D’accordo: c’è la guerra in Ucraina scatenata da Vladimir Putin che catalizza la nostra attenzione: per la guerra in sé, combattuta praticamente alle porte di casa; e per gli effetti disastrosi a livello economico, oltre che umani; e quelli li paghiamo e li pagheremo tutti. D’accordo: prima della guerra c’era un’altra devastazione, quella provocata dal Covid: anche qui a livello di sofferenze e dolore, morte di persone; e con pesantissime implicazioni economiche (non che sia finita, peraltro). E tuttavia, piaccia o no, a giugno, tra una novantina di giorni appena, saremo chiamati a esprimerci con un SI o con un NO su una serie di referendum in materia di giustizia; c’è anche una terza possibilità: quella di non scomodarsi, di restare a casa, rinunciare al voto e lasciare che lo facciano altri. Va bene anche questo, se è frutto di una scelta, di un ragionamento; se si decide che si preferisce non decidere. Ma che ci sia un minimo di informazione, di confronto, di dibattito, in modo che ciascuno possa decidere come comportarsi, questo lo si può e lo si deve chiedere.
Perché questo, accade: non c’è televisione pubblica o privata che sia, non c’è giornale che su queste tematiche avvii una discussione, informi, consenta al cittadino di conoscere: fondamento principale ed essenziale, ci ricorda Luigi Einaudi nelle sue ‘Prediche inutili’ perché un cittadino possa deliberare. Si dice che si tratta di questioni fumose, e che non interessano. Proprio perché fumose, a maggior ragione vanno spiegate; quando al non interessare, è un po’ come la storiella raccontata da George Bernard Shaw: prima insegni al nero solo come si puliscono le scarpe; poi lo rimproveri che sa solo pulire le scarpe. Vale per i referendum, per le questioni della giustizia più in generale: prima non informi, poi dici che la gente non ha interesse a essere informata?
Perché questo, accade; e nei rari momenti in cui si parla di giustizia, ecco che si dà la parola solo ai “giustizialisti”: i Piercamillo Davigo, i Nino De Matteo, i Nicola Gratteri. In queste condizioni è del tutto evidente che non si raggiugerà il quorum richiesto perché il referendum sia valido. Perché un cittadino dovrebbe andare a votare, dal momento che non si sa su che cosa e quando si voterà?
La Giustizia, come viene amministrata, è questione che riguarda tutti, perché tutti possiamo finire impigliati nei suoi reticolati, e allora sono dolori per uscirne senza pagare troppo pegno. Sono tante, le cose che si consumano “in nome del popolo italiano”.
Per esempio, ci sono voluti ben tre gradi di giudizio, arrivare fino alla Corte di Cassazione, per stabilire che, quale sia la colpa di cui ci si è macchiati, ognuno ha comunque il diritto di pasti normali, soprattutto se il detenuto se li può permettere. Perché in origine lo Stato, attraverso il ministero della Giustizia aveva detto di NO, all’“uguaglianza alimentare”, e fatto ricorso. Patrizio Picardi, sottoposto al regime di massima sicurezza previsto dal 41bis, accusato di far parte del clan camorristico dei Maliardo, chiede che gli sia recapitato un pacco viveri, il cosiddetto “sopravvitto” accessibile ai detenuti comuni, e cibi cotti nei pacchi postali inviati dall’esterno. Risposta negativa. Picardi lamenta la “lesione del proprio diritto soggettivo derivante dal divieto…tali limitazioni cagionano un attuale e grave pregiudizio al detenuto, nel contempo determinando una ingiustificata disparità di trattamento”. La Cassazione gli dà ragione. Inizialmente il magistrato di sorveglianza accoglie i reclami di Picardi, “disponendo che a cura della Direzione di quell’istituto penitenziario gli fosse consentito di acquistare gli stessi generi alimentari previsti per i detenuti in regime ordinario, con applicazione degli altri limiti e divieti di cui alla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 2 ottobre 2017, nonché che allo stesso fosse consentito di ricevere cibi cotti dall’esterno, nei limiti ordinari dei pacchi ricevibili e ferme le ordinarie modalità di controllo”. Il Tribunale aveva evidenziato come la sospensione delle regole del trattamento ordinario “deve essere finalizzata a prevenire contatti con l’organizzazione criminale onde impedire il controllo di attività illecite dell’organizzazione e la consumazione di ulteriori delitti all’esterno degli istituti di pena; situazione nella specie non ricorrente, atteso che le limitazioni dei cibi acquistabili sarebbero estranee alla ratio dell’istituto e assumerebbero un valore esclusivamente afflittivo”. Non ci sono ragioni di interrompere comunicazioni con affiliati o soggetti all’esterno, potenzialmente riconducibili all’organizzazione: i beni richiesti da Picardi non comportano rischi di sorta in tal senso, non vanno contro la necessità di impedire forme di comunicazione con l’esterno o il perpetuarsi di logiche associative nel contesto penitenziario, anche attraverso l’acquisizione di una posizione di supremazia su altri detenuti. Poi l’opposizione da parte del Ministero, infine, dopo i vari gradi di giudizio, il verdetto della Cassazione. Resta insoluto l’interrogativo: che tipo di cibo è quello che può costituire artificio di collegamento con i malavitosi fuori del carcere? Ordinare una bistecca, o una trota o un pollo, celano in realtà possibili messaggi con l’esterno? Esiste un menù le cui portate possono assumere significati altri, in codice?
In attesa che questo interrogativo sia sciolto, si prenda comunque atto che almeno due terzi delle domande di risarcimento per ingiusta detenzione sono respinte: perché nella preliminare fase di indagine, come il codice prevede, ci si è avvalsi della facoltà di non rispondere; o per motivi ideologici. Eppure c’è un articolo preciso del codice, il 314, che sancisce: “Chiunque è stato prosciolto con sentenza irrevocabile…ha diritto a un’equa riparazione, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. Quanti sono ogni anno i cittadini italiani arrestati ingiustamente? Più del doppio di quello che comunica il ministero di Giustizia, e che vengono risarciti. Dà un’idea (ma è molto approssimativa per difetto rispetto la realtà) il fatto che lsolo 2021 lo Stato ha sborsato ben 25 milioni di euro per errori giudiziari e detenzioni ingiuste. Secondo i dati ufficiali, nel 2021, circa seicento persone hanno ottenuto il risarcimento (e di conseguenza, si è ammesso un danno che non si doveva subire) come si concilia questo dato con il fatto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha decretato il 99 per cento di assoluzioni? Chi rompe non paga, quando si tratta di magistrati?
Un’utile e istruttiva lettura ‘Il governo dei giudici’, l’ultimo saggio del Professor Sabino Cassese, pubblicato da Laterza. Cassese ricorda che ci sono circa sei milioni di cause pendenti; la durata media di un processo civile è di sette anni (contro la media europea di due); tre anni per il penale: proprio quest’elemento è il più citato dalle aziende internazionali quando si rifiutano di investire da noi. Eppure, in questo quadro disastrato il potere dei giudici aumenta. Anzi, la magistratura è vera e propria forza di governo: invade terreni non suoi, la politica e l’economia. L’elemento costitutivo di una democrazia liberale, la distinzione dei tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), è andato a farsi friggere. Non da ora: è un “processo” cominciato almeno trent’anni fa, con Tangentopoli. Casseseelenca una serie di paradossi: si lamenta una cronica carenza di organico, causa dei processi infiniti; e tuttavia nei ministeri e nei gabinetti di mille segreterie, sono “distaccati” magistrati; il Consiglio Superiore della Magistratura ha completamente tradito la sua funzione costituzionale ed è terreno di scorribanda e lotta di potere, e fa molto prima dello scandalo “Palamara”. Nelle procure il ricorso alla carcerazione preventiva per ottenere confessioni, è pratica usuale. L’Italia, insomma, è una “repubblica giudiziaria”. Casseseinoltre punta l’indice sulla quantità di leggi: si sovrappongono, applicarle è impossibile, confuse, scritte male, contraddittorie. Il risultato è sotto gliocchi di tutti.