Stando a diverse fonti, sono tra sette e dieci le vittime, e una ventina i feriti, di un bombardamento aereo segnalato lunedì a ‘Routers’, che ha colpito delle truppe di Hezbollah impegnate in Siria. Il drone, la cui identità e appartentenza non è stata identificata, ha attaccato dei combattenti sciiti in Siria orientale, nel deserto della provincia di Homs. Gli Stati Uniti negano di essere responsabili dell’attacco: i rappresentanti della Coalizione internazionale hanno dichiarato che l’area colpita è al di fuori del loro raggio operativo e coperta dei radar russi.
Si ipotizza dunque che si sia trattato di un incidente: sarebbe stato un ‘fuoco amico’ accidentale dei russi – alleati delle truppe sciite nella lotta contro i nemici del Governo siriano, tra cui i miliziani dello Stato Islamico – o delle truppe siriane stesse. Israele è un altro dei Paesi potenzialmente coinvolti, e certamente non un amico del gruppo militare sciita, ma i suoi attacchi, mirati a impedire l’arrivo di convogli di armamenti iraniani sul territorio libanese, sono sempre stati diretti sulle regioni più meridionali della Siria.
Certo è che l’ambizione e l’attivita di Hezbollah, storico nemico dello Stato ebraico ma sempre più rilevante nello scenario siriano e mediorientale, potrebbero aver convinto Israele a un’azione più incisiva, un vero e proprio attacco in pieno territorio di Damasco.
Pochi giorni fa, in occasione della ricorrenza dell’Ashura, Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah ha parlato, forse memore della guerra con Tel Aviv nel 2006, in collegamento con la piazza a Beirut condannando Israele e rimproverandolo del braccio di ferro con l’Iran che trascinerà l’intera regione in una guerra: «l’attuale Governo israeliano, presieduto da Netanyahu, sta portando il suo popolo verso la morte e la distruzione […] non hanno idea di cosa li aspetta se si imbarcheranno in questa stupida guerra». Nasrallah ha persino intimato gli ebrei di Israele di «tornare alle nazioni da cui sono venuti» per evitare «le guerre verso cui l’idiota Netanyahu li porta».
Ad alimentare le paure di Israele è la piega inaspettata e ormai innegabile che la guerra in Siria ha preso. Bashar al Assad è ancora saldamente ‘sul trono’ del Paese, e ora è forte di un’importante presenza sciita e filo-iraniana sul territorio siriano. Solo i libanesi di Hezbollah hanno inviato, durante tutto il corso del conflitto, più di 7000 soldati in territorio siriano. Secondo alcune stime, le forze inviate dall’Iran (che comprenderebbero anche mercenari di diverse nazionalità) supererebbero in numero quelle dello stesso esercito governativo siriano.
E non si tratta solo di presenza militare: Teheran è riuscita, silenziosamente, a ripopolare le aree abbandonate dai profughi sunniti in fuga con un flusso migratorio che cementifica la presenza demografica scita al confine con il Libano. Stando al ‘Guardian’, un leader libanese ha affermato che «il regime iraniano non vuole i sunniti tra Damasco e Homs e il confine libanese […] questo rappresenta uno spostamento demografico storico»: una manna dal cielo per i soldati di Hezbollah.
Israele alza la voce, temendo il ‘corridoio sciita’ (definito dallo stesso Netanyahu poche settimane fa «una cortina di tirannia e terrore»), tra Libano e Iran lungo la Siria, che darebbe un supporto logistico formidabile a Hezbollah, da sempre addestrato, finanziato e armato dai militari di Teheran. Il Primo Ministro israeliano ha affermato chiaramente di voler impedire «lo stabilimento di basi militari permanenti in Siria per le sue forze aeree, di terra e di mare». Insomma, Israele ha molto da temere dalla fine del sanguinoso conflitto siriano. Tanto più che stima un numero di missili nelle mani di Hezbollah di 120-140.000 unità, dieci volte tanto la cifra di ordigni sciiti prima dello scoppio della guerra libanese del 2006.
L’IDF bombarda e blocca già da anni l’arrivo di ordigni potenzialmente pericolosi per le città e gli insediamenti civili, ma non solo: anche i missili terra-aria, virtualmente dal solo uso difensivo vengono abbattuti prima che arrivino nelle mani del ‘Partito di Dio’ sciita. Il continuo flusso di armamenti non può comunque essere completamente interrotto: negli anni Hezbollah, stando a fonti israeliane, ha praticamente trasformato interi villaggi libanesi in depositi di armi.
Il processo ha seguito tre fasi: dal 2006 al 2008 gli sciiti si sono riforniti di missili a corto e medio raggio, dal 2008 al 2012 si è passati agli ordigni a lunga gittata e ai droni. Sino al 2016 l’organizzazione ha formato veri e propri commando addestrati per futuri raid – potenzialmente in territorio israeliano –, e ora cerca di ottenere la tecnologia per armarsi di missili guidati. Tutto questo ha portato a quella che il report omonimo stilato dal think-tank israeliano Besa Center ha definito una ‘guerra di basso profilo’ tra Hezbollah e Israele: uno scambio di minacce e attacchi mirati, all’ombra della più devastante guerra siriana, ma che rischia di sfociare in aperto conflitto da un momento all’altro.
A prevenire il peggio il ruolo della Russia. La visita di mesi fa di Netanyahu nel Paese di Putin, finalizzata a coccolare Mosca evidenziando il pericolo che la potente influenza iraniana in Siria rappresentava per Israele, è fallita miseramente. Il Cremlino non si è lasciato impressionare, e non intende abbandonare Teheran, uno dei suoi migliori alleati mediorientali. La scelta di campo di Putin è stata chiara.
Impossibile per Israele, dunque, lasciare che la situazione possa sfuggire di mano. Questo spiega anche certe affermazioni da parte del ministro Ayelet Shaked, ‘falco’ dell’Esecutivo di Netanyahu, che dice che «se Putin vuole sopravvivere deve mantenere le sue forze armate fuori dalla Siria». La solida alleanza russo-iraniana è pericolosamente vicina a trasformare la guerra in Siria nel ‘Vietnam’ degli interessi israeliani.