deriva tecnocratica che ha preso l’Europa, restituendo respiro alla visione di un solo popolo europeo» e fondata su criteri di unità solidale. Per un’Europa «più giusta» e «democratica (…) Occorre superare la dimensione intergovernativa che detta i doveri e non garantisce i diritti con politiche di dura austerità». A tal fine, è auspicabile che il Parlamento europeo possa eleggere «un vero governo delle cittadine e dei cittadini europei affinché possano tornare ad abitare la loro casa».

In politica internazionale, «il ripudio della guerra e il rilancio del multilateralismo e della cooperazione (…) devono essere la bussola di un nuovo ruolo dell’Italia e dell’Europa nel mondo globale, in un quadro ancora drammaticamente segnato da conflitti, terrorismo e grandi fenomeni migratori». Sull’ultimo punto, rispetto alla gestione dei flussi e alle inerenti politiche di accoglienza tra gli Stati membri «è aperta una faglia in tutta Europa». Il fatto che le frontiere europee meridionali si siano spostate al di là del Mediterraneo implica, nel discorso di LeU, una revisione delle politiche di respingimento e un diverso rapporto con la Libia, oltre a un’attenzione alla cooperazione con Paesi e macroregioni coinvolte come aiuto a valorizzare le risorse nei loro territori: «Dobbiamo rigettare accordi con Paesi in cui non siano garantiti i diritti umani, promuovere reali occasioni di sviluppo nei Paesi di provenienza e non permettere che si continui a depredarli».  A livello unionale, considerando la problematicità del Regolamento di Dublino, è necessario promuovere «la nascita di un unico sistema di asilo europeo che superi il criterio del paese di primo accesso e che comprenda canali umanitari e missioni di salvataggio» (voce «Uguaglianza nei diritti»). A complemento di tale riforma, l’ordinamento nazionale dovrà prevedere modalità di ingresso regolare, permessi di ricerca lavoro e un sistema SPRAR (accoglienza ordinaria e integrata) generalizzato, «stroncando ogni forma di speculazione e invece generando nuove opportunità di inclusione e sviluppo».

In materia di Difesa, nel Programma si legge che, sulla scorta del Rapporto 2018 dell’Osservatorio Milex, «negli ultimi 10 anni di recessione e di tagli in tutti i comparti sociali, la spesa pubblica militare italiana è invece aumentata del +21% con una crescita costante che continua tuttora arrivando, con la Legge di Bilancio per il 2018, all’1,42% del PIL (più della Germania, ferma all’1,2%)».  In risposta, si giudica «non rinviabile una riduzione delle spese militari, con un risparmio per la finanza pubblica» e un ridimensionamento in fatto di produzione ed export di armamenti secondo i limiti internazionali e a partire dal diritto nazionale vigente. In forza della Legge n. 185/1990, «occorre interrompere l’autorizzazione dell’export bellico nei confronti dell’Arabia Saudita, in guerra con lo Yemen». Per il movimento, «serve una politica estera di pace» che, partendo dall’Articolo 11 della nostra Costituzione, inneschi un processo attivo di «cooperazione e solidarietà internazionale», potenziando il ruolo dei corpi civili di pace e istituendo un «Dipartimento della difesa civile» in funzione di «mezzo alternativo per promuovere iniziative multilaterali di risoluzione pacifica dei conflitti». Infine, per gli esponenti della formazione l’Italia «deve (…) impegnarsi a sottoscrivere e promuovere il Trattato per la proibizione delle armi nucleari». Secondo il Rapporto citato, la presenza di truppe statunitensi e di armi nucleari – ufficialmente non confermata – nelle basi militari di Ghedi e Aviano costano ogni anno allo Stato circa 520 milioni di euro.

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