Nel Regno Unito, il 6 maggio scorso, si sono aperte le urne per il Super Thursday, una tornata elettorale locale/amministrativa pesante visto che, nello stesso giorno, quasi 50 milioni di elettori erano chiamati a votare per circa 5.000 seggi di cui 143 nei consigli inglesi (Liverpool, Manchester, Newcastle e Birmingham), 129 nel parlamento scozzese, 60 nell’Assemblea gallese, 25 nell’Assemblea di Londra senza dimenticare i 13 sindaci eletti direttamente (uno dei quali è quello di Londra, la capitale), 39 commissari di polizia e un’elezione suppletiva di Westminster per il collegio elettorale di Hartlepool.
In verità, in diverse parti del Paese, i seggi si sarebbero dovuti aprire lo scorso anno, a scadenza naturale, ma il COVID-19 ha reso necessario lo slittamento, così come ha reso infattibili le campagne elettorali normali, quelle in cui il contatto con l’elettorato è continuo. Fino a tre settimane fa, del resto, il Paese era in lockdown e di certo gli assembramenti erano e sono rimasti, anche dopo le parziali riaperture, impossibili. Questo ha reso incerte anche le rilevazioni demoscopiche che, spesso, aiutano i candidati e i partiti a capire l’orientamento degli elettori.
L’esito segnala, anche grazie alla spedita campagna vaccinale che ha fatto dimenticare la disastrosa gestione della prima ondata, un successo per i Tory e soprattutto Boris Johnson in Inghilterra, dove si è votato per il rinnovo di 145 consigli comunali che hanno coinvolto 28 milioni di cittadini. I Conservatori di Boris Johnson hanno infatti ottenuto il controllo di 19 consigli di contea su 21, strappando dopo 57 anni ai Laburisti il seggio di Hartlepool, il cosiddetto ‘Muro rosso’, dove si è votato per le suppletive. Qui Boris Johnson si è precipitato a congratularsi con Jill Mortimer, la prima conservatrice eletta dagli anni Settanta.
Per il Labour Party, in particolare per il leader Keir Starmer, alla prima prova da quando ha assunto la guida del partito, l’Inghilterra è stata una debacle, per niente addolcita né dal caso di Londra, dove il sindaco laburista uscente Sadiq Khan ha ottenuto un secondo mandato (senza l’aiuto del partito) battendo al ballottaggio lo sfidante conservatore Shaun Bailey con il 55% dei voti, e aggiudicandosi una maggioranza analoga alla precedente all’Assemblea, né dall’elezione a sindaca di Liverpool della candidata laburista Joanne Anderson, prima donna di colore a diventare sindaco nel Regno Unito. Ottimi risultati, ma, specialmente per i sindaci uscenti, complice la pandemia, ha contato più il nome dei candidati e la loro storia più recente che il partito di cui fanno parte.
Pur conservando ampio margine nel Liverpool City Council, nel Gateshead Council, nel Knowsley Borough Council e nel Newcastle City Council (dove i Tory non hanno eletti), i laburisti hanno perso per la prima volta il controllo del consiglio comunale di Sheffield – dove i conservatori hanno guadagnato un consigliere, ma sono stati superati, grazie anche alla battaglia contro l’abbattimento degli alberi,
dai Verdi e dai Liberaldemocratici – e del consiglio della contea di Durham, mentre i conservatori hanno acquisito il controllo del consiglio della contea di Northumberland, hanno riconquistato il Basildon Borough Council – dove laburisti e UKIP sono andati in caduta libera – il Consiglio comunale di Dudley, il Consiglio comunale di Amber Valley, il Consiglio comunale di Gloucester, il Consiglio comunale di Nuneaton,!il Consiglio comunale di Worcester, il Consiglio di Cannock Chase e quello di Bedworth, il Consiglio comunale di Southampton. Anche all’elezione al Consiglio di contea in Cornovaglia, i conservatori hanno ottenuto un balzo in avanti a spese dei liberaldemocratici, che in precedenza erano stati il più grande partito in un consiglio sospeso.
Tuttavia, anche i conservatori hanno subito battute d’arresto, pur riuscendo a mantenere il controllo: un esempio è Castle Point Council nell’Essex, il Gloucestershire County Council e l’East Sussex County Council o il Consiglio distrettuale di Stroud. Nonostante le attese, a Peterborough, invece, i Tory hanno guadagnato un consigliere, ma il loro presidente in carica ha perso l’elezione a sindaco per la Cambridge, Cambridgeshire e Peterborough Combined Authority: infatti, i conservatori hanno perso il controllo del consiglio di contea e non sono riusciti a vincere alcun seggio nel consiglio comunale. Addirittura, il Presidente uscente, Tim Bowles, che si era dimesso da sindaco conservatore, aveva subito l’umiliazione di non essere riconosciuto ripetutamente dal Premier in un’intervista alla televisione nazionale.
Tuttavia, hanno vinto le elezioni del commissario per la polizia e la criminalità per il Cambridgeshire. Una chiara dimostrazione di come in queste elezioni, la dimensione locale ha prevalso. Come a Cambridgeshire, anche nel Consiglio dell’Isola di Wight, i conservatori sono stati sconfitti sebbene in entrambi i casi rimangano il più grande partito del Consiglio.
Se i liberaldemocratici hanno mantenuto le loro posizioni e hanno vinto nella città di St Albans e del consiglio distrettuale, le diseguaglianze tra città e campagne o tra nord e sud rimangono, ma sembrano ridursi grazie al lavoro dei Tory che ha quindi assorbito e provato a rispondere alle istanze disgregatrici e anti-establishment che avevano fatto prevalere Brexit.
Di contro, i Laburisti, che hanno perso sette consigli e 301 consiglieri in Inghilterra, in Galles, guidati dal Primo Ministro uscente Mark Drakeford, sono riusciti a conquistare 30 seggi su un totale dei 60 componenti il Senedd, il Parlamento locale, ma senza impedire un ottimo risultato anche ai Conservatori, favorito anche dal crollo dell’Ukip che nel 2016 aveva ottenuto in Galles 7 seggi, mentre il partito locale Plaid Cymru con il 20,7% dei voti è rimasto sostanzialmente stabile.
Tali risultati, dal punto di vista dell’unità del Regno, sembrano poco minacciosi, anche se non da sottovalutare in quanto il sostegno dell’opinione pubblica gallese all’indipendenza sembra crescere (28% contro il 50% dei contrari) tanto che Plaid Cymru ha preso un chiaro impegno per un referendum sull’indipendenza, sulla scia di quanto fatto dal partito scozzese nel 2007, normalizzando lentamente l’idea di indipendenza. Va anche detto che il Primo Ministro gallese laburista, Mark Drakeford, pur rivendicando la ‘gallesità’, non ha mai nascosto di ritenere molto vantaggioso appartenere ad una comunità di nazioni, e, in questo, non mancheranno gli scontri con Boris Johnson.
In Scozia, si è invece votato per eleggere i 129 deputati del Parlamento scozzese. Qui, dove il sistema elettorale è proporzionale, è stata netta la vittoria (la quarta fila) del Partito Nazionale Scozzese (SNP), che con il 47,7% dei voti ha ottenuto in totale 65 seggi, uno in più rispetto alle elezioni del 2016, pur non riuscendo ad offendere la maggioranza assoluta. I Conservatori ne hanno conquistati 31 (invariati), il Labour 22 (-2), i Verdi 8 (+2) e i Liberaldemocratici 4 (-1). Addirittura due donne appartenenti a delle minoranze, Kaukab Stewart dell’SNP e Pam Gosal dei Tory, sono state elette al Parlamento locale.
Un risultato che, pur senza raggiungere la maggioranza assoluta, sta dando nuova linfa alla spinta referendaria per l’indipendenza a causa della Brexit con i sondaggi che darebbero il leave in testa. La causa referendaria è stato il vero motore di queste elezioni, come di ogni elezione scozzese dal referendum del 2014 (quando nel primo referendum il 55% degli scozzesi votò per restare nel Regno Unito) e secondo i dati sulle intenzioni di voto dello Scottish Election Study, il 92% degli elettori ha optato per un partito che condivideva il proprio punto di vista sull’indipendenza.
Da questo punto di vista, ben si comprende come l’esito del voto scozzese possa avere riflessi nell’integrità territoriale britannica. Commentando i risultati elettorali, Sturgeon ha detto, citata dai media britannici, che nel Parlamento scozzese c’è “senza alcun dubbio una maggioranza pro-indipendenza. Semplicemente, non c’è alcuna giustificazione democratica per Boris Johnson o per chiunque altro per tentare di bloccare il diritto del popolo scozzese di decidere il proprio avvenire”, ha affermato Sturgeon, mentre il conteggio dei voti era ancora in corso. D’altra parte, i seggi combinati del SNP e dei Verdi forniscono una maggioranza a favore dell’indipendenza e quindi di un secondo referendum sull’indipendenza, a pandemia finita, e con una ricostruzione ben avviata.
“Qualsiasi tentativo di lacerare il paese sarebbe da considerarsi irresponsabile e spregiudicato”, ha sottolineato Boris Johnson, che ha già telefonato alla leader dell’SNP Sturgeon la quale ha avvertito: “A qualsiasi politico a Westminster che voglia mettersi di traverso, dico due cose: primo, non andate allo scontro con l’SNP, ma con i desideri democratici del popolo scozzese. Secondo: non ci riuscirete. Il solo che possa decidere il futuro della Scozia è il popolo scozzese, e nessun politico di Westminster può o deve mettersi in mezzo”, precisando, poi, ieri, che il problema non è ‘se’, ma ‘quando’ dato che, secondo l’SNP, l’uscita dall’Unione europea equivale a un cambiamento costituzionale fondamentale e ciò legittimerebbe un nuovo referendum sull’indipendenza.
Eppure dalle ultime elezioni per il Parlamento di Holyrood del maggio 2016, non è cambiato molto nei numeri, nonostante, nel frattempo, ci sia stata Brexit, il Covid-19, e l’affaire ‘Alex Salmond’ che ha scosso il governo a guida SNP. Un lieve mutamento si ravvede nell’un punto percentuale di voti che sono passati, secondo le rilevazioni, soprattutto nel nord-est scozzese, da SNP a conservatori, mentre nell’Europhile Lothian, c’è stata un’oscillazione di quasi due punti nella direzione opposta. Cambiamenti minimi se comparati agli 11 punti passati dai conservatori al leader liberaldemocratico Willie Rennie nel Fife North East dove si votava per la questione dell’indipendenza e quindi i voti dati a chiunque si opponga all’indipendenza, penalizzando l’SNP.
In quest’ottica, le elezioni del 2021 confermano che l’elettorato scozzese è diviso praticamente a metà sull’indipendenza con più del 60% degli elettori che non crede che il risultato in nessuna direzione possa essere considerato un mandato per un referendum mentre pensano che ci sia già un mandato, qualunque sia il risultato.
Se il governo Johnson rifiuta un referendum, potrebbe esserci una situazione di stallo costituzionale. Una parte rivendicherà un mandato democratico e l’altra citerà lo Stato di diritto. L’SNP, che potrebbe arrivare a sollevare la questione di fronte alla Corte Suprema, sa, però, che le prospettive di vittoria del sì in un referendum, promesso per il 2023, non sono così certe: non ha ottenuto la maggioranza assoluta a Holyrood e la quota di voti del partito pro-indipendenza combinata non ha raggiunto il 50% nel voto di collegio elettorale. Nel frattempo, la performance di Johnson nella futura ripresa post-pandemia, così come la normalizzazione della Brexit, potrebbero togliere carburante al nazionalismo scozzese.
Il tentativo di politicizzare l’identità ci sarà, ma potrebbe non essere la volta buona per risolvere tali dossier. La first minister prende tempo e tenta di non arrivare allo scontro con Boris Johnson: si spiega così la conferma di Sturgeon della partecipazione al summit convocato dal primo ministro sull’emergenza coronavirus per discutere con i leader delle quattro nazioni “le sfide condivise e come possiamo lavorare insieme per superarle nei prossimi mesi e anni”. Il richiamo è ai “successi del ‘Team UK’ in azione”, il che rivela ambash dalle parti di i Downing Street che, con tutta probabilità, prenderà tempo lanciando prosperosi programmi di spesa e interventi pubblici in Scozia, per convincere l’opinione pubblica locale del vantaggio del ‘remain’.
“Faremo il referendum quando sarà il momento” ha chiarito Sturgeon, ben sapendo di non poter indire un referendum che rischia di non vederla vincere. La necessità di concentrarsi sulla ricostruzione post COVID-19 e, nel breve termine, alla preparazione del vertice delle Nazioni Unite sul clima a Glasgow, potrebbe costringere anche l’SNP e tutti i partiti indipendentisti a prendersi più tempo per prepararsi alle battaglie a venire. E questo finanche in Irlanda del Nord, che ha le elezioni dell’assemblea nel 2022 e dove la Brexit ha acceso il dibattito nazionalista su un referendum di confine sulla riunificazione con l’Irlanda.
“Toccherà a Carlo, credo, affrontare la questione della separazione scozzese e a differenza della regina penso che il principe vorrà dire qualcosa”, ha evidenziato in una recente intervista l’ex diplomatico Laurence Bristow-Smith, a detta del quale “di certo, tempo che venga indetto un secondo referendum e che le negoziazioni abbiano fatto il loro percorso, sarà lui probabilmente sul trono. E penso che se ci sarà un Royal che vorrà pronunciarsi sulla questione scozzese, più che la regina, sarà questa volta Carlo”.
“Il risultato di queste elezioni in Gran Bretagna mostra che il nostro Paese, e perfino le nostre città, restano profondamente divise”, ha ben riassunto Safiq Khan, festeggiando la sua vittoria per la seconda volta a sindaco di Londra. Le prossime elezioni generali nel Regno Unito, previste per maggio 2024, potrebbero invece essere le elezioni critiche per lo stato dell’unione e toccherà a Johnson dimostrare di riuscire a tenere incollati i ‘cocci’.
“Non molti governi sopravvivono alla frantumazione del proprio Paese”, ha messo in chiaro poche settimane fa il Ministro di Gabinetto, Michael Gove. L’integrità territoriale del Regno Unito rimarrà una sfida cruciale per Boris Johnson, che dichiaratosi indisponibile, essendo nelle sue competenze, ad indire un nuovo referendum, sperando che in questo modo, il rinvio ad limitum, possa far sgonfiare le sacche indipendentiste. Una scommessa, ma queste sono le conseguenze della Brexit, stupid! L’attuale inquilino di Downing Street, in quanto esemplare esponente della destra sovranista mondiale, ha propagandato la via del ‘leave’ (dall’UE), oggi, quasi per contrappasso, potrebbe avere proprio nel ‘leave’ rilanciato dal sovranismo ‘nazionale’, scozzese in primis, una spina nel fianco. Meditare, gente!