martedì, 21 Marzo
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Quando Usa e Russia andavano d'accordo

Baltimora-uranio-russo

 

Spazzatura della storia. Ma una spazzatura cosi particolare da costituire un incubo per i servizi di sicurezza di mezzo mondo. Ventimila testate nucleari e una quantità infinita di materiale atomico pronto all’uso sparso tra i Paesi dell’ex Urss. Questo venti anni fa. Le stesse cifre oggi sono invece l’espressione di una delle poche storie di successo nei tormentati rapporti russo-americani del dopo guerra fredda. La bacchetta magica? Un programma chiamato «Dai megaton ai megawatt». Dietro questa sigla un tantino sbarazzina si nasconde un avvenimento oggi forse difficilmente immaginabile ma che nei primi anni ’90 appariva più che naturale. La collaborazione tra Mosca e Washington. Le capitali delle due superpotenze -Mosca in realtà si stava già drammaticamente allontanando da questo status- unite su una piattaforma di disarmo.
Problema: che fare dell’arsenale atomico rimasto, letteralmente, sul terreno dopo il crollo dell’impero sovietico e la fine dell’equilibrio del terrore? Dove mettere cinquecento tonnellate di uranio altamente arricchito e incustodito ora che era chiaro che buona parte dei missili atomici comunisti erano diventate delle tigri di carta? Dove stipare una tale quantità di sostanze non solo a rischio di contaminazione ma, prospettiva forse ancora più allarmante, in pericolo di cadere in mani esaltate e fanatiche. Di certo c’era solo l’impossibilità di trovare un luogo in grado di contenerle con sicurezza.
Come dice la sigla il programma «Dai megaton ai megawatt» in fondo è figlio di un’idea semplice che come quasi tutte le cose elementari possiede anche un elemento di genialità. Invece di distruggerlo, riciclare l’uranio. Rendere innocuo il veleno annacquandolo. Apparentemente nulla di più ovvio. In realtà il processo sarebbe stato il risultato di diversi procedimenti chimici attraverso i quali l’uranio avrebbe preso la forma gassosa dell’esafloruro di uranio. Una volta raggiunto questo stato sarebbe stato leggermente arricchito con altre sostanze. Il risultato? Uranio arricchito al cinque percento. E visto che spesso la quantità diventa qualità ecco che l’elemento da carburante della morte era pronto a trasformarsi nel combustibile dell’energia nucleare civile.
Ma il lieto fine della favola è un altro. Il bello è che i megaton dei razzi sovietici alla fine sono diventati i megawatt dei reattori americani. Alla faccia di Stranamore.
L’utimo atto di questa parabola sui miracoli della cooperazione sta andando in scena proprio ora. La settimana scorsa il porto Usa di Baltimora ha accolto le ultime tonnellate di uranio trattate in precedenza in Russia e ora pronte per le centrali dell’ex nemico globale. Consegna con cui il programma ha chiuso i battenti. Costo? Otto miliardi di dollari spalmati in venti anni. Quanti di questi pagati dal contribuente? Zero centesimi o copechi che dir si voglia.
I russi, nonostante le iniziali diffidenze americane, hanno svolto alla perfezione il proprio compito. L’uranio indebolito doveva arrivare al porto di San Pietroburgo e cosi è stato. Nella città di Pietro il Grande, l’elemento fissile, preso in consegna dall’agenzia governativa Usa, United States Enrichment Corporation (Usec), veniva trasportato negli Usa e li lavorato fino a essere adatto alla produzione di energia civile. Con il denaro ricavato dalla vendita del combustibile per usi civili, l’Usec è riuscita a pagare l’intero programma. La Russia invece è stata rimborsata con forniture dell’elemento allo stato naturale.
Ovviamente se ogni rosa ha le sue spine, una collaborazione Usa-Russia iniziata negli anni ’90 e durata due decenni qualche ammacco lo ha sicuramente subito. I momenti più difficili? L’implosione dell’economia federale alla fine del secolo scorso. L’intervento Nato in Kosovo e le proteste di Mosca. Il momento in cui l’Usec ha smesso di essere agenzia pubblica per diventare azienda privata. Colpi duri che non sono però riusciti a buttare giù il progetto. «Dai megaton ai megawatt» è sopravvissuto a tutte le crisi superando anche i vari cambi di Governo a Washington come a Mosca.
Oggi la produzione di metà dell’energia nucleare Usa avviene grazie all’uranio russo. Secondo dati Usec si tratta del dieci percento della produzione ccomplessiva di energia di Washington. Niente male per due avversari. Secondo quanto dichiarato dal Ministro Usa dell’energia Ernest Moniz, al ‘Washington Post‘, il programma «Dai megaton ai megawatt»  ha rappresentato una delle misure più efficaci per impedire la diffusione delle aarmi atomiche. Non solo, ha fatto sparire 500 tonnelate di di materiale nucleare militare. Grazie all’annacquamento dell’urianio è stato possibile dare lavoro a centinaia di scienziati e tecnici del settore. La disoccupazione degli specialisti di armi atomiche rappresentava allora uno dei massimi fattori di rischio nel settore della deterrenza atomica. Il programma ha poi permesso all’economia russa di attingere ad alcuni miliardi di dollari in un momento in cui questi erano più vitali che mai.
Non tutto però, è filato liscio come l’olio. Accanto al programma principale, Mosca e Washington si erano impegante a togliere di mezzo anche 34 tonnellate di plutonio bellico. Il materiale avrebbe dovuto essere mischiato coll’uranio e trasformato in altro combustibile nucleare pronto per essere bruciato nelle centrali civili. Ma il progetto non ha mai preso il volo. L’accordo è stato rilnaciato nel 2011, ma questa volta sono stati gli Usa a boicottarlo. I costi iniziali previsti pari a cinque miliardi di dollari, erano poi diventati otto. I tagli al bilancio americano per l’anno in corso hanno bloccato i finanziamenti.
La fine del programma «Dai megaton ai megawatt» non vuol dire che sia termiato anche il trasferimento di uranio debolmente arricchito. Il business continua solo che simili accordi non passano più attraverso la cooperazione tra i Governi. Oggi Mosca preferisce trattare direttamente con i destinatari del materiale «annacquato». Su basi puramente commerciali.

 

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