Il discorso in Parlamento del Capo dello Stato, connesso alla cerimonia di giuramento, entrerà nelle antologie della comunicazione istituzionale per alcune sue particolarità.
E’ innanzi tutto il discorso bis di un Presidente della Repubblica inusualmente rieletto, ma come lo fu anche Giorgio Napolitano. Napolitano avvertì in quell’occasione (20 aprile 2013) il primo forte scricchiolio del sistema della democrazia politica italiana fondata costituzionalmente sui partiti e sulla rappresentanza parlamentare e fu assai duro, a tratti polemico, con quei partiti e persino con le loro rappresentanze, tema che fece il titolo dell’evento per segnalare il severo lancio di uno stimolo a prendere provvedimenti.
Il discorso del Mattarella bis cade nel terzo tempo di quella prolungata crisi politica (il secondo tempo è stato, infatti, quello segnato dall’impossibilità un anno fa di formare una maggioranza e di individuare una leadership di governo, che portò al governo di emergenza con la nomina di Mario Draghi a Palazzo Chigi).
Il terzo tempo allunga fino a nove anni l’arco di quella specifica crisi e il Capo dello Stato l’ha toccata facendo una premessa, alcune distinzioni tra partiti e rappresentanze parlamentari e aprendo un po’ la porta tra istituzioni e società.
La premessa è stata naturalmente quella di rendere esplicita la crisi (il «prolungarsi di uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni, le cui conseguenze avrebbero potuto mettere a rischio anche risorse decisive e le prospettive di rilancio del Paese impegnato a uscire da una condizione di grandi difficoltà»).
La distinzione ha riguardato una lode per la centralità delle forze parlamentari, riservando ai partiti un’allarmata constatazione («senza partiti coinvolgenti, così come senza corpi sociali intermedi, il cittadino si scopre solo e più indifeso») e introducendo sottilmente la proposta a questo sistema dei partiti di ritrovare la capacità di uscire dal loro guscio e di ristabilire in profondo il rapporto con la società («Il luogo dove la politica riconosce, valorizza e immette nelle istituzioni ciò che di vivo cresce nella società civile»).
Infine, Sergio Mattarella ha auspicato, nel pessimismo che sta circolando, un tenuta del quadro generale condivisa dai cittadini («una Repubblica capace di riannodare il patto costituzionale tra gli italiani e le loro istituzioni libere e democratiche»). E se ha scelto il verbo ‘riannodare‘ è perché, appunto, pensa che quel patto sia evaporato.
Sergio Mattarella è un professore di diritto parlamentare che ha fatto politica tutta la vita. Non è un tribuno. Le sue affermazioni sono di questo tono. Pare che scorrano come l’acqua sia pure nella solennità del momento e nella generale commozione intesa come un momento di pacificazione istituzionale. In verità sono parole pesate attorno ad una crisi grave e prolungata che non ha trovato soluzione se non nella scelta di non scegliere (argomento elegantemente solo adombrato). Quando vuole segnalare che lui (già giudice costituzionale) non derogherà dalla «scrupolosa osservanza della Costituzione», ovvero non avrà cedimenti verso alcuna forma di ‘democrazia presidenziale’, si limita a pochissime e semplicissime parole: «Non compete a me indicare percorsi riformatori da seguire».
Vi è poi -nella sua evidenza- una forma di rappresentazione di questo copione, che apparteneva per certi versi all’Italia pre-risorgimentale (il sospiro diffuso sulle condizioni dell’Italia); ma al tempo stesso con una soluzione liberatoria. Potremmo chiamare la cerimonia del 3 febbraio come quella di una scenografia istituzionale della riappacificazione.
Il Presidente nella sua prossemica sobria, mai alterata, con un punto di distacco e un punto di vicinanza.
E quindi con la sua forma critica, anche esortativa, ma -come abbiamo visto- anche misurata, precisa ma emozionalmente condivisibile.
I Parlamentari, esprimendo anche sentimenti vissuti, propri di chi ha intravisto seri rischi nella crisi, scegliendo di accompagnare quel discorso con 55 interruzioni per applausi più l’applauso iniziale e quello, riassuntivo, finale. Pur con qualche distinguo (anche comportamentale) della piccola minoranza di destra, l’insieme dell’emiciclo ha agito come un coro greco -ovvero come un soggetto sempre collettivo- con istanze costantemente accompagnanti. Come era appunto l’insieme dei coreuti della tragedia sofoclea.
Insomma, la cerimonia non voleva segnalare lo spettacolo del conflitto appena terminato (che appartiene per definizione alla politica e che tornerà a proporsi da domani nell’irrefrenabile oggettività della campagna elettorale già cominciata), ma lo spazio di un patto rinnovato tra politica e istituzioni alle condizioni che il leader di quelle istituzioni stava dettando. Anche di questo sistema figurato è fatto lo ‘stile Mattarella’.
E le condizioni sono infatti arrivate nella parte finale del discorso, dopo la sequenza necessaria del saluto ai tanti soggetti che esprimono bisogni nella società, ma anche il ringraziamento alle organizzazioni dello Stato che soccorrono quei bisogni nella concretezza delle crisi in corso.
E sarà questa parte finale –quella delle dodici dignità da ritrovare, da rimettere al loro posto come un ‘caposaldo di uno sviluppo giusto ed effettivo’, considerandole la principale posta possibile per rimettere in corrispondenza i partiti e la società- a fare il titolo di questo ‘discorso bis‘.
Le riportiamo qui con le parole del presidente Mattarella, senza ulteriori commenti.
Le ha pronunciate con una grammatica semplificata, senza retorica, sapendo che esse sono un tema vistoso nella pagina dei dolori degli italiani, ma anche un tema ineludibile tra le inadempienze di una politica che ha perso rappresentanza sociale. Che non condanna tutta la politica, che riconosce germi di cambiamento possibile, ma che costituisce un elenco morale che sceglie l’occasione per alzare la posta della scommessa circa le cose che possono migliorare, ma anche del rischio che le cose possano peggiorare.
Ed è questa incertezza a rendere credibile l’idea che il presidente Mattarella abbia bisogno di tutti i suoi prossimi sette anni per vedere come la cosa andrà a finire. La citazione che segue è virgolettata e integrale.
«Accanto alla dimensione sociale della dignità, c’è un suo significato etico e culturale che riguarda il valore delle persone e chiama in causa l’intera società.
Dignità è azzerare le morti sul lavoro, che feriscono la società e la coscienza di ciascuno di noi. Perché la sicurezza del lavoro, di ogni lavoratore, riguarda il valore che attribuiamo alla vita. Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro. Quasi ogni giorno veniamo richiamati drammaticamente a questo primario dovere della nostra società.
Dignità è opporsi al razzismo e all’antisemitismo, aggressioni intollerabili, non soltanto alle minoranze fatte oggetto di violenza, fisica o verbale, ma alla coscienza di ciascuno di noi.
Dignità è impedire la violenza sulle donne, profonda, inaccettabile piaga che deve essere contrastata con vigore e sanata con la forza della cultura, dell’educazione, dell’esempio.
La nostra dignità è interrogata dalle migrazioni, soprattutto quando non siamo capaci di difendere il diritto alla vita, quando neghiamo nei fatti la dignità umana degli altri. E’ anzitutto la nostra dignità che ci impone di combattere, senza tregua, la tratta e la schiavitù degli esseri umani.
Dignità è diritto allo studio, lotta all’abbandono scolastico, annullamento del divario tecnologico e digitale.
Dignità è rispetto per gli anziani che non possono essere lasciati alla solitudine, privi di un ruolo che li coinvolga.
Dignità è contrastare le povertà, la precarietà disperata e senza orizzonte che purtroppo mortifica le speranze di tante persone.
Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità.
Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza.
Dignità è un Paese non distratto di fronte ai problemi quotidiani che le persone con disabilità devono affrontare, e capace di rimuovere gli ostacoli che immotivatamente incontrano nella loro vita.
Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, dalla complicità di chi fa finta di non vedere.
Dignità è garantire e assicurare il diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente. La dignità, dunque, come pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile».