Dopo la recessione nella quale già siamo piombati con il coronavirus Covid-19, si andrà incontro a una risalita che avrà, però, le sembianze di una decrescita sostenibile? E che cosa è la decrescita sostenibile e perché non è, di fatto, recessione? Sono due domande funzionali a sgombrare il campo da fraintendimenti e sciocchezze varie, anche da parte di certe forze politiche.
E’ certo che dopo la recessione -che è già qui, ora- si andrà incontro a una decrescita sostenibile, non ci può più essere altro modello di ‘crescita’, se vogliamo avere un futuro.
La tesi della decrescita come recessione si basa sul collegamento solo con il PIL, e non con l’integrazione equilibrata fra economico e sociale/ambientale e distribuzione del potere.
Il termine decrescita potrebbe essere declinato come nuovo paradigma di sviluppo e non come ‘depressione’ del sistema. Cambiando la prospettiva: dallo sviluppo speculativo del‘mordi e fuggi’ allo sviluppo di continuità equilibrata fra economico e sociale.
La decrescita sostenibile è riconoscere che tutte le monete hanno due facce. Da una parte la faccia economica (per esempio indicatori del Prodotto Interno Lordo, il PIL) e dell’equilibrio fra costi e ricavi, e dall’altra la faccia del sociale e dell’ambiente (per esempio indicatori di Benessere Equo e Sostenibile, il BES), ove intendiamo una analisi multidimensionale degli aspetti rilevanti della qualità della vita dei cittadini, con una attenzione alla distribuzione delle determinanti del benessere tra soggetti sociali e con la garanzia dello stesso benessere anche per le generazioni future. Se le monete avessero le due facce uguali sarebbero false.
Oggi la sostenibilità implica scelte imprenditoriali che diano un futuro alle nuove generazioni e viene valutato non più e solo con il calcolo del PIL (Prodotto interno lordo), ma, tramite i nuovi indicatori di benessere, come per esempio il Bes (Benessere equo sostenibile), l’indice di Benessere Economico Sostenibile (Index of Sustainable Economic Welfare, il ISEW), il Genuine Progress Indicator (GPI), The Human Development Index (HDI) ecc. che affrontano in termini globali i grandi temi della non autosufficienza e dell’invecchiamento attivo della popolazione, delle politiche di integrazione delle famiglie immigrate, della riconversione occupazionale dei lavoratori espulsi dalle imprese del manifatturiero, della gestione del patrimonio artistico e archeologico, delle politiche di welfare che mettono al centro il protagonismo delle famiglie, della finanza del microcredito, dei gruppi di acquisto sostenibile ed inoltre del commercio equosolidale. Il tutto nella prospettiva degli SDG’s (Sustainable Development Goals) che è un programma d’azione che ingloba 17 obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile da raggiungere entro il 2030.
In un quadro macroecomico europeo che, per esempio, relativizza il Pil, auspicando invece una crescita economica che si basa sulle condizioni strutturali e di cultura imprenditoriale diffusa orientata alla responsabilità sociale d’impresa.
Si pensi per esempio al Green Deal europeoche trasforma l’Unione in una economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse, e sfidante rispetto all’equilibrio ambientale, visto come opportunità e non come limite.
Anche in Italia si può vedere nel Decreto Crescitalia bis (2012, convertito con la legge 221/2012) una nuova categoria di imprese, quella delle start-up innovative e specificatamente quelle ad alto valore ambientale e sociale, le quali devono possedere ulteriori caratteristiche per essere considerate tali.
Otre allo sviluppo di prodotti o servizi innovativi e ad alto valore tecnologico, le startup a vocazione sociale operano in esclusiva in determinati settori ove si considerano beni e servizi di utilità sociale quelli prodotti o scambiati nei seguenti settori: a) assistenza sociale; b) assistenza sanitaria; c) assistenza socio-sanitaria; d) educazione, istruzione; f) valorizzazione del patrimonio culturale; g) turismo sociale; h) formazione universitaria e post-universitaria; i) ricerca ed erogazione di servizi culturali; l) formazione extra-scolastica; m) servizi strumentali alle imprese sociali. Inoltre, indipendentemente dall’esercizio della attività di impresa nei settori precedenti, possono acquisire la qualifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano attività di impresa, al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti che siano lavoratori svantaggiati e fasce deboli.
Attori imprescindibili di questa sostenibilità sono le imprese sociali non profit, profit e pubbliche che creano un sistema tripolare di organizzazioni economico-aziendali. E’ una sorta di sostenibile leggerezza dell’impresa sociale.
Dopo il COVID l’Italia dovrà, giocoforza, imboccare la strada di un sistema economico e sociale dove tutte le imprese dovranno essere imprese sociali, passando dalle dichiarazioni convegnistiche alle scelte operative, al ‘mettere a terra’ la responsabilità sociale in una logica di capitalismo che da ‘compassionevole’ si traduce in ‘investimento sociale’, pena il fatto che l’impreparazione a situazioni simil Covid-19 si traducono in un annullamento della domanda (quindi offerta consistente, ma domanda asimmetrica quantitativamente e qualitativamente rispetto all’offerta). L’obiettivo è costituire una simmetria fra domanda ed offerta in un contesto di sostenibilità del sistema. La scelta dello sviluppo della domanda selettiva sulla base di una economia sociale dovrà guidare la politica economica del sistema Nazione, e quindi le imprese.
Evidente, quindi, che la decrescita sostenibile non è recessione, anzi, è esattamente l’opposto, perché ci permette di avere ‘domanda’ oggi, e contestualmente creare le condizioni per averla domani, ma anche perché l’abbiano le future generazioni, perché il pianeta che ci ha ‘saziati’ oggi continui a farlo con le prossime generazioni.
Al dilà dello stereotipo positivo che stiamo lavorando per le generazioni future e gli alberi, di cui oggi godiamo la (seppur insufficiente) sintesi clorofilliare, sono stati piantati dai nostri padri e quindi analogamente dovremmo fare noi, è necessario ricostruire il rapporto fra uomo e natura, fra economia e natura sulla base di due verità.
La prima prende atto che tutte le forme della vita sono interconnesse e la seconda è che la soddisfazione della domanda individuale deve connettersi con il bene comune.
Quindi la massima hobbesiana del ‘homo homini lupus’ può essere sostituita dalla massima dell’economista A. Genovesi. ‘homo homini natura amicus’