Le tensioni tra Gran Bretagna e Russia continuano a tenere banco anche dopo il verdetto delle urne di domenica, che ha visto il presidente uscente Vladimir Putin aggiudicarsi il 75% dei voti. Theresa May e il suo ministro degli Esteri Boris Johnson continuano infatti a puntare il dito contro il Cremlino in riferimento all’avvelenamento di Sergeij Skripal, un ex colonnello del Gru arrestato nel 2004 dai servizi segreti russi (Fsb) che lo avevano colto a collaborare con l’intelligente britannica.
Skripal ha quindi scontato una pena detentiva di 6 anni (a fronte dei 13 previsti dalla condanna inflittagli) prima di essere rilasciato nel 2010 nell’ambito di uno scambio di prigionieri tra Mosca e Washington. Da allora, ha ottenuto asilo in Gran Bretagna e la cittadinanza inglese. Non appena scoperto il tentato omicidio nei confronti di Skripal e di sua figlia Julija, le autorità britanniche hanno immediatamente accusato i vertici del Cremlino di aver ordinato l’assassinio senza fornire alcuna prova concreta a supporto della tesi.
Non a caso, il ministro degli Esteri russo Sergeij Lavrov ha rispedito al mittente gli attacchi, invitando la May a consegnare un campione della sostanza tossica impiegata, che a detta degli esperti inglesi sarebbe un gas nervino (Novichok) di fabbricazione sovietica. Il premier britannico ha seccamente declinato la proposta, espellendo il personale diplomatico russo dal Paese e annunciando che la nazionale di calcio inglese non parteciperà ai mondiali che si terranno in Russia nella prossima estate. Putin ha reagito espellendo a sua volta i diplomatici britannici dalla Russia e rinnovando l’invito alla May ad esibire prove concrete che avvalorino le accuse o di presentare le scuse ufficiali.
Come c’era da aspettarsi, i leader politici dei principali Paesi europei hanno immediatamente espresso solidarietà al primo ministro inglese, così come il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nell’ottica del tycoon newyorkese, la Gran Bretagna rappresenta – oltra a un pilastro fondamentale della Nato – il principale partner politico degli Stati Uniti in conformità alla ‘special relationship‘ instaurata a cavallo tra le due guerre mondiali tra Londra e Washington. Trump mira a sfruttare Londra strumento di pressione sull’Unione Europea, così da impedire che le posizioni del ‘direttorio franco-tedesco’ portino a un compattamento del ‘vecchio continente’ sotto l’egida di una forza di difesa comune egemonizzata da Berlino, slegata dalla Nato e quindi sottratta al controllo diretto Usa.
D’altro canto, a Trump occorre un deciso riassestamento del proprio esecutivo, che continua a perdere pezzi – il licenziamento di Tillerson e quello sempre più probabile di McMaster vanno ad allungare l’elenco dei silurati e dimissionari – mentre l’inchiesta relativa al cosiddetto Russiagate continua a minare la sua autorità. Con uno dei suoi soliti tweet, il presidente ha infatti sparato a zero su Robert Mueller denunciando la presenza di «13 democratici incalliti» nella squadra del giudice speciale che conduce le indagini sul Russiagate. Di per sé, il messaggio non contiene nulla di nuovo rispetto alle precedenti esternazioni di Trump ma secondo alcuni rappresenterebbe un indice piuttosto affidabile di come la Casa Bianca stia perdendo la pazienza nei confronti di un’indagine lunga e costosissima (sia in termini economici che politici) che finora non ha fatto emergere alcuna prova a sostegno della presunta interferenza russa alle elezioni del 2016.
Questa interpretazione si basa sul fatto che l’ennesimo attacco di Trump contro Mueller è caduto ad appena due giorni di distanza del licenziamento di Andrew McCabe, vicedirettore dell’Fbi rimosso dall’incarico a poche ore dal raggiungimento dei requisiti di servizio necessari a richiedere la pensione per ragioni connesse alla violazione dei regolamenti interni della polizia federale Usa. In precedenza, Trump aveva rivolto aspre critiche pubbliche contro di lui, etichettandolo come «un sodale di Comey», il direttore dell’Fbi che aveva avviato le indagini sul Russiagate prima di essere licenziato da Trump nel maggio del 2017 con accuse legate alla sua presunta faziosità.