mercoledì, 22 Marzo
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Recovery Fund, quel che c’è dietro i numeri

A primo impatto, il risultato per l’Italia del nuovo Recovery Fund, pone alcune perplessità. Com’è possibile che la quota dei contributi a fondo perduto sia rimasta invariata (rispetto alla proposta Von Der Leyen), malgrado la sforbiciata all’intero pacchetto di sussidi (da 500 a 390 miliardi di euro)? La risposta, è che sono cambiati i criteri di allocazione delle risorse. Il criterio applicato per la destinazione dei contributi, è quello del tasso di disoccupazione medio per gli anni 2015-2019. Quindi, ci ha sicuramente guadagnato l’Italia, ma ancor più la Grecia, che in proporzione alla sua grandezza e al suo contributo al bilancio UE, ha portato a casa un miglior risultato. Grazie al cambio di criterio, la quota intera di sussidi e prestiti corrisposta all’Italia aumenta dal 20 al 28%(dell’intero pacchetto a 750), rispetto alla proposta precedente.
In questo modo l’Italia riceverà complessivamente 209 milardi di euro, al posto dei vecchi 172, di cui 81 in sussidi (invariati) e 127 in prestiti.

Per quanto riguarda i sussidi, bisogna però tenere conto del risultato al netto del contributo al bilancio pluriennale europeo 2021-2027. Se la quota rimane quella attuale, l’Italia corrisponderebbe per un 13% dell’intero pacchetto di contributi (390), un ammontare di 50,7 miliardi. Per cui, facendo 81-50, riceverebbe circa 31 miliardi di euro.

Insomma, non è tutto oro, quel che luccica. Tra l’altro, a pagina quattro, del documento approvato dal Consiglio europeo, si legge che la Commissione è autorizzata, in via provvisoria, a chiedere agli Stati membri maggiori risorse alle rispettive quote relative, se non riuscirà ad ottenerle attraverso i propri strumenti, ovvero le nuove imposte che verranno introdotte a livello europeo: Plastic Tax, Carbon Tax, Digital Tax e Financial Tax, fino a una massimo del 0,6 % del reddito nazionale lordo degli Stati membri, che è il criterio attuale per la ripartizione delle quote al bilancio UE (di cui l’Italia, è il terzo contributore).

L’aspetto innovativo, e per certi versi, rivoluzionario, è che alla Commissione è conferito il potere di contrarre prestiti sui mercati dei capitali (eurobonds), per un ammontare complessivo di 750 miliardi di euro, con scadenze obbligazionarie fino al 2058.

Poi, per esser chiari, il documento individua il grosso del pacchetto di aiuti del nuovo Recovery Fund, o meglio, Next Generation EU, nel Dispositivo per la ripresa e la resilienza (Recovery and Resilience Facility), che assorbirà, dei complessivi 750, 672,5 miliardi (tra sussidi e prestiti). Di questi, il 70% verrà erogato tra il 2021 e il 2022 e il 30% nel 2023. Gli altri 77,5 miliardi verranno impiegati, in buona parte nel programma REACT-EU, 47,5 miliardi (sviluppo regionale, povertà e coesione sociale) e il resto nei programmi: Orizzonte Europa (5 miliardi), InvestEU (5,6), Sviluppo rurale (7,5), Fondo per una transizione giusta (10), RescEU (1,9).

Detto ciò, si arriva alle condizionalità, pagina cinque. Gli Stati membri, dovranno presentare entro fine settembre, i Piani nazionali per la ripresa e la resilienza (programmi di riforme e investimenti per il periodo 2021-2023). I piani saranno riesaminati e adattati, se necessario, nel 2022, per tener conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023. I piani verranno valutati dalla Commisione, entro due mesi dalla presentazione. Si otterrà più punteggio, se si sono seguite le raccomandazioni della Commisione, specifiche per Paese, e se i piani terranno conto del contributo effettivo alla transizione verde e digitale.
La Commissione, dopo un primo esame, passa la palla al Consiglio europeo che deve approvare il piano a maggioranza qualificata, entro quattro settimane dalla presentazione della proposta della Commissione stessa. Nel frangente, la Commissione chiede il parere del Comitato economico finanziario. Se ottiene luce verde dal Consiglio europeo e dal proprio comitato, il piano passa. Se il Consiglio non approva, il tutto slitta, al succesivo summit dei capi di Stato e di Governo europei.
Vi è data anche la possibilità, in via eccezionale (ma chi decide il criterio dell’eccezionalità), che uno o più Stati membri possano sollevare dei dubbi, per gravi scostamenti dei target, e chiedere che la questione passi al successivo appuntamento (ecco il famoso ‘freno d’emergenza’). Tuttavia, il palleggio, in tutti i casi, non potrà durare per più di tre mesi (dal primo esame del Consiglio). Nella peggiore delle ipotesi, la parola finale spetterà comunque, alla Commissione.

Una bella corsa a ostacoli, con la supervisione del cane da guardia del Consiglio europeo. Ma non poteva essere diversamente. Il debito pubblico italiano non è certo il risultato del dumping fiscale olandese. Ce lo siamo creati da soli, nel passato, con spesa pubblica fuori controllo, mala amministrazione ed evasione fiscale. Per la mentalità calvinista e puritana olandese, l’assenteismo dal lavoro, poi, è una bestemmia. Non essendoci possibilità di redenzione, l’accumulazione della ricchezza e del risparmio, guadagnati col sudore, sono l’unica possibilità, per entrare eventualmente in Paradiso. Una visione un po’ monotona, ma quella è.

Ma l’Olanda, ha sempre giocato questo ruolo. Basti pensare al trattato dell’Unione Europea del 1992, firmato a Maastricht (Olanda, appunto), che introdusse i primi precisi parametri di convergenza per entrare nell’Unione Monetaria Europea (l’embrione dell’Euro): tasso d’inflazione non superiore al 1,5%, disavanzo pubblico (deficit) non oltre il 3% del pil e debito pubblico non superiore al 60% del pil. Tutti criteri, ampiamente deviati, nel corso del tempo.

Quindi alla fine, è stato un buon compromesso, malgrado tutto.

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