La settimana trascorsa ha portato al massimo della tensione e dell’attenzione due questioni fondamentali per la sopravvivenza del nostro Paese e del suo Governo: la zuffa (invereconda, ma normale purtroppo) nella maggioranza determinata dalle sgomitature sguaiate di Matteo Renzi e dei suoi alla ricerca di posti di sottogoverno e para-governo, e la proposta franco–tedesca di Recovery Fund e la conseguente reazione ‘renzi-like’, cioè sguaiata e urlata, volgare, del gruppo dei Paesi nordici, che poi nordici così tanto non sono, se non rispetto all’Italia, chiosata, per fortuna, dalle splendide, chiarissime, coraggiose dichiarazioni di Romano Prodi a Massimo Gramellini sabato scorso, guarda caso identiche nella sostanza alle cose scritte da me varie volte: solo per dire, per carità, che forse non dicevo sciocchezze clamorose.
Di entrambe le cose avremo modo e occasione di parlare durante la settimana che inizia oggi.
Vorrei, invece, tornare molto brevemente, ma anche con la maggior chiarezza possibile, sulla vicenda dell’imbuto, o meglio, del ‘mbuto, come direbbe Guzzanti, sorvolando, sia pure, sulla sciocchezza dell’imbuto di Norimberga, città meglio nota (e non felicemente) per la ‘nascita’ ivi del nazismo e (non del tutto felicemente) per l’omonimo processo: anche questo ‘stenderebbe’ del tutto quella povera città!
Il fatto in sé sarebbe irrilevante: un evidente lapsus che, però, rivela non tanto la tensione mentale del Ministro che ‘prende il lapsus’, quanto la evidente incomprensione dello stesso, evidenziata dal fatto, appunto, che la Ministro cerca di giustificare la sciocchezza (e quindi non più un lapsus, visto che ne conferma la volontà di dirla quella frase!) mettendoci in mezzo la predetta città: il trionfo di google o delle banalità pedagogiche.
E già, pedagogiche, perché la Ministro dimostra, con quella citazione, di condividere la sostanza di quel messaggio, e cioè che la scuola, o la didattica, consistono, sostanzialmente, nel trasferimento (meccanico, visto l’uso dell’imbuto) di nozioni nella testa dello studente. Colpisce, lo dico solo incidentalmente, che il suo collega Ministro per l’Università, ritenga, a sua volta, che alla riduzione del numero degli studenti che si iscrivono all’università (cosa di una gravità ‘epocale’! su cui in un Paese normale si dovrebbero riunire Parlamento e Governo giorni e notti per risolverla) si possa e si debba porre rimedio abbassando le tasse universitarie, una sorta di riflesso condizionato ‘salviniano’ ai problemi: anche quelle universitarie sono ‘tasse’! Lapsus: certamente il Ministro ben conosce la differenza tra tasse e tributi.
Francamente, mi spiace doverlo dire molto seccamente, questa concezione autoritaria e autoreferenziale della scuola mi sembra aberrante, e devastante nella bocca di un Ministro, pur se finora non adusa a viaggiare nel tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso, anche se non aliena a ‘dire cose tanto per dire’.
Vediamo bene.
Che nella scuola, come nell’Università, si debbano trasferire nozioni e dati, dalle tabelline all’ Etica Nicomachea dai docenti agli studenti, è ovvio. Ma è solo preliminare. Anzi, a stretto rigore, le stesse nozioni possono essere apprese per lo più, sottolineo il per lo più, anche solo attraverso un libro in cui siano elencate. In questo caso, ma solo in questo caso, l’insegnante è, o può apparire, come colui che regge l’imbuto per riempire la testa dello studente. E dopo averla riempita a dovere, prova a vedere cosa ci sia restato.
Se questa, e pare sia proprio questa e solo questa, è l’idea della scuola dei nostri ministri, siamo nei guai, ma nei guai grossi.
A quanto pare non si comprende che specialmente la scuola superiore e l’Università, non sono depositi di nozioni, ma sono, o dovrebbero essere, strumenti di allenamento, no, meglio, di provocazione critica, cioè di valutazione, anzi, di libertà di valutazione. Insomma, di una parola che non ho sentito pronunciare dai nostri ministri -sempre che la conoscano- cultura.
La scuola e l’università, sono luoghi e strumenti di costruzione di cultura e quindi di cultura critica. Sì, anche (secondo me principalmente) di costruzione di cultura, perché la cultura nasce e cresce dal e nel dialogo, nello scambio di idee (anche sbagliate), nella e dalla riflessione sulla mancata comprensione delle cose insegnate o da imparare, quindi anche nel docente. La verità definitiva non esiste, se non nei livelli più elementari della conoscenza, appunto le tabelline, ma superato quel dato minimo, è lo spirito critico, e quindi la capacità di ‘ragionare su’ quelle nozioni, che ‘fa’ cultura. O, meglio ancora, grazie a quelle nozioni. Perciò dicevo ‘libertà’: perché solo la libertà di pensiero, cioè la capacità e la volontà, al tempo stesso, di ragionare, come si suol dire, ‘con la propria testa’ permette di trasformare le nozioni in cultura.
Non capire questo, e immaginare la scuola come il luogo in cui si trasmettono nozioni ‘date’, quindi non discutibili, è veramente aberrante, non per caso dicevo ‘autoritarie’. Dicevo prima le tabelline: certo anche le tabelline, una volta bene imparate, sono discutibili, devono essere discutibili. Altrimenti la scuola si riduce ad una meccanica di trasferimento di dati, non discutibili e non discussi, da accettare e archiviare mnemonicamente non razionalmente. Il progresso, cari signori ministri, nasce dal dubbio e dalla curiosità.
E ciò accade, specie nella scuola (ma non solo, perché anche nell’università e nella scienza post universitaria è, deve essere così), non solo grazie al docente che ‘immette’ i dati e ‘ne fornisce o suggerisce gli strumenti critici’, ma, e secondo me principalmente, grazie alla comunità della scuola. Una scuola o una università senza comunità, senza studenti che ‘si’ parlano, ‘si’ scambiano giudizi, ‘si’ alleano per prendere in giro il docente (anche questo, certo!), non è scuola, ma Amazon o Google.
Se questa, e a quanto pare questa è la concezione dell’istruzione che hanno costoro, è ben comprensibile che per loro sia indifferente la ‘lezione’ in presenza o via etere, completata dall’assegnazione dello studio (più o meno a memoria) da pagina x a pagina y … ‘ma sono troppe pagine, professo’!’.
Certo, via etere, qualche nozione (molte meno, ma proprio tante di meno, di quante si possano anche solo ‘trasferire’ in classe o in aula) si riesce a ‘trasferire’, ma la comprensione e l’assorbimento di quelle nozioni accade solo dal confronto, dalla discussione, dalla messa in stato di accusa delle ‘nozioni’.
Le università telematiche, una bruttura che piace ed è piaciuta moltissimo al nostro ceto politico, sono esattamente la negazione programmatica della cultura. Che poi talvolta riesca egualmente a prodursene, può certamente darsi, ma per lo più no. L’università telematica diventa poco meno che un esamificio. Non ho sbagliato: ‘meno’. Perché già molto spesso l’università è poco di più, ma l’esame in presenza almeno permette un minimo di confronto, di dialogo, cioè rende l’esame più vicino a ciò che dovrebbe essere sempre: uno scambio di idee critico, non un interrogatorio in stile carabiniere o di acida inquisizione ‘per vedere se hai studiato e per farti cadere’. Via internet diventa solo uno strazio. Aggravato dal pessimo funzionamento delle linee, cosa della quale i Governi non si sono mai voluti occupare. Oggi vorrebbero, specie la predetta, istituzionalizzare la bruttura delle lezioni via internet, con linee che vanno a manovella! Certo, le scuole sono poche, le aule cadenti, i docenti sfiduciati e demotivati, le strutture carenti, ma è lì che si dovrebbe agire, non cavarsela con internet. Se all’estero possono riaprire già ora le scuole è perché hanno tutto ciò.
Ma, tornando all’insegnamento, la sola idea che quello via internet possa anche solo lontanamente sostituire, ma perfino integrare, quello diretto, magari completo di esercitazioni, seminari, eccetera, e di balbettii, papere, dialetti … lapsus, è menzogna allo stato puro, o, più precisamente, prova di incultura se non semplicemente di ignoranza.
Quando poi si sente discettare di esami ‘seri’ (diversi da quelli senza quel predicato?) dove si tenga conto anche della ‘carriera’ scolastica, di nuovo faccio fatica a raccogliere le braccia che mi sono cadute. Affermazioni del genere sono solo prova di paternalismo deteriore e di totale incomprensione di cosa sia l’insegnamento, dove l’esame dovrebbe essere solo il naturale frutto colloquiale dello studio dell’anno e né una prova capziosa e nozionistica, ma neanche una finta discussione, su un finto elaborato, fintamente ‘scritto’ dal discente … anche ai livelli ‘più alti’, come è ben noto!
E infine, in questo sfascio, sentire di assunzioni record (e non è la prima volta e quindi di nuovo Renzi all’arrembaggio) nella scuola, per non meglio identificati ‘titoli’ (che poi per lo più sono supplenze più o meno attendibili) piuttosto che per concorso (come peraltro stabilisce la legge), per di più con la scusa che in tempi di coronavirus non si possono riunire tante persone insieme, non solo è un insulto alla cultura, ma un ceffone sonoro al buon senso, sia pure sindacalmente coerente.