A Parigi sono arrivati i gilet gialli, a Roma fino a quando si può reggere in questa situazione, in queste condizioni?
Sideralmente lontani, i giorni di un trionfo all’apparenza inarrestabile: quando Emmanuel Jean-Michel Fréderic Macron, eletto Presidente della Repubblica, viene descritto come un nuovo Napoleone, capace di cambiare tutto, in Francia e in Europa; vittorioso reduce da Austerlitz, e ammiratori ovunque, felici di sentirsi dire -come il grande Corso: «Un giorno basterà dire: ero alla battaglia di Austerlitz, perché si risponda: ecco un valoroso». Ce lo ricordiamo tutti questo perfetto figlio dell’establishment (famiglia borghesissima dell’Alta Francia, laurea in filosofia, studi alla prestigiosa ENA, banchiere dei Rothschild che gli fa guadagnare milioni di euro); eppure sembra così ‘nuovo’, così ‘diverso’, così ‘alternativo’, così ‘altro’ dai leader tradizionali, dei tradizionali partiti…Lui, e il suo movimento creato dal nulla, quel En Marche che per i maliziosi ha le sue iniziali, il suo “stemma”, e, per i timidi critici di allora, qualcosa dovrebbe pur dire…
Ce la ricordiamo tutti l’impettita marcia, un sincrono perfetto in quella piazza dove accanto al Louvre svetta la piramide di vetro voluta da François Mitterrand, e progettata dallo stravagante architetto sino-americano Ieoh Ming Pei… Come ci si è esaltati un po’ tutti perché quella notte magica Macron rinuncia alla ‘Marsigliese’ e fa suonare il beethoveniano ‘Inno alla gioia’, adottato dall’Unione Europea…Sì: con i gesti, con la parola, Macron promette e annuncia che lui incarna, mente, motore, anima, cuore e cervello del cambiamento: a Parigi, in Francia, in Europa…
I primi giorni sono quelli di una presidenza scintillante. E’ una legge universale, quella scolpita con acida amarezza da Ennio Flaiano: «Si corre sempre in soccorso del vincitore».
Pochi, fanno caso a cifre che devono pur riflettere: al primo turno tanti francesi si astengono, più del 22 per cento dicono: voi candidati non ci interessate, siete tutti uguali. Macron si afferma con il 24 per cento dei votanti. La candidata di destra Marine Le Pen raccoglie il 21,30 per cento; il candidato gollista François Fillon segue con il 20 per cento; Jean-Luc Mélenchon di sinistra estrema lo tallona con il 19,58. No, al primo turno Macron vince, ma la somma di astenuti e avversari è di gran lunga alle adesioni raccolte.
Al secondo turno quasi il 26 per cento degli elettori si astiene; in sostanza, dice: Macron o Le Pen, per noi pari sono, no a entrambi. Dei votanti il 66 per cento dice Sì a Macron; quasi il 40 per cento opta per la Le Pen. Ma tanti voti per Macron non sono un ‘Sì’ al candidato di En Marche; alla Indro Montanelli si turano il naso, vogliono soprattutto scongiurare l’affermazione della Le Pen.
In breve: il successo di Macron, di fatto, si cementa sulle macerie del Partito Socialista e sulla inadeguatezza della destra gollista.
Poi ci sono le delusioni evidenti. Macron promette massicci licenziamenti nel settore pubblico; annuncia una massiccia riduzione delle tasse per le imprese e per i ceti meno abbienti; garantisce assunzioni per migliaia di giovani che ciondolano nelle banlieue attorno Parigi e le maggiori città francesi. Sul fronte della sicurezza promette più Polizia, maggiori finanziamenti alle agenzie di intelligence, il ritorno al poliziotto di quartiere… Tutte promesse che, a quattordici mesi dall’insediamento, sono ancora in buona parte sulla carta. Intanto, la mai sopita grandeur francese fa i conti con una crescita economica dello 0,2 per cento; con una disoccupazione dell’8,9 per cento; con una spesa pubblica in percentuale del PIL francese al 56,4 per cento, la più elevata d’Europa.
E’ in questo scenario che si è scatenata la rivolta dei ‘gilet gialli’. L’aumento del carburante è un ‘pretesto’, un detonatore che fa esplodere una santa barbara e su cui si innescano i ‘casseur’ provocatori di destra e sinistra estrema. Eventi prevedibili per chi ha occhi per vedere (e soprattutto da chi è pagato per averne); e, al tempo stesso imprevisti per durata, intensità e dimensione; e, in particolare, per gli elementi di novità che esprimono. Sono eventi che hanno un respiro nazionale, nati in modo spontaneo: non ci sono, a guidarli, organizzazioni politiche o sindacali; queste e quelle, semmai, seguono. Dentro c’è di tutto: non solo, come da sempre, studenti e operai; c’è anche ceto medio produttivo, ‘colletti bianchi’. Non è inquadrabile nella destra o nella sinistra classica, e neppure identificabile con le estreme di Le Pen o di Mélenchon, sono state quindi in grado di impadronirsene.
I dimostranti indossano ‘semplicemente’ il giubbotto giallo che gli automobilisti devono avere nella propria vettura: simbolo neutrale, da indossare in caso di emergenza, di per sé simbolo di solidarietà. Chapeau a chi l’ha ideato.
Da oltralpe, dunque, arrivano ‘lezioni’ e ‘messaggi’ che non valgono solo per Macron, e sui quali tutti i leader d’Europa, compresi i politici italiani, bene farebbero a riflettere. Piaccia o no, a Parigi si protesta e si manifesta (anche in modo criticabile e inaccettabile, certamente), contro l’eccessiva disparità dei redditi, contro i salari stagnanti; contro una politica fiscale percepita a torto o a ragione, solo a vantaggio dei ricchi; sono le ‘periferie’ e la provincia francese che al potere centrale dicono: «Ci siamo anche noi, anche noi contiamo»; e dicono basta al centralismo di un Governo che decide per tutti e su tutto. Un raffronto appare significativo: quando Macron adotta una riforma dei trasporti su ferrovia, la protesta è condivisa dal 40 per cento della popolazione; aumenta di dieci punti quando propone una riforma del mercato del lavoro; ora i ‘gilet gialli’ sono sostenuti dal 70 per cento della popolazione.
Macron, dopo Austerlitz, assapora l’amarezza di Waterloo. E’ un leader solitario, e questo proprio in virtù dei suoi precedenti successi. Non c’è più una forza di opposizione istituzionale che sappia e possa svolgere l’essenziale ruolo di mediazione tipica di una opposizione democratica; e i ‘gilet gialli’ non sanno (al momento neppure vogliono) coniugare con la protesta, la proposta. Così, inevitabilmente si va a sbattere.
E’ qui, l’essenza della ‘lezione’ francese: i rischi, i pericoli di ‘Governi’ dove il potere si concentra nelle mani di una sola persona, o di una ristretta oligarchia; i rischi e i pericoli insiti nella mancanza di pesi e contrappesi che, in quanto tali, garantiscono equilibrio e stabilità in ogni democrazia liberale. E’ il baratro che si apre quando spariscono i partiti politici, e i corpi intermedi che svolgono una essenziale funzione di mediazione tra centri decisionali, istituzioni, popolo e società. Quando mancano i corpi intermedi, quando mancano i partiti, quando -in una parola- manca la politica, si determinano lacerazioni gravi e dolorose; e medicarle richiede processi lunghi, pazienza, prudenza, audacia, fatica, capacità, fantasia.
Da questo punto di vista, Parigi non è molto lontana da Roma. Anche gli attuali inquilini di palazzo Chigi, al pari di Macron, dispongono di un credito straordinario, che velocemente stanno dilapidando; e prima o poi l’opinione pubblica presenterà il conto (in modi più pacifici, ci si augura).
Sono giorni di ‘conti’. Il Governo annuncia possibili ‘ritocchi’ alla manovra; non è escluso che si riesca a fare perfino peggio di quanto si è fatto. Fin da ora si può dire la manovra è uno straordinario cocktail di dilettantismo, incompetenza, ciarlataneria. Una brodaglia indigeribile a Bruxelles, e gli Stati membri dell’Unione, compatti, la respingono. Le pensioni nei prossimi anni saranno un rosso ben più consistente dei sette miliardi preventivati. Quanto al reddito di cittadinanza comporterà spese per 15 miliardi; all’appello ne mancano otto.
Il probabile compromesso con Bruxelles comporterà un carosello ipocrita di ipotesi degne delle fantasticherie del barone di Munchausen. Ne avremo un documento inattendibile, infarcito di promesse ingannevoli; in parole povere, tecnicamente, un clamoroso falso in bilancio. Si può rimpolpare quanto si vuole il catalogo degli insulti all’attuale presidente dell’INPS Tito Boeri, si può sommergere ogni trasmissione televisiva e ogni redazione con valanghe di tweet, selfie e messaggi ‘sociali’. Le cifre restano quelle che sono. La moltiplicazione dei pani e dei pesci che dicono esserci stata, comunque è accaduta una sola volta; qualcosa di simile al maestro Paganini: mai ripetuta.
Le innumerevoli e ripetute dimostrazioni di superficialità e incompetenza, giustamente inquietano e spaventano i mercati.
Surreale la sottosegretaria all’Economia Laura Castelli che afferma a “Porta a porta”, davanti a un incredulo Piercarlo Padoan, che la crescita dello spread non aumenta i tassi pagati dalle famiglie sui mutui lascia allibiti. E non si può che condividere l’espressione di sgomento del direttore de ‘Il Giornale’, Alessandro Sallusti, che durante la trasmissione ‘Otto e mezzo’ si copre il viso, mentre sempre Castelli sproloquia di tessere per il reddito di cittadinanza.
Imbarazzanti esibizioni di chi ricopre incarichi di Governo, e non sembra aver la minima cura, prima di intervenire, di prepararsi con l’aiuto di esperti, e studiare i dossier sui problemi che sono chiamati ad affrontare. La trasmissione ideata da Corrado almeno divertiva; ma questa rinnovata, quotidiana riedizione di ‘Dilettanti allo sbaraglio’ avvilisce e incupisce soltanto.
La situazione è ancora più grave mancando, come a Parigi con Macron, il giusto e istituzionale contrappeso.
Nel Partito Democratico accade qualcosa di non meno surreale. Si può cominciare da Matteo Renzi. E’ fuori da tutti i giochi, assicura; e tuttavia non rinuncia a metter becco su tutto, ogni momento. Sostiene di disinteressarsi dell’esito congressuale, lavorerà con lealtà con qualsiasi segretario verrà eletto. Peccato che ogni suo ‘fare’ corrisponda a una mina piazzata sul cammino di chi ricoprirà questo non facile incarico. In modo ineccepibile riassume quel grande e lucido ‘vecchio’ della sinistra italiana che è Emanuele Macaluso: «Accusa il PD di non essere aggressivo nei confronti di Matteo Salvini e dei Cinque Stelle interpretando la parte di una sinistra dura e pura; al tempo stesso lavora per costruire un suo movimento centrista che dialoga anche con esponenti di Forza Italia in difficoltà nel limbo berlusconiano e affatto lieti di mettersi al servizio di Salvini».
In effetti fedelissimi renziani come Ivan Scalfarotto, Sandro Gozi, Davide Faraone, lavorano per e con Renzi per costruire i renzianissimi ‘comitati civici’ che costituiscono le premesse del nuovo partito. Per ora li hanno battezzati: ‘Ritorno al futuro’, espressione che non si capisce bene cosa significhi, ma evidentemente si ritiene ‘suoni’ bene. Agitano sondaggi secondo i quali il Partito di Renzi potrebbe raggranellare un consenso pari al 12 per cento; e un 47 per cento di elettori del PD disposti a seguirli nella nuova avventura.
Altri renziani si costituiscono a sostegno di Maurizio Martina e Marco Minniti. Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, secondo quanto riferito da ‘Il Giornale’ ipotizza che «noi renziani potremmo continuare a presiedere il PD anche dopo le primarie mentre Renzi potrebbe correre inventandosi un’altra cosa».
Manovre chiare, nella loro essenza: paralizzare il PD, polverizzare le pur residue possibilità di recupero alle elezioni per il Parlamento Europeo; dimostrare che senza di lui (Renzi), c’è il diluvio. Un gioco al massacro degno di un politicante che interpreta la politica con miopia ed egoismo. In questo va riconosciuta una grande coerenza con il ‘fare’ del recentissimo passato. Nessuna frattura.
Come in Francia, anche in Italia, si coglie il movimento di una opposizione priva di guida politica; ad onta dei bollettini con sondaggi farlocchi, il Governo è cementato da calcoli di politica politicante: la ormai prossima, succulenta infornata di nomine in importanti luoghi di potere reale; la scadenza elettorale. Poi, è possibile che Salvini decida di smarcarsi e giocare da solo la partita, o al massimo aggregare Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, ma in posizioni di netta subordinazione.
Nel M5S si è aperta una faglia, può essere l’inizio di una lotta politica fratricida: Beppe Grillo è ormai una icona senza concreto peso. Davide Casaleggio amministra in modo quantomai malaccorto il lascito del padre Gianroberto. Luigi Di Maio ogni giorno di più rivela i suoi limiti e le sue carenze. I ‘dissidenti’ interni, si chiamino Alessandro di Battista o Roberto Fico sono fragili e politicamente inconsistenti. Nessuno coltiva la benché minima prospettiva strategica, e in quanto a tattica, si è impantanati in un paralizzante mar dei Sargassi.
La descrizione dell’esistente è questa, amara e inquietante; ma inutile nascondere la testa sotto la sabbia o foderarsi gli occhi con fette di prosciutto. La domanda da porsi è: fino a quando? Fino a quando si può reggere in questa situazione, in queste condizioni? Nessuno auspica le violenze delle frange estremiste dei ‘gilet gialli’. Ma gli sconsiderati imbecilli, non mancano mai, la loro madre non conosce gli anticoncezionali.