In occasione del vertice annuale dei Brics, tenutosi nella prima settimana di settembre a Xiamen (in Cina), Vladimir Putin ha affermato che «la Russia condivide le preoccupazioni dei Brics riguardo all’ingiusta architettura finanziaria ed economica vigente, che non tiene conto del crescente peso delle economie emergenti. Siamo pronti a collaborare con i nostri partner per promuovere le riforme del regolamento finanziario internazionale e superare l’eccessivo dominio esercitato da un numero assai ristretto di valute».
Il bersaglio del presidente russo era naturalmente il dollaro, che ancora oggi viene accumulato da gran parte dei Paesi del mondo come riserva di valuta pregiata necessaria per rifornirsi di petrolio, oro e quasi tutte le altre materie prime di primaria importanza. Senza contare che gli scambi bilaterali che si verificano a livello internazionale sono denominati per lo più in dollari in virtù della presunta stabilità riconosciuta alla divisa statunitense, la quale non è agganciata ad alcun tallone monetario e non riflette la reale forza economica degli Usa me è garantita unicamente dalla potenza militare statunitense.
La prorompente ascesa economica realizzata dalla Cina nel corso degli ultimi decenni e la rapida resurrezione geopolitica della Russia hanno tuttavia posto le condizioni per un sostanziale cambio di paradigma. Lo scorso anno, lo yuan è infatti entrato a far parte del paniere delle valute di riserva – che conteneva già dollaro, euro, yuan e sterlina – del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), cosa che pone la Cina nelle condizioni di richiedere con maggiore forza la revisione dei diritti di voto ripartiti all’interno del board dell’Fmi, che allo stato attuale vedono gli Usa detenere da soli più del doppio dei voti complessivi di 24 Stati dell’America latina (Messico incluso), e i Paesi del G-7 disporre del triplo dei voti rispetto ai Brics.
A fianco di ciò, Pechino ha annunciato proprio in questi giorni l’imminente emissione di future sul petrolio denominati in yuan e convertibili in oro, e patrocinato l’operazione di acquisto del 14% della società petrolifera russa Rosneft da parte della Cefc China Energy Co., la quale ha rilevato tale pacchetto azionario per una somma di 9 miliardi di dollari dal consorzio internazionale formato dalla società svizzera Glencore e dalla Qatar Investment Autorithy – che mantengono comunque (rispettivamente) lo 0,5% e il 4,7% del gigante petrolifero russo. Con queste manovre, come spiega l’analista Tom Luongo, «la Russia si integra ulteriormente nel sistema cinese di negoziazione petrolifera situato a Shanghai, ci cui fanno parte i discussi contratti future convertibili in oro. Ciò permette a Mosca di aggirare le nuove sanzioni statunitensi […]. Pur ufficialmente indirizzata nei confronti dell’atteggiamento cauto di Pechino nei confronti della Corea del Nord, la recente minaccia del segretario al Tesoro Steve Mnuchin di precludere alle banche cinesi e russe l’accesso alla camera di compensazione Swift [attraverso la quale si espleta gran parte del commercio internazionale] era in realtà rivolta contro il consolidamento dell’alleanza energetica russo-cinese […]. Tuttavia, Russia e Stati Uniti hanno un volume di scambi bilaterali in dollari così esiguo da rendere irrilevanti. La Russia aggira inoltre il circuito Visa con il proprio sistema di pagamento interno denominato Mir, mentre la Cina dispone ormai da anni di Union Pay. [Ma se verso la Russia la minaccia di Mnuchin appare poco rilevante], nei confronti della Cina non risulta affatto credibile, trattandosi del più grande partner commerciale degli Stati Uniti. Sarebbe un atto di autodistruzione dei mercati globali dei capitali. Inoltre, offrirebbe a Pechino la possibilità di testare la capacità di gestione del commercio del sistema di pagamento interbancario cinese Cips, conforme al protocollo Swift. Se ne deduce che l’accordo russo-cinese consolida ancor più l’alleanza strategica tra i due potenti Stati, sempre più nelle condizioni di difendersi efficacemente da eventuali tentativi stranieri di danneggiare i loro interessi nazionali».
Come rileva giustamente ‘Zero Hedge’, la piattaforma cinese per il commercio petrolifero offrirà non solo alla Russia, ma anche all’Iran, «l’altro nucleo chiave dell’integrazione dell’Eurasia, la possibilità di evitare le sanzioni statunitensi vendendo idrocarburi nella propria valuta nazionale o in yuan […]. Lo yuan sarà completamente convertibile in oro nelle borse di Shanghai e Hong Kong. La nuova triade petrolio, yuan e oro è in realtà una tripla vittoria. Non vi sarà alcun problema se i fornitori di energia preferiranno essere pagati in oro fisico anziché in yuan. Il messaggio chiave è aggirare il dollaro statunitense».
L’introduzione, da parte di Pechino, di future sul petrolio denominati in yuan e convertibili in oro rappresenta inoltre una novità dagli esiti potenzialmente dirompenti alla luce della vera e propria ‘corsa all’oro’ generalizzata che da qualche anno a questa parte vede una quantità crescente di Paesi fare letteralmente incetta del metallo prezioso per  diversificare i propri attivi. Anche in questo caso, sono state Russia e Cina a tirare la volata, con la prima che ha aumentato le proprie riserve auree dalle 386,86 tonnellate del 2005 alle 1.715,84 del luglio 2017. La seconda avrebbe invece accumulato 1842,56 tonnellate d’oro, a fronte delle959, 98 del 2000. Questo è quello che dicono i dati ufficiali, ma alcuni analisti, tra i quali l’esperto Alasdair Macleod, sospettano che il reale livello delle riserve cinesi ammonti a una quota oscillante le 20.000 e le 25.000 tonnellate. Ma non sono soltanto Russia e Cina ad aver incrementato le proprie riserve auree. Il Brasile, che alla fine del 2011 deteneva 33,61 tonnellate, nel 2017 è arrivato a controllare 67,29 tonnellate; praticamente, ha raddoppiato le proprie riserve in oro; nel 2010, il Kazakistan disponeva di riserve in oro per 67,32 tonnellate, passate a 279,03 nel 2017; ha quadruplicato le sue riserve; sempre nel 2010 la Corea del Sud custodiva nei propri forzieri 14,44 tonnellate contro le 104,44 del 2017; le Filippine sono passate a controllare da 131,67 tonnellate nel 2007 a 196,35 tonnellate nel 2017; lo Sri Lanka da 9,98 tonnellate del 2011 alle 22,29 del 2017; il Tajikistan deteneva 1,75 tonnellate nel 2010 contro le 12,66 del 2017; il Kirghizistan è passato dalle 3,9 tonnellate del 2014 alle 5,06 del 2017; il Pakistan ha aumentato le proprie riserve di oltre 64 tonnellate dal 200 al 2017; l’India è passata dalle 357,75 tonnellate del 2007 alle 557,77 nel 2017; la Turchia è arrivata a detenere 456,13 tonnellate nel 2017 a fronte delle 116,10 del 2010.
In pratica, oltre a tutti o quasi i Paesi membri dei Brics e della Shangai Cooperation Organization (compresi gli osservatori), un numero crescente di Paesi tradizionalmente allineati al ‘Washington consensus’ è impegnato ad incrementare le riserve auree, sia per cautelarsi in previsione di un ritorno a una qualche forma di gold standard, sia per far fronte al nuovo scenario che va configurandosi per effetto delle manovre cinesi. È questa la ragione per cui, «perdendo terreno sul piano economico, gli Usa gettano sul piatto della bilancia la spada della loro forza militare e influenza politica. La pressione militare Usa nel Mar Cinese Meridionale e nella penisola coreana, le guerre Usa/Nato in Afghanistan, Medio Oriente e Africa, la spallata Usa/Nato in Ucraina e il conseguente confronto con la Russia, rientrano nella stessa strategia di confronto globale con la partnership russo-cinese, che non è solo economica ma geopolitica. Vi rientra anche il piano di minare i Brics dall’interno, riportando […] al potere in Brasile e in tutta l’America latina [governi alleati di Washington]. Lo conferma il comandante dello Us. Southern Command, Kurt Tidd, che sta preparando contro il Venezuela l’opzione militare minacciata da Trump: in una audizione al senato, accusa Russia e Cina di esercitare una ‘maligna influenza’ in America latina, per far avanzare anche qui ‘la loro visione di un ordine internazionale alternativo’». Una visione di cui, non a caso, il Venezuela, il Paese con le maggiori riserve petrolifere al mondo, sta rapidamente entrando a far parte a seguito della pressione che gli Usa esercitando sul governo bolivariano guidato da Nicolas Maduro. Una pressione di tipo sia militare, con esercitazioni nei pressi dei confini nazionali, che economica, con sanzioni che hanno recentemente indotto Caracas a rigettare il dollaro come moneta di pagamento del petrolio venezuelano, a beneficio di un paniere di valute che ricomprenderà euro, rublo, yuan, yen e rupia indiana.
In nuce, c’è quindi un’alleanza trasversale e transcontinentale intenzionata a marginalizzare il dollaro come moneta di riferimento internazionale.