«La decisione è già stata presa, non siamo obbligati a parlarne in pubblico». In questo modo, Dmitry Rogozin, amministratore dell’agenzia spaziale russa Roscosmos ha liquidato la partecipazione del suo Paese alla Stazione Spaziale Internazionale. In una fase di fake news e di illazioni incontrollate riportate come verità incontestabili, un po’ di scetticismo sarebbe d’obbligo, ma poiché la dichiarazione viene riportata dai più potenti riferimenti istituzionali moscoviti, val la pena crederci. Fino a prova contraria, almeno.
In modo anche un po’ noioso, in questi ultimi tempi, la SSI è diventata la vetrina di tutto quanto succede e non dovrebbe succedere sulla Terra, comprese esibizioni di bandiere dell’Armata Rossa nelle missioni extraveicolari o le elucubrazioni sui colori delle tute dei suoi occupanti. Cosa c’è allora da commentare?
Intanto, sembra non vi sia ancora niente da annunciare perché i partner non hanno ricevuto una comunicazione ufficiale che, secondo le clausole contrattuali, dovrebbe avvenire almeno un anno prima della cessazione del rapporto. E Rogozin ha ricordato che i termini del lavoro della Russia sulla stazione spaziale sono determinati dal governo e dal presidente Putin. Le sue parole sono state misurate: «Continueremo a lavorare entro il termine fissato dal governo». Cioè fino al 2024.
La decisione sul destino della Stazione potrebbe però non dipendere dagli sviluppi delle situazioni che evolveranno sui teatri più caldi del pianeta e nemmeno dagli accordi pregressi. Ma allora l’invasione in Ucraina non è la causa determinante di questa probabile decisione?
Forse no. La decisione di liberarsi di un peso economico superiore a qualunque interesse scientifico e di visibilità è in cantiere da molto più tempo di quanto si possa immaginare e i loro dossier non ingombrano solo le laccate scrivanie dei burocrati dell’ex impero sovietico. Molti piani per cambiare lo status della SSI sono stati elaborati anche dai tecnici dei maggiorenti della SSI che pensano di sfruttare l’opportunità della space economy con un guadagno e non più solamente un costo. Proviamo a ricordare qualche elemento al riguardo.
E partiamo dall’International Space Station Intergovernmental Agreement, il trattato firmato il 29 gennaio 1998 a Washington da 15 Nazioni che aveva la finalità di stabilire il quadro della cooperazione tra i partner sulla progettazione, lo sviluppo, il funzionamento e l’utilizzo di quel grandioso progetto che è stata la Stazione Spaziale Internazionale.
Ogni cosa ha un inizio e una fine. Le regole contenute nel documento avrebbero blindato le possibili operazioni unilaterali, costringendo almeno nelle aspettative la massima collaborazione tra tutti i firmatari.
Secondo Nathan Eismont del Russian Space Research Institute, il funzionamento della SSI diventerebbe quasi impossibile se la Russia si ritirasse dal programma. Ed è plausibilmente vero dal momento che la proprietà e l’utilizzo della grande isola extra-atmosferica sono stabiliti in accordi intergovernativi che consentono al Cremlino di mantenere la piena proprietà di alcuni moduli. Veniamo ad un esempio pratico.
La possibilità di una posizione orbitale pressoché circolare è dovuta all’azionamento periodico dei due motori principali posti sul modulo di servizio Zvezda. Ora, già dal dicembre 2008 la NASA con la firma di un’intesa con la società Ad Astra Rocket di Houston, ha definito la messa a punto del motore a propulsione al plasma VASIMR, che potrebbe aver reso già obsoleto il sistema propulsivo russo, con un abbattimento dei costi per il mantenimento della stazione. C’è poi un altro elemento che limiterebbe l’interesse di Mosca sulle opportunità offerte dall’avamposto internazionale: dal 2011, anno in cui lo Space Shuttle ha effettuato il suo ultimo servizio, le capsule russe Soyuz sono state l’unico veicolo in grado di portare astronauti e cosmonauti sulla Stazione -al costo di 85 milioni di dollari a passeggero- ma con una tecnologia piuttosto arcaica concepita da Sergej Pavlovic Korolev nel 1966.
Il 2 marzo 2019 con un Falcon 9, Elon Musk ha effettuato l’ultimo test della capsula balistica Dragon e il 30 luglio 2020 i collaudatori Robert Behnken e Douglas Hurley hanno validato che l’America avrebbe ripreso a far viaggiare su propri mezzi gli astronauti occidentali. Il prezzo pro capite è sostanzialmente più basso e quindi, indipendentemente da ogni confessione nazionalistica, l’offerta privata americana è appetibile per tutti. Almeno per chi non è strettamente legato all’ex capo del Kgb sovietico.
Ricordiamo, val la pena, che nei giorni scorsi Samantha Cristoforetti con i colleghi della NASA Kjell Lindgren, Bob Hines e Jessica Watkins hanno iniziato la loro missione Minerva proprio traghettati dalla navetta dell’imprenditore sudafricano.
Due elementi che giustificherebbero la presa di distanza da un progetto che è sempre meno di interesse russo.
C’è poi una voce che a Mosca circola da tempo: Vladimir Soloviev, direttore di volo del segmento russo, ha prospettato una nuova impresa che possa far convergere tutta l’esperienza accumulata in tanti anni di progettazione di permanenza umana nello spazio, iniziata con gli angusti moduli della Salijut a partire dai primi anni Settanta. Sarebbe un risparmio importante di molte spese vive e una comprensibile presa di distanza da un occidente interamente schierato contro. In ogni caso il piano è molto impegnativo e la Russia da sola non sarebbe disponibile a sostenerlo. Non sono chiacchiere di corridoio.
Due anni fa -qualcuno lo ricorderà- fu firmato un accordo bilaterale tra Russia e Cina in cui si prevedeva un ricco pacchetto di collaborazioni per l’esplorazione lunare e cosmica, lo sviluppo di materiali speciali e di sistemi satellitari, oltre che per il telerilevamento terrestre e la ricerca per neutralizzare i detriti spaziali. La decisione fu plausibilmente maturata dall’inasprimento americano verso le capacità produttive di Pechino che causarono anche la perdita di un poderoso appalto da parte italiano per i moduli di una stazione abitabile. Comprensibile che i due giganti accomunati da regimi sicuramente non democratici si rivolgessero l’uno all’altro, chi per proporre motori più potenti, chi per offrire tecnologia elettronica specificamente mirata, in risposta a idee piuttosto aggressive della presidenza Trump in materia di ritorno sulla Luna degli Stati Uniti con un ‘generoso’ allargamento ma solo ai loro alleati.
Lo scorso anno poi fu consolidato un altro agreement tra Dmitry Rogozin e Zhang Kejian, direttore della China National Space Administration, specificamente mirato a far lavorare assieme i tecnici dei due imperi orientali per creare strutture di ricerca sulla superficie e attorno l’orbita della Luna, con la determinazione in futuro diincrementare la presenza umana.
Pertanto, che vi fosse una rottura di quella che platealmente si può chiamare ‘amicizia’ tra NASA e Roscosmos era prevedibile già da tempo e sulla base di queste conoscenze, non è stato nessun fulmine a ciel sereno o indicazione di tradimento la frase finemente sfuggita al capo dell’agenzia spaziale russa. Ma lo stesso ente spaziale americano non è che abbia ancora una gran voglia di continuare questa liturgia nello spazio. E infatti da tempo si sta pensando al futuro della SSI con l’attracco di almeno tre moduli della stazione privata di Axiom alla ISS, per poi separarsi e diventare indipendenti a partire dal 2025. Questa data è compatibile con un’eventuale dismissione da parte della Russia? Il tema è da studiare e sicuramente da negoziare. Ci auguriamo comprensibilmente che non si compiano manovre improvvise per deorbitare senza controllo la Stazione e che un’abilità contrattuale e uno spirito di cooperazione superino ogni raggio di follia che stia attraversando chi in questi momenti detiene le chiavi di un’implacabile tragedia.