venerdì, 31 Marzo
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Quirinale The Day after: crisi della politica, istituzioni in emergenza

Inutile fare moralismi sulla ridda di voci, commenti, illazioni, anatemi, esclamazioni, aspirazioni, delusioni e speranze che l’arena (istituzionale, mediatica e sociale) costituita dall’elezione del Capo dello Stato ha provocato.
Questo momento rituale di comprovazione della vitalità democratica del Paese -che capita ogni sette anni non ogni settimana- scatena un rapporto simbolico di tutti con l’identità nazionale (cittadini intesi come uomini e donne di ogni genere, di ogni territorio e di ogni età; ma anche addetti ai lavori con ogni tipo di collocazione che sono parte dei processi di rappresentanza) rispetto ad una scelta che tocca un punto di sintesi della fiducia del Paese verso le istituzioni.
Insomma, pare meglio che si mescolino giudizi raffinati a valutazioni sommarie ed emotive piuttosto che assistere ad una scelta condotta in segreto nell’ambito degli apparati che passi quasi inosservata come una faccenda di routine.
Accettato questo terreno di gioco (c’è chi non è d’accordo, soprattutto nei fautori del modello della non trasparenza della gestione del potere), si deve fare anche una piccola subordinata. E cioè che i commenti dei cittadini e il diritto di interpretazione dei giornalisti avviene in una libertà ampia, nei limiti delle leggi e del buon senso. Ma le parole degli addetti ai lavori devono corrispondere a codici di alta responsabilità per i quali non c’è la stessa ampiezza.

LA MIGLIORE SOLUZIONE EMERGENZIALE POSSIBILE
Vedere leader di partito che hanno bruciato nomi di varia fama (dieci in una settimana) nelle sedute del Parlamento chiamato a votare, fa parte di una critica oggi doverosa da fare alla politica professionale.
Vedere gli stessi leader che un’ora dopo si sono intestati tutti la vittoria, come se i cittadini non avessero memoria dei fatti. Vedere un’operazione di blocco di alleanze (Silvio Berlusconi con il centrodestra) tenere in scacco tutti, per intere giornate, senza avere sbocchi e senza produrre nemmeno finalità negoziali.
In molti casi l’approccio della politica professionale (nel nostro tempo altamente retribuita) non è apparso come il compimento di un delicato rito, quello di tenere in sintonia sentimento popolare e funzionalità delle istituzioni. E’ apparso piuttosto come l’affannarsi (nomi buttati lì, nomi di contrasto e non di bandiera, nomi per costruire vincitori e vinti, nomi di donne liquidati a raffica, eccetera) per segnalare se stessi come king-maker ma anche come propagandisti elettorali.
Questa critica, in occasione delle vicende del 13° scrutinio presidenziale della storia repubblicana, si somma ad un’altra percezione largamente commentata: gli italiani hanno toccato con mano che i nomi all’altezza della posta erano pochi. La qualità della politica -in Paesi di peso internazionale- dovrebbe anche essere espressa dall’abbondanza di una classe dirigente all’altezza di tutti i compiti connessi al governo, al controllo, alla garanzia del sistema democratico. E tra i nomi non propriamente all’altezza vanno considerati anche quelli di chi si è lasciato spendere in forme avventurose.
Così, al di là di nomi fatti e bruciati, si è alla fine riprodotta la diffusa percezione tra igrandi elettoriche un anno fa ha portato ad accettare l’idea (con consenso) che per guidare il governo non c’era una figura adeguata e che l’emergenza doveva determinare una scelta di emergenza. Ugualmente questa volta il percorso tortuoso dei primi sette scrutini ha portato il Parlamento, in sintonia con l’opinione vagante nel Paese, a ritenere che non si potesse trovare una maggioranza attorno ad un nome riconosciuto valido e all’altezza. Ripiegando alla fine sulla migliore soluzione emergenziale possibile, quella di riproporre il nome del Presidente uscente, perché consolidato nella stima generale, malgrado l’età un po’ avanzata e malgrado il diniego personale ad un secondo mandato.
Se lo stesso Mario Draghi aveva dato, nella conferenza stampa di Natale, l’idea che la condizione emergenziale poteva essere conclusa (Mario Monti ha rilevato che ciò era motivato da una «legittima ma destabilizzante candidatura») la dura settimana a Camere riunite ha fatto capire che, così come la pandemia ancora manifesta il suo pericolo, anche l’emergenza politica non solo non è tramontata ma si è acuita. E che in questo quadro essa si misura con altri logoramenti: istituzioni, pubblica amministrazione, servizi, mercato del lavoro, media, educazione, salute, patti generazionali, parità uomo-donna, eccetera. E, soprattutto, si misura con un prossimo lungo evento per definizione conflittuale: la campagna elettorale.

 

LA NECESSITÀ DI DISTINGUERE
Certo è anche giusto non travolgere tutta la politica in questa piega drammatica
. Anche se i commenti oggi non fanno molti sconti. C’è chi ne è uscito meglio, chi peggio. I giornali del giorno dopo sono pieni di pagelle. C’è un centrosinistra che partiva come sfavorito, il PD ne è uscito un po’ meglio, ma le sue alleanze sono a pezzi. C’è un centrodestra che partiva avvantaggiato e che è finito frantumato. In mezzo la crisi di leadership e di orientamento del M5S appare come una parabola senza fine. Se sta crescendo la domanda di ‘proporzionale’ è perché alla fine di questo round non sta più in piedi nemmeno una delle alleanze che esistevano prima dell’apertura delle urne.
Ma è il carattere di sistema della politica rappresentata, con le sue regole, le sue responsabilità, i suoi referenti sociali, la sua capacità di tenere maggioranze e selezionare al meglio la classe dirigente, tutto ciò che Pierluigi Bersani chiama ‘un profilo’, a uscire da questa prova -proprio perché altamente simbolica- come un territorio bombardato. Pur senza farci dimenticare che, a cominciare dagli Stati Uniti e guardando anche a molti contesti europei, la tenuta della politica è in sofferenza in quasi tutto l’Occidente.
Nei partiti politici è stato vieppiù trascurato il rapporto con lo studio, la ricerca, la messa a punto di progetti teoricamente validi e sperimentalmente responsabili, materia che resta insegnata nelle facoltà di Scienze politiche ma che è sempre più accantonata nella vita dei partiti che si rifanno piuttosto alla cultura del marketing e del puro posizionamento. Cultura che procura forse qualche voto, ma che prepara poco (idee e personalità) ad affrontare le sfide dell’agenda globale, nazionale e locale.
Questa perdita di qualità è avvertita da elettori sensibili e da vasti ambiti dell’impresa come una condizione di insufficienza rispetto alla necessità di trovare concrete soluzioni ai problemi di contrasto ai rischi, di progettazione del nuovo e di generazione del futuro. Proprio perché la politica intesa come puro marketing (a favore degli apparati, per giunta, perché la rappresentanza sociale è al lumicino) induce a eliminare la storia come insegnamento e il futuro come obiettivo. La sanzione arriva ormai sotto forma di crescita pesante dell’astensione: 11% di votanti al collegio centrale della capitale (Roma1).
Cosi l’istituzione viene percepita al massimo come erogatore di sussidi, non come produttore di regole adeguate. Naturalmente la crisi della politica è stata prodotta da anni di picconate dell’antipolitica, cavalcata da metà degli stessi partiti e movimenti solo per accalappiare elettorati in fuga, arrivando fino all’assurda abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (al posto di collocarlo in un serio controllo) che oggi dovrebbe essere la prima misura di reversibilità, per rimettere ordine in un quadro senza più regole.

 

DAL BASSO E DALL’ALTO
Una certa crescita del civismo organizzato nei territori
, per mantenere una soglia minima di governabilità delle cose concrete, è stata negli ultimi anni una valvola per mettere al riparo almeno il governo dei piccoli centri. Ed è un modello in evoluzione che può fornire riferimenti ed esempio alla politica professionale.
Tanto che una parte di quel civismo locale si è fatto trans-territoriale. In più sta raccordando nord e sud e va a congresso a febbraio attorno ad un progetto di rigenerazione di tutta la politica.
Ora in Italia si ricompone la coppia emergenziale Mattarella-Draghi per portare avanti la lotta alla crisi sanitaria e difendere gli interessi nazionali con quelle sinergie europee che chiedono affidabilità e credibilità. Ma la crisi politica si è espressa in modo prepotente e deve entrare nell’agenda della coscienza collettiva, rispetto a cui sia il Presidente della Repubblica, sia il Capo del Governo potrebbero fare ancora qualcosa ispirati alla necessità di una tenuta della democrazia come legittimazione della stessa italianità. Serve così qualche risposta alla polverizzazione dei partiti che punti a trovare soluzioni di sistema. Altrimenti si ottiene il paradosso che l’incombenza della campagna elettorale, che pure è una prova di democrazia, rischi di spingere al peggioramento delle condizioni di sistema, oltre ad essere ovviamente una costante tellurica per il governo.
Ma è venuto anche il momento di ricordare che nella crisi della politica (che è anche alimentata da una grave caduta di ruolo pedagogico dei partiti) non c’è solo una involuzione dell’offerta, ma c’è anche una atrofia della domanda. La crisi pandemica ha forse contribuito a gettare lo sguardo all’essenziale e non alla vita dei partiti politici che per il 90% degli italiani (dati Demos annuali) non fa parte in alcuni modo dell’essenziale.
E qui si saldano le due malattie. Per questo nella dimensione di emergenza che riguarda le responsabilità delle maggiori istituzioni italiane vi deve anche essere un pensiero strutturato su cosa si può fare per riqualificare la domanda sociale di buona politica. Impresa difficile in tutte le latitudini perché da anni populismo e demagogia hanno usato questa leva (nel mondo e ovviamente in Italia) solo per organizzare -si fa per dire simbolicamente- giornate del Vaffa, assalti al Campidoglio, assalti al sindacato, comizi con il rosario, comitive spaccavetrine, manifestazioni no-euro, cortei no-vax, eccetera. La sterzata responsabile deve avvenire con strumenti di ricomposizione dell’educazione civica collettiva e contrattuale. Cioè generando nel mondo del lavoro (grandi e piccole imprese) regole di cogestione. Rigenerando la corresponsabilità delle famiglie nel funzionamento delle scuole. Creando condizioni di ascolto attorno alla trasformazione delle gerarchia dei bisogni a fronte di disuguaglianze sociali, economiche e giuridiche (tema -quello delle nuove rivendicazioni di diritti- a cui il neo-presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato ha dedicato alcune riflessioni nella conferenza stampa dopo l’elezione unanime il 29 gennaio).
Sia chiaro, la complessa agenda di questo tema non è confinabile nelle battute conclusive di un articolo. E qui si sono accumulate fin troppe cose.

Resta da chiedere: si può immaginare un vero cantiere al tempo stesso istituzionale e sociale?
Anche i media hanno la loro parte di responsabilità. Del compito di tenere allacciata l’opinione pubblica, non solo soffiando sul fuoco allarmisticamente attorno a ogni conflitto in atto, si parla sempre nei convegni. Ma dovrebbe essere avvertito come un maggiore sforzo di spiegazione e di accompagnamento (certo da condividere con analogo sforzo delle pubbliche amministrazioni) a fronte di una sofferta domanda di ‘servizio pubblico’ che è salita dal Paese durante tutta la crisi. Argomento che adesso non deve trovare disattenzione in una situazione di governo del Paese in cui c’è certamente sensibilità sociale, ma ci sono anche forme di autosufficienza tecnocratica.
Quella domanda si è espressa in tanti modi nell’ultimo anno. Rispettando l’immenso carico degli operatori sanitari, apprezzando il lavoro degli insegnanti nelle note difficoltà, mantenendo alta la reputazione per le forze dell’ordine, tornando a sperare nell’Europa. E a volte anche nelle forme simboliche. Per esempio nel crescente rispetto popolare per la presidenza Mattarella, fino allo ‘spirito della Scala’, quello che ha previsto, con un lunghissimo applauso, l’opportunità del bis. Uno spirito che i parlamentari hanno avvertito meglio delle leadership dei partiti. Da qui le istituzioni dell’emergenza -le due maggiori dell’architettura pubblica- potrebbero riannodare i fili per un’agenda sociale che produca, anche nel quadro elettorale, obblighi conformi degli addetti alla politica.
Una nuova agenda che potrebbe cominciare con una sorta di lezione civica dello stesso Capo dello Stato che, mutuando il celebre passaggio del Presidente Kennedy nel suo discorso di insediamento, potrebbe dire alla politica e alla società italiana: E’ arrivato il momento in cui non mi chiediate cosa posso fare io per voi ma vi chiediate cosa potete fare voi per l’ltalia”.

Stefano Rolando / Insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università Iulm di Milano
Stefano Rolando / Insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università Iulm di Milano
Stefano Rolando, 1948, laureato a Milano in Scienze Politiche, è docente, manager, comunicatore. Dopo esperienze di management in aziende (Rai e Olivetti) e istituzioni (Presidenza Consiglio dei Ministri e Consiglio Regionale della Lombardia), è stato dal 2001 al 2018 professore di ruolo (Economia e gestione delle imprese) alla facoltà di Scienze della comunicazione dell'Università IULM di Milano, dove continua gli insegnamenti in materia di comunicazione pubblica e politica e l'attività di ricerca applicata Dal 2005 al 2010 è stato segretario generale della Fondazione di ricerca dell'ateneo. È stato anche segretario generale della Conferenza dei presidenti delle assemblee regionali italiane e rappresentante italiano nel comitato scientifico Unesco-Bresce. Dal 2008 è presidente (Melfi-Roma) della Fondazione “Francesco Saverio Nitti” (www.fondazionefsnitti.it). Dal 2021 è anche presidente (Milano) della Fondazione “Paolo Grassi – La voce della cultura” (www.fondazionepaolograssimilano.org/). Attività e pubblicazioni www.stefanorolando.it
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