Pensione e indennità di malattia sono il paracadute a cui ogni lavoratore dovrebbe aver diritto per far fronte alle difficoltà della vita. Ma per i freelance, come per tutti coloro che appartengono al sistema contributivo e che magari non hanno continuità lavorativa, si tratta di strumenti difficili da ottenere. Di loro quasi nessuno si occupa, nonostante le trasformazioni in atto (o più spesso già avvenute) nel mondo del lavoro, in cui ormai, soprattutto per le generazioni giovani, il futuro più plausibile sembra essere quello della partita Iva. Che dà luogo a scenari ben diversi da quelli vissuti da chi ha un impiego alle dipendenze. Ne è certa Acta (Associazione consulenti del terziario avanzato), da 11 anni impegnata a colmare un vuoto di rappresentanza sindacale e politica che riguarda professionisti autonomi come formatori, ricercatori, informatici, creativi e altre categorie di consulenti, operanti spesso al di fuori di ordini e albi professionali, i quali perlopiù prestano servizio presso pubbliche amministrazioni e imprese. Anna Soru, ricercatrice economica e Presidente dell’associazione, ci ha parlato dei progetti in corso e delle priorità da affrontare per questa tipologia di lavoratori.
Quanti sono questo tipo di autonomi in Italia?
Si stima che i professionisti freelance, iscritti o meno a un ordine, siano tra un milione e 300mila e un milione e 500mila. Tanti dicono che sono di più, ma non abbiamo dati che lo confermano: in realtà non è stata mai dedicata un’attenzione specifica a questo ambito, perciò può darsi che nemmeno l’indagine Istat a cui facciamo riferimento, la quale è di tipo campionario, riesca a inquadrare correttamente il fenomeno. Comunque, i freelance sono molti e in continua crescita. Soprattutto tra i giovani, per i quali questa modalità di lavoro è in aumento per svariate cause. Da una parte perché legata a professionalità sempre più richieste con l’outsourcing e con lo sviluppo di un certo tipo di servizi, dall’altra perché, con un mercato del lavoro così asfittico, le persone sono spinte a inventarsi un impiego.
Alla base del fenomeno c’è dunque una spinta all’autoimpiego?
Sì, ma non solo per far fronte alla mancanza di lavoro, bensì per trovarne uno più adeguato alle proprie caratteristiche e aspirazioni. Rispetto allo stage non pagato o ai lavoretti privi di sbocchi futuri, tanti giovani scelgono spesso di provare a mettersi in proprio. Poi ci sono anche coloro che non hanno rapporti veramente autonomi, anche se secondo una stima effettuata dalla Cgil sono non più del 15%. Dunque non si tratta certo di una componente predominante dei freelance.
Lo scorso anno un rapporto del Cnel (Consiglio nazionale economia e lavoro) contava 756mila working poor tra gli autonomi. Sono davvero così tanti?
Sono molti e quella dei lavoratori a bassa remunerazione è al momento uno dei principali problemi. La ricerca del Cnel, comunque, non distingue tra autonomi di nuovo tipo e tradizionali, come artigiani, agricoltori e commercianti. Conferma però che negli ultimi anni c’è stato un peggioramento nelle retribuzioni.
Quali le difficoltà principali per i freelance oggi?
Nei momenti di crisi la prima è stare sul mercato, cosa che poi è ciò che distingue un freelance da un dipendente. In secondo luogo, per gli stessi motivi, risulta più difficile trovare delle commesse oppure, anche se ottenute, si finisce con l’avere poco potere contrattuale: spesso si è costretti ad accettare compensi bassi. La progressiva diminuzione delle retribuzioni è una realtà difficile da contrastare, tenendo anche conto che le regole europee sulla concorrenza ci vietano di parlare di tariffe. Un vincolo, questo, a mio avviso paradossale: quelle regole intendono impedire una posizione dominante dell’offerta, ma è evidente che tale asimmetria è tutta a vantaggio dei committenti. Ciò denota una visione del lavoro non aggiornata.
Riguardo a ciò, Acta quali azioni intende mettere in campo?
Intervenire adesso sul mercato è estremamente complicato. Riteniamo però che, tra tutti, un committente abbia consuetudini particolarmente deplorevoli: si tratta della pubblica amministrazione, che dà agli altri il cattivo esempio sull’uso dei contratti, sui compensi e perfino nei tempi di pagamento. Invertire tale modalità di azione sarebbe un riferimento utilissimo per il mercato. Dal momento che non si può parlare di tariffe, noi parliamo di parametri, che sono necessari ma che oggi risultano assenti quando la PA decide di acquistare un servizio. Si tratterebbe cioè di definire dei range a cui attenersi, utili anche a contrastare la corruzione e lo sfruttamento.
In cosa consiste la vostra proposta sul welfare?
Siamo partiti dalla considerazione che, come freelance e come iscritti alla gestione separata, paghiamo un’aliquota molto alta, pari al 27,72% del nostro imponibile. Ma in cambio riceviamo assai poco. Sono due gli aspetti che ci premono: da una parte quello legato a malattia, maternità e all’assistenza in generale, dall’altra quello delle pensioni. Per il primo versiamo lo 0,72%, di cui soltanto la metà ci viene restituita sotto forma d’indennità. Chiediamo dunque di poter usare interamente tale somma versata per le prestazioni, da concentrare in particolare per le malattie, specie quelle che tengono a lungo lontani dal lavoro.
A tal proposito state sostenendo una battaglia importante, quella lanciata da Daniela Fregosi sul blog Afrodite K, la quale ha depositato un ricorso contro l’Inps chiedendo che anche a lei, consulente freelance, venissero riconosciuti i 18 mesi d’indennità previsti per i lavoratori dipendenti.
Sì, la causa sta per partire. Condividiamo le sue richieste, presentate anche attraverso una petizione con cui abbiamo raccolto circa 80mila firme. E’ necessario allungare il periodo di malattia anche per le partite Iva, ora ferme a soli 61 giorni, che ovviamente per le malattie serie non bastano. Oggi se un freelance si ammala, se ha versato abbastanza contributi (servono almeno tre mensilità) e se ha un reddito inferiore ai 70.226 euro, ha diritto a un’indennità, che in caso di ospedalizzazione è di circa 40 euro al giorno. Che vengono dimezzati in caso di malattie che costringono a casa ma non in ospedale, come per l’appunto i tumori. Nella migliore delle ipotesi, quindi, per una malattia domiciliare si possono ricevere 1.220 euro, che è una cifra ridicola. Sono situazioni che possono mettere gravemente in crisi una persona, anche perché gli anticipi Inps e Irpef debbono essere comunque versati. La nostra prima proposta è quella di bloccare proprio questi due versamenti, prevedendo un piano di rateizzazione al momento della guarigione. La seconda richiesta riguarda l’allungamento del periodo d’indennità; infine, in caso terapie molto invasive, come radioterapie e chemio, proponiamo di prevedere una compensazione pari a quella ospedalizzata.