mercoledì, 22 Marzo
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Salvare i dialetti attraverso la Rete

In Italia si parlano, o meglio si parlavano, tantissimi dialetti: un patrimonio di grande interesse culturale e scientifico, che, però, va scomparendo, a mano a mano che l’italiano viene adottato come lingua principale o unica, e le forme dialettali originarie vengono dimenticate. Quello in cui oggi molti italiani si esprimono credendo di parlare in dialetto è in realtà un italiano regionale, il cui vocabolario e la cui sintassi contengono una pallida imitazione di quella che una volta era una vera e propria lingua.

Chi è interessato a studiare questo patrimonio linguistico in via di sparizione deve rivolgersi agli anziani, ma reperire le persone che ancorano ricordano il dialetto autentico è un compito molto difficile. Ma c’è chi prova a farlo utilizzando le nuove risorse offerte dalla tecnologia. Un progetto attualmente in corso prevede, infatti, la raccolta di dati sul dialetto abruzzese e molisano utilizzando il cosiddetto crowdsourcing, cioè la fornitura spontanea da parte delle persone. È stato allestito a questo scopo un sito web, che consente alle persone di inviare ai ricercatori registrazioni della parlata dialettale, realizzate in proprio usando un qualsiasi smartphone, specificando la collocazione geografica dei parlanti. Questo consentirà ai ricercatori di creare una vera e propria mappa del dialetto abruzzese e molisano, da utilizzare come base per compiere ricerche più approfondite.

A lanciare questo progetto è stata l’Università olandese di Leida, sotto la guida di Roberta D’Alessandro. Nata in Abruzzo, ad Arielli, dopo essersi laureata a L’Aquila in lingue e letterature straniere la professoressa d’Alessandro ha proseguito i suoi studi in varie università estere, diventando, nel 2007, ordinario di linguistica a Leida, dove dirige il dipartimento di italianistica. Nel 2011 è stata ammessa all’Accademia delle Scienze olandese, e dal 2014 è anche membro della Global Young Academy, che raccoglie 200 ricercatori da tutto il mondo, partner del World Economic Forum, nella discussione di politiche della scienza.

 

Professoressa D’Alessandro, come è nato questo progetto di ricerca sui dialetti?

Fa parte di una serie di progetti tutti legati alla mia cattedra, ma con finanziamenti diversi. Quello del crowdsourcing via smartphone è un progetto pilota che riguarda unicamente la metodologia di raccolta dei dati, e si allaccia a un progetto più grande dell’European Research Council, da cui ho da poco ricevuto un finanziamento di due milioni di euro per fare ricerca su lingue e dialetti italo-romanzi e sul modo in cui si sono modificati a contatto con le lingue romanze in America e con l’italiano stesso. Questi progetti sono sponsorizzati, oltre che dall’Università di Leida e dall’Ente Nazionale per la Ricerca olandese (NWO), anche dall’Accademia delle Scienze, della quale faccio parte, che ha l’abitudine di attribuire piccoli finanziamenti a progetti pilota da sviluppare poi in progetti più ampi. L’Accademia ha finanziato anche un altro mio progetto sulla rivitalizzazione dei dialetti, nell’ambito del quale stiamo preparando un’antologia per i bambini delle scuole, che include anche dei quiz per valutare quanta competenza riguardo al dialetto dei nonni è rimasta loro.

 

Qual è la funzione specifica del progetto di crowdsourcing via telefono?

È un modo per raggiungere i cittadini e coinvolgerli nella documentazione dei propri dialetti. Il problema della dialettologia in Italia è che i dialettologi sono sempre meno. Le cattedre italiane di dialettologia sono state accorpate a quelle di linguistica, e sono rimasti in pochissimi a fare ricerca sul campo. Per fare una ricerca seria occorre un linguista: è necessario valutare l’aspetto sociolinguistico, il background del parlante, fare domande che non influenzino l’interlocutore; tutte cose che richiedono un esperto. L’idea di questo progetto è cominciare a sensibilizzare le persone sull’importanza della documentazione del dialetto. Si tratta di registrare la microvariazione linguistica in Abruzzo e Molise, che non è affatto documentata. I centri di documentazione in Italia sono situati al Nord e al Sud, ma la zona che va dall’Abruzzo alla Puglia è del tutto scoperta: si sa davvero poco su come si parla. È una situazione difficile da affrontare: io da sola non posso certamente occuparmi di 305 comuni dell’Abruzzo e 114 del Molise! Perciò abbiamo pensato di creare un database interattivo, in forma di mappa, al quale i parlanti si possono collegare per caricare dei piccoli racconti, che ci danno la possibilità di verificare l’accento, la parlata e così via. Ovviamente il nostro obiettivo a lunga scadenza è quello di identificare dei parlanti che sia possibile intervistare in modo approfondito. Di per sé la cosa non ha un grande valore scientifico, è soltanto una ‘sonda’. Però la gente è molto interessata. Sulla mia pagina Facebook, ‘linguistica in pillole‘, il progetto ha avuto 130.000 visualizzazioni, una cosa mai successa prima. Serve a coinvolgere i giovani (ovviamente non ci aspettiamo che lo facciano gli anziani) nella documentazione del proprio dialetto.

 

Come funziona in pratica?

I ragazzini vanno a visitare i nonni e con lo smartphone mettono online ciò che hanno registrato. Cerchiamo di coprire tutte le località di Abruzzo e Molise. Poi ascolterò le registrazioni e cercherò di ricavarne dei dati. Questo tipo di raccolta va benissimo per la sintassi; non per la fonetica, ovviamente, perché la registrazione fatta con il telefonino non è sufficientemente precisa. Inoltre, in questo modo mi procuro contatti con persone disposte a partecipare a inchieste dialettologiche, che altrimenti sarei dovuta andare cercare nei paesini attraverso il parroco o il farmacista. In futuro vogliamo estendere questo tipo di raccolta di dati in crowdsourcing anche all’America, dove risulta ancora più utile: non posso certamente andare in giro per la pampa chiedendo: “C’è qualcuno che parla molisano?”. Manderemo invece lettere ad Ambasciate, istituti, associazioni in Argentina, Brasile, Canada, USA e così via, perché chiedano alle persone di mandare i loro figli a registrare i nonni, consentendoci di fare un campionamento e indirizzare la ricerca sul campo.

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