In Siria l’Iran ha sposato la dottrina di «non interferenza» diretta. Nella guerra civile e anche prima, alle truppe di Bashar al Assad ha fornito training, munizioni e know how. Ma massimo presa di distanza sulle sostanze chimiche – acquistate più che altro dall’Europa, fornitrice anche dell’Iraq – e basso profilo sugli attentati ai diplomatici iraniani, in rappresaglia alle azioni delle milizie di Hezbollah, braccio armato e politico dell’Iran in Libano, contro i ribelli siriani.
Invitati e poi ripudiati, i mediatori di Teheran si sono tenuti fuori anche dai negoziati sulla Siria di Ginevra 2. Salvo poi, dietro le quinte, avere un «ruolo cruciale» nell’unico risultato concreto dopo le settimane di rissa tra gli inviati di Assad in Svizzera e la parte dell’opposizione presente alle trattative: la fine dell’assedio della città di Homs e l’evacuazione di civili e miliziani dal centro, in cambio del rilascio di decine di prigionieri pro Assad da parte degli insorti. Le indiscrezioni rilanciate dai network di attivisti parlavano di stranieri (non solo libanesi di Hezbollah ma russi e iraniani), detenuti dai ribelli e di un accordo più ampio tra le due parti, abbozzato a Ginevra ma sempre naufragato, raggiunto infine anche per l’evacuazione di altre due località, stavolta sciite, accerchiate dagli insorti sunniti. Alla vigilia delle elezioni farsa di Assad del 3 giugno 2014 è lecito chiedersi quanta parte abbia e abbia avuto l’Iran, soprattutto nell’ultimo anno, nel far riguadagnare terreno al Presidente siriano, vincitore di fatto ma di un Paese distrutto.
Per l’Iran il controllo della Siria è funzionale alla sopravvivenza dell’asse sciita che, attraverso l’Iraq, si allunga fino al Libano, lambendo Israele. Fedele alla sua alleanza con Damasco,la Repubblica islamica plaude al voto siriano come a «un passo in avanti significativo per portare pace e stabilità nella regione». «Teheran è sempre stato pronto ad aiutare a risolvere la crisi siriana, spingendo tutte le parti belligeranti a porre fine al conflitto», ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Marziyeh Afkham, «nulla più che tenere le elezioni è un diritto basilare di tutte le nazioni del mondo, inclusa la Siria».
Dopo 150 mila vittime denunciate dal 2011, 9 milioni di sfollati stimati dall’Onu e i seggi offlimits nelle città come Raqqa in mano all’opposizione armata, si calcola che meno della metà dell’elettorato siriano possa fisicamente andare alle urne. La scelta sui candidati di punta sarà poi limitata al Presidente e figlio del dittatore Hafez al Assad, contro il suo ex ministro Hassan al Nouri e l’unico rappresentate di un partito d’opposizione che ha accettato di partecipare: il trozkista di Aleppo Maher Hajjar, che l’opposizione armata ha descritto come fisiologico a «dare una parvenza di legittimità al voto». La posizione dell’establishment iraniano, articolata da Reza Hojjat Shamami dell’Iran and Eurasia Research Center (Iras) su ‘Iranianpolicy.net’, è comunque quella di un progresso istituzionale verso la democrazia. Prima del 2014, nei 14 anni di governo di Assad non si erano mai tenute Presidenziali, ma solo referendum consultivi nel 2000 e nel 2007.
«Dopo le riforme costituzionali effetto di un referendum nel 2010», scrive Shamami, «altri partiti politici (in aggiunta al monolite del Baath, ndr) possono prendere parte liberamente alle elezioni e ad altre forme di attività politica in Siria. Prima invece,la struttura politica siriana era un triangolo composto da tre elementi: la famiglia degli Assad, il partito nazionale del Baath e l’esercito siriano». Prerequisito per la successione, sul quale si è arenata la Conferenza per la pace di Ginevra, era l’uscita di scena che il Presidente in carica ha rifiutato, condicio sine qua non per i ribelli della Coalizione nazionale siriana (Cns) e anche per l’Onu, verso una reale transizione democratica.
Per Teheran, invece, la famiglia Assad resta la «fondatrice della Siria moderna». In questa ottica la rinuncia dell’erede Bashar a prendere parte alle consultazioni è illogica, «dopo tre anni di resistenza contro gruppi armati, tollerata proprio per aprire la strada al Paese verso queste elezioni». Sono tali gruppi, viceversa, a rifiutare illogicamente il confronto alle urne con il «governo legittimo» di Damasco. Alle elezioni siriane presidiate da osservatori iraniani, il «popolo potrà esprimere la sua reale opinione sulla crisi», come è avvenuto per «nel 2006 per il voto democratico di Hamas in Palestina (nella Striscia di Gaza, ndr) e per la Fratellanza musulmana in Egitto nel 2012». La propaganda della Repubblica islamica sostiene che «in contrasto con quanto presentato dai media occidentali, le ultime statistiche mostrano che il 90% della popolazione nazionale vive al momento in aree sotto il controllo e il potere dell’esercito siriano».
Se la percentuale di territorio tornato in «relativa sicurezza» è sovrastimata, è indubbio che, dall’accordo internazionale per la consegna e la distruzione delle armi chimiche del settembre 2013, le forze di Assad abbiano riguadagnato posizioni su posizioni, soprattutto grazie ai rinforzi inviati dall’estero. Decisiva, per bloccare l’avanzata degli estremisti islamici più aggressivi e tamponare le diserzioni nell’esercito verso i ribelli, è stata l’esperienza sul terreno delle milizie sciite di Hezbollah, formate dai Guardiani della rivoluzione (Pasdaran) iraniani come le forze di Assad e arrivate in soccorso dal Libano, ufficialmente per proteggere le sue frontiere occidentali.
Come il Cremlino, Teheran ha poi ammesso di aver continuato a inviare «esperti militari» e «assistenza umanitaria» in Siria, per una spesa che nel 2014 il Ministero delle Finanze siriano ha stimato in «15 miliardi di dollari». A detta dello stesso Comandante dei Guardiani della Rivoluzione Hossein Hamedani, soltanto negli ultimi mesi sarebbero stati addestrati altri 130 mila soldati pronti per i fronti siriani. Il Ministero degli Esteri iraniano che tratta sul nucleare con l’Occidente nega l’invio di mercenari e stranieri dell’asse sciita, per contrastare gli islamisti sunniti venuti in Siria anche dall’Europa per aiutare i ribelli. Ma anche l0agenzia di stampa ‘Fars‘, vicina ai Pasdaran, ha riportato la storia di un giovane rifugiato afghano, arruolato per combattere in Siria e ucciso mentre guidava il battaglione afghano Fatemiyoun a Damasco.
Al ‘Wall Street Journal‘ la comunità afghana in Iran e fonti riservate delle stesse Guardie rivoluzionarie hanno raccontato di mercenari, arruolati tra gli oltre 3 milioni di immigrati (tra regolari e irregolari) indigenti del Paese, a 500 dollari al mese più vitto e alloggio e assistenza alle famiglie, per combattere contro i ribelli siriani. A nord-est di Mashhad, vicino al confine con l’Afghanistan, i funerali delle vittime di guerra sarebbero ormai frequenti e alla luce del sole: un tam tam di segnalazioni dal novembre scorso, citate anche dai media iraniani.
Anche grazie a questi morti sarebbe avvenuta la riconquista che ha portato Assad alle Presidenziali, diretto verso la vittoria. «Niente in Siria accade senza la mano dell’Iran», ha commentato il potente deputato membro dell’Assemblea consultiva islamica ed ex Ambasciatore iraniano in Siria Hossein Sheikholeslam. Prima di gettare la spugna, a marzo anche il mediatore delle Nazioni Unite e dell’Onu per la Siria Lakhdar Brahimi era volato a Teheran per «spingere il regime siriano a venire a Ginevra con un ruolo costruttivo e convincere Assad a rimandare le elezioni». Invece è stato l’incrollabile Brahimi a dimettersi.