«Io ti seguii com’iride di pace lungo le vie del cielo» canticchiava mia nonna con l’aria ispirata e malinconica di chi, con una semplice melodia (era quella di Ideale su testo di Carmelo Errico), viene catapultato agli anni della propria giovinezza ed ai ricordi ad essa connessi. Poi, improvvisamente, indossando i colori della notte cantava «Quanno sponta la luna a Marechiaro…» (Marechiaro su versi di Salvatore di Giacomo) con la voce impostata ed una foga inaspettata, per concludere con «M’han detto che domani Nina vi fate sposa» (L’ultima canzone su testo di Francesco Cimmino).
Erano le canzoni della Belle Epoque. Più propriamente ‘romanze’ o ‘melodie’, in pratica, potremmo dire, erano i ‘Lieder‘ della tradizione italiana, cioè le romanze vocali da camera della seconda metà dell’Ottocento. Di questo genere principe incontrastato fu Francesco Paolo Tosti, che in esso raggiunse vette ineguagliate sia per la qualità musicale, sia per il successo ottenuto, nonché per la persistente fortuna. In effetti in Italia i compositori erano troppo coinvolti dal melodramma per dedicarsi ad un genere intimo e per certi aspetti “minore”come la romanza da camera, per cui lo frequentarono solo marginalmente, magari come laboratorio dove accumulare materiale da riutilizzare nelle opere (è il caso di Pietro Mascagni che scrisse poco più di una ventina di romanze, quasi tutte realizzate nei primi anni di attività, o di Giacomo Puccini che, parimenti riconsiderò in ambito operistico i materiali di musica vocale da camera composti in epoca giovanile).
Con Tosti il genere arrivò all’apice del successo: il maestro abruzzese (era nato ad Ortona a Mare, in provincia di Chieti nel 1846) seppe incarnare perfettamente lo spirito di un’epoca componendo quasi 400 romanze da salotto. Il successo fu immenso, complice una vena melodica fresca, pulita, scorrevole, profumata, italianissima, cui non fu estraneo l’utilizzo di materiale poetico certamente più qualificato rispetto a quello prevalentemente utilizzato fino ad allora da altri musicisti. Ecco, infatti, comparire liriche di Giosuè Carducci, Giuseppe Giusti, Ada Negri, Salvatore di Giacomo (oltre ai soliti Lorenzo Stecchetti, Enrico Panzacchi, Ferdinando Martini, Carmelo Errico o Ferdinando Fontana il primo librettista di Puccini), di autori francesi come Victor Hugo, Alfred de Musset, Paul Verlaine, ma soprattutto di Gabriele d’Annunzio con il quale il sodalizio andò ben oltre la semplice collaborazione poeta-musicista.
Dato peculiare da segnalare, per un musicista italiano nato a metà dell’Ottocento, è che non compose alcuna opera lirica tenendosi fuori dall’agone melodrammatico, e che sempre rimase unicamente nel territorio della romanza da salotto, con un unico sconfinamento nella musica sacra con la realizzazione di alcune composizioni composte ad Ortona per la cappella musicale della locale cattedrale, appena tornato da Napoli. Nella capitale partenopea, infatti, aveva condotto i suoi studi musicali presso il conservatorio di San Pietro a Majella diplomandosi in violino ed in composizione, allievo per quest’ultima di Saverio Mercadante.
Rientrato ventenne da Napoli ad Ortona vi rimase solo qualche anno per prendere la via di Roma, dove l’incontro e la stima di Giovanni Sgambati gli permisero di farsi apprezzare come compositore, cantante e come maestro di canto nei migliori salotti. È celebre un articolo su la ‘Tribuna’ a firma Mario de’ Fiori, pseudonimo di Gabriele d’Annunzio, che ce lo descrive al pianoforte cantare dolcemente con inimitabile finezza quelle romanze «[…] dove una così limpida vena di melodia corre e scintilla tra le sottili fioriture dell’armonia accompagnante». Tale fu il successo romano di Tosti che divenne maestro di canto della principessa Margherita di Savoia, futura regina d’Italia.