domenica, 26 Marzo
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Ritrovare credibilità: una riflessione sui mali dell’Italia (e dell’Europa)

Se esiste un legame tra la sede istituzionale nella quale si assumono le decisioni politiche e la disponibilità a includere in agenda istanze di riforma che, per il loro carattere di durata, non produrranno immediato consenso, l’obbligo di ripensare i rapporti con l’Europa non potrà essere indefinitamente rimandato: essi non comprendono soltanto l’attitudine dei Governi verso Bruxelles, ma anche la relazione specifica dell’Unione Europea con i ‘suoi’ Stati. Nelle due direzioni, si danno oggi possibilità di intervento in grado di definire più equamente l’ ‘integrazione’ in senso europeo, riducendo il divario profondo che sussiste tra economia e politica.

Negli ultimi anni, l’euroscetticismo in Italia è cresciuto, toccando almeno un terzo dei cittadini, mentre solo il 45% è ancora favorevole all’euro, secondo i dati di una recente indagine francese che ha interessato 26 Paesi. Contestualmente, se tralasciamo le tendenze sovraniste più estreme, nella percezione dei rapporti con l’estero, si è riproposta una combinazione dell’interesse nazionale con una modalità aggiornata della dialettica globale/locale che si era sviluppata – con altre premesse e contenuti – soprattutto al volgere del Millennio. Un esempio è offerto dalla proiezione italiana verso la Russia, sostenuta in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega – ossia dalle forze vincitrici alle elezioni – in nome delle imprese italiane ritenute danneggiate dalle sanzioni UE contro Mosca.

Nondimeno, finché l’Italia sceglierà di restare dentro l’Unione, la sua posizione internazionale ed europea potrebbe uscire rafforzata da una linea di governo riformista, capace di rispondere all’esigenza di ricostituire il tessuto socioeconomico del Paese, combattendone i mali a partire dalle loro cause profonde: «corruzione diffusa, meritocrazia negata e familismo, criminalità organizzata e assenza dello Stato in ampie aree del Paese, difesa di privilegi corporativi e scarsa concorrenza,  bassa istruzione e scolarizzazione, innovazione, ricerca scientifica e dunque bassa crescita della produttività,  emarginazione delle donne dal mondo del lavoro, invecchiamento della popolazione, burocrazia oppressiva (…), debito (…) e imposte opprimenti (ma anche evasione record)». Questo, secondo Paolo Manasse, è il compito degli economisti.

Ordinario di Macroeconomia e Politica economica internazionale all’Università di Bologna, Manasse è autore, insieme a Thomas Manfredi, di un’analisi che mostra come la flessibilità del lavoro (al centro delle riforme promosse dal Governo Renzi) non abbia favorito il legame tra opportunità di guadagno e produttività – ossia il valore aggiunto per ora lavorata, che vive una fase di stagnazione ormai ventennale. Concentrandosi solo sulla flessibilità, le riforme passate hanno totalmente dimenticato l’aspetto degli incentivi alle aziende: chi ha perso il lavoro in un settore non produttivo o i giovani in cerca di occupazione, non ha trovato posto nell’industria produttiva, con conseguenze sociali e di sistema che gravano tuttora sul Paese. Il nostro incontro con l’economista prende le mosse da questo vuoto di tutela, cercando di capire più da vicino quali sono, secondo le sue parole, le «opportunità che non dovremmo sprecare».

Professor Manasse, mentre assistiamo al rifinanziamento dei ‘Bonus Occupazione’ per i giovani, operativi dal 1 gennaio 2018, quali sono le principali cause della mancanza di raccordo tra tutela del lavoro e produttività?

Gli scopi della riforma strutturale del Governo Renzi erano principalmente due: arrivare a una semplificazione dei contratti, cercando di promuovere contratti a tempo indeterminato prosciugando l’area della precarietà, e rendere più flessibile il mercato del lavoro spostando gli aiuti dal ‘posto’ del lavoro alle persone. Questo secondo obiettivo avrebbe favorito una mobilità in entrata e in uscita, riducendo i costi di assunzione e di licenziamento.

Con Thomas Manfredi, abbiamo fatto un paragone con la Germania cercando di misurare fino a che punto, nel mercato del lavoro, i salari seguono la produttività (cioè aumentano nei settori in cui cresce anche la produttività del lavoro) e se è vero che la mobilità del lavoro tende a far sì che i lavoratori si spostino verso i settori più produttivi. Ora, il fatto che ciò in Italia non avvenga, a differenza di altri Paesi (nemmeno la Germania è perfetta, ma questi meccanismi di allocazione nei settori più produttivi funzionano meglio), è dovuto, secondo la nostra lettura, soprattutto all’aspetto mancante in tali riforme: una nuova contrattazione salariale. Fino a che i salari non risponderanno alla produttività locale risultando maggiori nelle imprese produttive e minori in quelle meno produttive, un mercato del lavoro flessibile potrebbe addirittura peggiorare la produttività complessiva del lavoro. Infatti, se i lavoratori, anziché occupare i settori in cui i salari aumentano di più, si spostano in quelli che, protetti dalla concorrenza, riescono ad aumentare l’impiego senza tuttavia diventare più produttivi, tale passaggio provocherà una riduzione della produttività del lavoro nel suo complesso. Pertanto, se ‘flessibilità’ significa mobilità del lavoro, quando tale mobilità va nella direzione sbagliata la produttività può anche peggiorare. Questa è la tesi del nostro articolo, in ragione del fatto che, finora, non c’è stata una riforma seria della contrattazione. Ancora oggi è ‘troppo’ importante il livello centrale del salario piuttosto che il carattere dell’azienda.

Che portata hanno i nuovi incentivi all’occupazione per i giovani?

Come si è già visto in passato, in Italia questi incentivi hanno funzionato inizialmente. Tuttavia, essendo temporanei, hanno spinto le imprese a sfruttarli per la loro durata, sostituendo lavoro precario con lavoro meno precario per usufruirne, per poi tornare al lavoro precario quando gli incentivi sono venuti meno. Un incentivo di carattere temporaneo differisce momentaneamente le decisioni: finché non sarà altrettanto o meno oneroso assumere a tempo indeterminato, le imprese non lo faranno. Oppure lo faranno solo momentaneamente, quando il vantaggio permane. In altre parole, e logicamente: misure temporanee producono risultati di carattere temporaneo.

Volendo passare, secondo Sue recenti considerazioni, ‘dal sintomo alla causa’, in unWorking Paperdel Fondo Monetario Internazionale, pubblicato il 16 marzo, tre economisti (Michal Andrle, Alvar Kangur e Mehdi Raissi) parlano di fattibilità relativamente a un pacchetto di riforme strutturali, comprendenti diverse misure, che il futuro Governo potrebbe attuare per stare economicamente al passo con i principali Paesi europei. Esemplificando, in Italia sarebbe possibile: ridurre il cuneo fiscale, aumentare gli investimenti pubblici, rilanciare il mercato del lavoro, intervenire contro la povertà, migliorare i rapporti tra le forze produttive, riformare la pubblica amministrazione e il sistema bancario.

Limitiamo il discorso, in questa sede, a tre obiettivi: ridurre i consumi e aumentare gli investimenti pubblici – se e dove necessario -; rilanciare il mercato del lavoro ricollegando i salari alla produttività; adottare misure contro la povertà. Quali sono i passaggi funzionali da seguire?

Per ciò che riguarda l’intervento sulla spesa pubblica, qui abbiamo il lavoro di tutti i Commissari che, come Carlo Cottarelli o Roberto Perotti, si sono succeduti alla sua Revisione. Sono almeno 10 anni che tutti lo dicono: esistono molti spazi per ridurre le spese correnti. Ci sono, per esempio, le esenzioni fiscali relative a diverse imposte, a cominciare dall’IVA, che si potrebbe eliminare anche per semplificare il sistema; c’è l’enorme questione dei servizi pubblici locali (pensiamo ai trasporti), più difficile da risolvere perché richiede il consenso delle Regioni; ancora, troviamo ampi spazi di risparmio nei consumi pubblici, pensiamo al tema ‘caldo’ della centralizzazione della spesa sanitaria. Insomma, si potrebbe fare molto.

Gli investimenti sono stati schiacciati durante la crisi, anche perché non si sono voluti tagliare i consumi pubblici. Si sono, così, tagliati gli investimenti per cercare di rientrare nei parametri europei. Occorre cercare di invertire questa tendenza. Proprio Cottarelli, per fare un esempio, aveva messo a punto un programma di riduzione dei consumi pubblici dell’ordine di 30 miliardi. Diciamo che, se ci fosse la volontà politica, si potrebbe fare tutto in un anno; ma sappiamo che, ogni volta che si tagliano delle spese, lo scontento non tarda a manifestarsi.

Circa il rilancio del mercato del lavoro, dal punto di vista delle finanze pubbliche sarebbe una riforma a costo zero, se non fosse che esiste anche il ‘costo’ politico della accennata riforma del sistema di contrattazione salariale. Oggi i sindacati hanno ancora la funzione principale di svolgere un importante ruolo nella contrattazione collettiva. È chiaro che il fatto di determinare una frazione molto più importante dei salari a livello locale di impresa, ancor più che di settore, andrebbe contro una fortissima opposizione da parte delle  organizzazioni sindacali, che potrebbero lecitamente opporsi sulla base di principi nobili come l’uguaglianza – oltreché per cause costitutive: se non fanno quello, non si capisce bene cosa ne sarà della loro funzione.

Bisogna ‘reinventare’ un ruolo per i sindacati?

Il punto saliente è che questa riforma della contrattazione darebbe la possibilità ai singoli lavoratori di contrattare i propri salari con le imprese, ottenendo un salario corrispondente all’intensità e alla qualità delle rispettive prestazioni: ad esempio, un Premio Nobel alla ricerca percepisce lo stesso stipendio di un suo collega che investe minori energie nel proprio lavoro. Questo discorso potrebbe valere sia per il settore pubblico che privato.

Parliamo, ora, di povertà. La necessità che lo Stato si faccia maggiore carico delle fasce più deboli, non solo ha occupato uno dei dibattiti più importanti in fase elettorale, ma ci riporta a un’evidenza: per la mancata soluzione dei problemi sopra elencati – che non sono novità – oggi ci sono fasce della popolazione che stanno soffrendo e che devono essere aiutate: Il problema è come farlo e come… Non farlo. Non bisogna farlo distribuendo mance in modo disorganico o, comunque, fare trasferimenti che poi non sono basati sul reddito, sulle capacità di spesa.

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