Un sistema politico ingessato dalle gabbie correntizie, a loro volta irrigidite dalla battaglia interna per i posti (retribuiti) tagliati e ridotti nel sistema, ma da moltiplicare ‘politicamente’, è stato il punto di crisi maggiore per i partiti tra la seconda e la terza repubblica, che ha fatto del PD un soggetto alla fine asserragliato.
Sono partito da questo punto -coralmente narrato dai politologi e dai leader che quando sbattono la porta fanno queste recriminazioni- per immaginare qualche necessaria discontinuità nell’attuale cambio di segreteria del PD, che avviene in una fase ‘commissariata’ del quadro di governo che obbliga i partiti all’utilizzo del ‘tempo contato’ per i cambiamenti di rotta, pena la loro scomparsa. Con sintesi efficace il nuovo segretario Enrico Letta ha dato il titolo ai giornali dell’evento di oggi: «Non vi serve un nuovo segretario, vi serve un nuovo PD».
Come molti altri, avevo considerato, in vista della assemblea dem, un punto come pre-condizione. Una volontà credibile di rimuovere il vincolo che, nella pandemia e oltre la pandemia, impedisce un vero sguardo sulla società, sul mutamento della domanda di politica e di etica pubblica, sulla trasformazione dei bisogni. In particolare recuperando un rapporto credibile con soggetti intermedi ormai diffidenti rispetto ai partiti, ma indispensabili per misurare il cambiamento sociale e creare una comunicazione di ritorno, la cui mancanza è ormai il peggior difetto di qualunque organizzazione in cui tenda a prevalere l’autoreferenzialità (quella che Letta ha chiamato «il rischio di guardare solo al proprio ombelico»). E alla fine un vero riavvicinamento -con diritto di parola e corresponsabilità di scelta- verso cittadini e operatori civilmente impegnati (educazione, lavoro, servizi) che hanno staccato la spina della fiducia, alcuni magari anche quella del voto.
In questa modifica del ‘modello partecipativo‘ (non misurato solo a piazze piene, ma anche a tavoli di lavoro qualificati) ci sta per intero il convincimento che, dopo la sbornia dell’’uno vale uno’, tornare a studiare sia una implicazione ineludibile per il sistema politico, così come per il sistema di impresa. Basti pensare che in venti anni la domanda -da parte di istituzioni, imprese e partiti- di analisi interpretative è scesa quasi a zero, oltre allo smantellamento quasi integrale degli uffici studi interni, preferendo tutti solo analisi spot di ‘posizionamento’. Sia esso riferito al mercato dei consumi o al mercato elettorale. Quindi ritorno alla tessitura delle idee ‘interpretative’, rimettendo anche in movimento la spinta formativa. Qui di seguito, guardando il PD dall’esterno ma con interesse, gli elementi considerati di rilievo per un vero cambiamento.
Riepilogo (in attesa del discorso)
-L’uscita dal vincolo prioritario con Cinquestelle per avviare uno schema più ampio e affine di alleanze in cui il pluralismo delle chiavi interpretative sia una forza e non una continua lacerazione. Schema che incide sul modello di governance e quindi con profonda revisione della attuale egemonia delle correnti interne.
-Ridurre il professionismo politico (totale dipendenza dalla retribuzione scaricata su istituzioni o forme di lavoro che abbiano la politica come referente e non soggetti impegnati nella produzione e nei servizi), definendo gli ambiti in cui il tempo pieno (protempore) del ‘servizio ai cittadini’ sia sostenuto da retribuzione e gli ambiti in cui il ‘proprio mestiere’ (pre-condizione personale alla partecipazione attiva) sia fonte di sostentamento.
–Ricostituire tavoli di discussione con soggetti socialmente implicati profilando tesi aperte e creando condizioni di verifica empirica (politica come accertamento di condizioni, di resistenze, di metabolizzazioni). In parallelo si colloca in questa ‘implicazione’ la spinta al coinvolgimento creativo degli amministratori territoriali.
–Una rivoluzione comunicativa più centrata sulla ‘spiegazione‘ dei processi che sulla magia della parola seduttiva. Togliersi dalla testa che un popolo in battaglia per le soglie minime di dignità e in piena crisi sanitaria possa emanciparsi solo grazie ad una ‘comunicazione placebo’, anziché trovare risposte alle immense incomprensioni che una società con alto analfabetismo funzionale presenta proprio a causa di “spiegazioni” negate. Perché questa comunicazione abbia radici e non sia solo “estetica” la ripresa dell’obbligo di studiare e formarsi è implicito.
–Concepire il processo di integrazione europea come cornice quotidiana della ‘politica interna‘, costituendo motivo di analisi, di comparazione, di scambio e di esperienza per tutta la comunità politicamente attiva non più relegabile a un ufficio che curi relazioni delegate ma che diventi materia trasversale di iniziativa.
–Una coerenza nella gerarchia delle scelte sui contenuti e la riprogettazione delle ‘policies‘. Non elenchi di maniera, ma selezione progettuale.
L’estensione di questo memorandum (con ogni adattamento e ampliamento immaginabile) è materia di confronti vissuti e non di ‘ammonimenti’. Ma per capire se il cambio di segreteria del PD costituisce un fattore di rigenerazione o un approccio vago a promesse di miglioramenti indeterminati, si prova qui a ricavare dal discorso di insediamento di Enrico Letta qualche riscontro attorno ai punti delineati.
La scelta retorica del discorso di Letta è stata quella di partire dagli orientamenti alle politiche (qui indicato al contrario come ultimo punto) e poi risalire al modello di partito.
Dunque largo spazio è stato dato alla ‘visione‘ dei temi più importanti. Facendosi inevitabilmente prendere la mano nell’estendere molto l’elenco, lasciando magari meno evidenti i punti cruciali. Che per enfasi comunque sembrano essere: l’Europa, i giovani, la sostenibilità, la prossimità, la trasformazione digitale, la scuola, la parità di genere. Poi enumerando molti cambiamenti necessari: lavoro, giustizia, clima, migrazioni, ‘ius soli‘, turismo, cultura, tecnologie e impresa, dati personali, eccetera. In passata ma non inosservata la citazione LGBTQ. Come è avvenuto nel discorso in Senato di Mario Draghi giovani e donne sono i comprensibili destinatari sociali prescelti, lasciando tuttavia in entrambi i due discorsi senza una parola la complessa condizione degli anziani, non solo rispetto all’attacco privilegiato della pandemia ma soprattutto come tema di mantenimento di ruolo dignitoso nella vita sociale. Quanto ai giovani forte sottolineatura sulla proposta («ci saranno resistenze, ma argomenteremo») del portare il voto a 16 anni.
Molti comunque gli spunti condivisibili, va detto. Ma la veloce parte finale del discorso rende anche per il segretario (poi acclamato con 860 voti favorevoli, 2 contrari e 4 astenuti) la questione del ‘modello di partito‘ un banco di prova per tutto. Da qui i riscontri con i punti prima elencati sostanzialmente riferibili proprio allo schema della relazione che lo stesso Letta ha chiamato «tra l’anima e il cacciavite» (cioè tra i valori e l’incidenza sulle condizioni). Sul perimetro delle coalizioni fugaci parole, perché sarà giustamente l’esito di un processo a esprimersi. Per il centrosinistra conta la citazione che in coalizione ci sarà «anche il M5S di Conte» ma contano anche gli accenni a rapporti più ampi; mentre il centrodestra è connotato ora con Salvini e Meloni (Berlusconi probabilmente è in osservazione).
Riscontri (nel discorso di investitura)
Su correnti e alleanze.
Netta l’avversione al modello correntizio. Chiare le parole sul partito ‘aperto ad alleanze’, nel senso di coalizioni (che tuttavia appaiono più come accordi elettorali che come ipotesi di forme federative di principi e proposte). Quanto al superamento del modello correntizio si rinvia al dibattito interno e a proposte da sottomettere ai circoli. Un accento netto riguarda la dimensione qualitativa di un soggetto politico ‘in età Internet’, cioè in un quadro di implicazioni che non sono più forma ma struttura. Quale sarà il punto di caduta? Letta dice che sarà diverso sia dai modelli leaderistici che da quelli di democrazia diretta. Si capirà. In ogni caso l’eccezionalità del momento rende la partita che si apre come -sua espressione- «una ricostruzione del partito».
Sulla fine del ciclo della diarchia tra ex-pci e ex-dc.
Nessun cenno esplicito. Salvo lo spunto non approfondito di una sorta di ‘timore’, ovvero di ‘pensiero’ non argomentato, sul fatto di chiamarsi ‘Enrico’ nel momento di assumere la guida di «quel partito» con «quella storia». La risposta potrà anche arrivare in tempo due. Se la fotografia di Berlinguer è destinata a restare nel pantheon dei muri della sede, ovvero a restare accompagnata da altre fotografie e da quali altre, ovvero ad uscire di scena come anche le altre, ma allora ponendo un problema di chiarimento sulle radici. Che intanto Letta accorcia ai tempi più recenti, con un riferimento a tre figure principali, che nella sua storia personale appaiono scontate: Delors, Andreatta e Prodi.
Sul professionismo della politica
Meno esplicito delle dichiarazioni dei giorni precedenti. Ma con spunti che meriteranno sviluppi: «Non siamo qui per raccattare qualche posto attraverso il nostro impegno. Fare politica è impegno di vita». Interessante l’assunzione anche personale dell’impegno per una «Università democratica», ovvero per una rilevanza formativa interna (sembrerebbe aperta all’area destinata alla ‘coalizione’) attorno ai capisaldi tematici trattati nella prima parte dell’intervento. Occasione persa quella di dire una parola sul taglio dei parlamentari, con il PD a rincorrere la ‘trovata’ populista che ha determinato l’inasprimento della lotta correntizia (per controllare di più la destinazione dei posti ‘residui’ in tutti i partiti). Anche affrontata pacatamente era un argomento di discontinuità. Non c’è stato.
Sul tema dei soggetti sociali implicati
Anche qui non c’è ancora vera e propria declinazione. C’è il ritorno della parola ‘partecipazione’ -che tuttavia tutti usano in politica- per lasciare aperta la domanda di qualificazione: a cosa? all’ascolto? alle istruttorie? alle co-decisioni? Nel momento in cui Letta deve profilare l’approccio ai tavoli della discussione propone questa ‘divisa’: «progressisti nei valori, riformisti nel metodo, radicali nei comportamenti».
Sul tema della relazione comunicativa
La coscienza della centralità dei processi digitali si accompagna a uno spirito critico circa lo sfondamento propagandistico in uso nella politica oggi. Ma sulla declinazione di un modello comunicativo adeguato si rimanda. Ponendo un obiettivo, sia pure espresso di passata: «La nostra identità per metà risponde a come ci vediamo noi. Ma per l’altra metà risponde a come ci vedono gli altri». Detto per segnalare che si parte da una cattiva immagine. Così come si parte da un sistema confuso alla fonte (anche qui una citazione, questa volta Pirandello) nel porre il problema di immaginare una organizzazione «fatta di volti e non di maschere» .
Sul tema della priorità europea
Il discorso qui si fa convinto e convincente. Sia per la forza della svolta europea con Next Generation UE, sia per la piena corrispondenza degli orientamenti del governo Draghi («che è il nostro Governo» mentre tocca a Salvini dimostrare «come e perché sia anche il suo governo»). E per il richiamo all’ottimismo di Delors e al convincimento di Prodi circa il fatto che ora «possiamo tornare a diventare protagonisti della nuova politica europea».
Conclusione
Enrico Letta si è detto sommerso da messaggi e raccomandazioni. E’ grande l’attesa attorno a un soggetto politico che dichiarando cambiamenti mette in atto una iniziativa interna ma anche una complessa iniziativa relazionale. Sarebbe ingeneroso aspettarsi subito risposte diffuse e argomentate circa le mille ragioni di quei messaggi e di quelle raccomandazioni. Da qui il coinvolgimento delle tre rappresentanze parlamentari e di tutta l’organizzazione partecipativa di base (lanciando le ‘agorà democratiche’).
Il nostro piccolo inventario segnala alcune risposte, alcuni spunti e alcune reticenze.
Resta l’idea che, nei limiti di un’occasione un po’ protocollare, Letta voleva dare di sé l’immagine di «un italiano che torna in patria dopo sette anni altrove» (anche qui qualche spintarella retorica) e quindi per questo deve essere considerato ‘una sorpresa’. Comprensibile -se non sviscerando le cose in un tempo e in un format in cui ciò non era dato- è il sorvolo su alcune asprezze interne (dimissioni di Zingaretti comprese) su cui non si è detto nulla. Letta in realtà ha dimostrato di esser in partita da anni. E’ stato un giovane politico di grande successo, ha perso la guida davanti a un rottamatore più smodato e spregiudicato, ha fatto poi scelte di qualità e vorrebbe che quella qualità pesasse in un momento così difficile e persino drammatico. Quel partito oggi glielo ha fatto credere. Ma dipenderà dalla fermezza con cui darà soluzione ad alcune reticenze se verrà davvero a capo di un professionismo in cui si annida anche una certa dose di opportunismo. Dunque, partita aperta. E, fatto per fatto, ‘l’anima e il cacciavite’ (temprati nell’esilio) potranno essere messi al servizio di quel fattore che, citando Andreatta, Enrico Letta ha detto di mettere in cima alla scala. La ‘verità’.