Una recente notizia, secondo cui il Ministro federale dell’occupazione canadese, Maryann Mihychuck, starebbe pensando di assumere rifugiati siriani nei macelli della federazione, è una di quelle che apre orizzonti di pensiero: non è cosa di poco conto, infatti, che, a fronte dei numeri di una crescente disoccupazione, i cittadini del Paese siano disposti a rifiutare uno stipendio, quando comporta andare ad uccidere di persona vitelli, pecore e maiali e lavorarne le carni.
E’ l’ennesima occasione per alzare il velo su quella realtà negata e offuscata in tutto il mondo occidentale che è quella dei macelli. Realtà rimossa e nascosta dal punto di vista fisico e della sua stessa esistenza, se è vero che, nonostante l’immenso numero di animali quotidianamente mangiati (i dati Fao parlano di 56 miliardi di animali terrestri uccisi ogni anno), i luoghi della loro uccisione sono molto spesso ignoti: non ne conosciamo la dislocazione, e, tanto meno, sappiamo cosa veramente abbia luogo al loro interno. Ne intravediamo la realtà, visto che ci capita di incontrare su strade e autostrade camion stipati di vitelli, mucche, maiali, cavalli, incrociamo persino il loro sguardo attraverso le barre che li imprigionano e ne sentiamo i lamenti se ci capita la malaugurata sorte di fermarci in una piazzola dove anche il loro autista si è preso una sosta. Imbarazzante, allora, camminare vicino a loro e cogliere l’orrore in atto nel rapido sguardo che gettiamo prima di girare di scatto la testa dall’altra parte, perché non ce la facciamo proprio ad osservarli ancora. E se l’estate è torrida o l’inverno gelido, i lamenti che udiamo sono strazianti non solo di sete e stanchezza. Da qualche parte, dobbiamo pur dircelo, stanno andando e dove se non ad essere ammazzati? Ma dove sia il posto in genere lo ignoriamo.
Niente è per caso, tanto meno il fatto che i macelli siano situati non solo lontano dai centri abitati, ma anche in luoghi indefiniti, non indicati, difficilmente identificabili. Luoghi dove, per altro, è vietato entrare come comuni cittadini a guardare cosa vi succede; tanto più è vietato fare uscire fotografie e filmati; addirittura in alcuni Stati americani è proibito registrare i rumori, i suoni, se così è possibile chiamare le urla degli animali a un passo dalla morte. Il perché di tanta preoccupazione a non far sapere risulta chiaro quando si guardano i video clandestini, frutto di inchieste altrettanto clandestine, vere e proprie cartoline dall’inferno; e quando si leggono resoconti di operai che vi lavorano o di giornalisti infiltrati.
Ne conosciamo bene anche i particolari quando scoppia uno scandalo e i giornali si riempiono di titoli emotivamente carichi che parlano di ‘macello degli orrori’, ‘crudeltà nei mattatoi’ ‘azienda fuorilegge nella fabbrica della carne’. A quel punto vi è grande dovizia di particolari, perché ci si sente nei panni del censore, del salvatore, di chi coraggiosamente denuncia. Peccato che, invece, si stia parlando della norma, che invece, in quanto tale, non viene denunciata con altrettanto vigore, perché comporterebbe una presa di posizione, questa sì davvero coraggiosa, contro tutto un sistema: e qui si fa il vuoto, giornalistico e non.
Il sistema di occultamento della realtà che comporta la dislocazione dei macelli in luoghi sconosciuti o inaccessibili e il tentativo di black out della relativa informazione, è in funzione di una innegabile sensibilità che, nel mondo occidentale, si va sempre più diffondendo e coinvolge in ugual modo le violenze su uomini e animali.
In un tempo neppure tanto lontano, che si misura in qualche secolo, la pubblica piazza era il luogo delle esecuzioni, dei tormenti punitivi, della gogna: l’apoteosi della ghigliottina che celebrava la rivoluzione francese mozzando teste davanti a donne che sferruzzavano e a monelli che facevano il tifo ne è un fulgido esempio.
Prima che ragioni sanitarie inducessero a spostare i macelli in periferia, gli animali venivano quotidianamente sgozzati anche nelle strade delle città, dove nugoli di ragazzini assistevano e imparavano l’indifferenza o, ancor peggio, l’identificazione facile con il più forte, finendo per infierire ulteriormente, per gioco, sulla vittima indifesa, esattamente come la folla in genere si accaniva sul reo sottoposto al pubblico ludibrio.
Un inesorabile percorso verso il superamento delle forme inaccettabili di prepotenza e crudeltà, ha portato a rinnegare l’orgoglio un tempo incredibilmente connesso all’ostentazione della violenza, che era un modo per affermare il proprio potere.
Di certo molte cose sono cambiate in modo sostanziale per quanto riguarda gli umani, per esempio con la progressiva abolizione della pena di morte (nel mondo occidentale ancora oggi ammessa in Bielorussia, unico Stato in Europa, Stati Uniti, Giappone…). Delle forme che sopravvivono ci si vergogna, non sono certo politicamente corrette, e quindi vengono bene occultate, requisito fondamentale alla loro negazione; è il caso, per esempio, della tortura (per inciso, l’Italia ancora non si è data una legge al riguardo), che ripetuti casi di cronaca ci dicono ancora viva e vegeta all’interno delle istituzioni carcerarie, e in realtà di degrado ancora sussistenti nei luoghi dove gli ultimi degli ultimi vengono reclusi, orribili istituti quali i manicomi criminali, la cui chiusura è giusto dei mesi scorsi, per fare un esempio.
Qualcosa di molto simile riguarda gli animali, i quali, ‘quelli da carne’ in primo luogo, sono lontanissimi dal godere del riconoscimento dei diritti reali, di cui, almeno sulla carta, gli umani godono. Macellare si può, non solo non è reato, ma è il fondamento stesso della nostra attuale quotidiana alimentazione; ma davvero non è bello da vedere, quindi la strada maestra diventa quella di oscurare.
Nascondere questa realtà, e le tante altre dello stesso genere, è un’operazione comunque gravida di conseguenze: quanto più la crudeltà, in tutte le sue forme, contro umani e contro animali, viene occultata, tanto più viene a mancare il processo di desensibilizzazione che accompagna l’abitudine alla crudeltà stessa: certe manifestazioni non entrano nel nostro quotidiano, nella verità esperienziale, nel nostro patrimonio comportamentale, con il risultato che quando ne veniamo in contatto mostriamo tutta la nostra vulnerabilità. Gli spettacoli che un tempo venivano vissuti come normali suscitano, allora, immediate reazioni di sconcerto, rifiuto, raccapriccio.
La spirale sia attorciglia: tanto più siamo disabituati alla crudeltà, tanto più acuiamo la nostra sensibilità verso tante forme di sofferenza, tanto più abbiamo reazioni di rifiuto quando ne veniamo in contatto.
Il problema è che, anime belle e sensibili quali siamo progressivamente diventate, ci commuoviamo davanti agli animali, ma di certo non fino al punto da astenerci dal mangiarli, anzi: i numeri sono diventati stratosferici, le modalità quelle della catena di montaggio, dove il massacro viene industrializzato, con i ritmi e l’organizzazione inevitabilmente osceni che lo definiscono. Uno straordinario reportage di Timothy Pachirat, assistente di scienze Politiche presso la Amherst University del Massachussetts, che lavorò per molti mesi sotto mentite spoglie come operaio in macelli americani, riporta che la norma è l’uccisione di un animale ogni 12 secondi (‘Every twelve second‘ è il titolo del suo libro, edito dalla Yale University Press).