Giovedì 13 dicembre, in quella parte del mondo sprezzantemente definita Cisgiordania, ma nota e amata dai suoi abitanti col nome di Palestina, qualcuno ha sparato a due soldati israeliani in pattuglia, uccidendoli. La reazione israeliana è stata, al solito, violentissima e immediata: arresto dei presunti responsabili della sparatoria, distruzione immediata delle loro case, decisione di costruire altre case per israeliani in territorio palestinese. Sparare non è giusto, siamo d’accordo. Ma la domanda da farsi è che ci facevano, anzi, che ci fanno, i soldati israeliani in territorio palestinese? Perché e con quale legittimità internazionale si costruiscono intere città israeliane in territorio palestinese? sottraendolo al controllo (peraltro molto labile: gli israeliani hanno carri armati, e cacciabombradieri, i palestinesi al massimo qualche fucile o poco più); perché la risposta ad un attentato, che non vi sarebbe stato se i soldati israeliani se ne stessero in Israele, si risolve tra l’altro nella distruzione della abitazione della famiglia del presunto attentatore? quale ne è la logica in tema di rispetto dei diritti fondamentali?
Mi venivano in mente queste domande, perché in contemporanea un nostro brillane Ministro, era in Israele a congratularsi con gli israeliani per la bellezza del loro Stato, l’ordine assoluto e quant’altro, e a condannare come terroristi gli Hezbollah, che vivono in Libano (che non appartiene ad Israele) e che sono ostili ad Israele, anche perché ne rivendicano una parte di territorio. Tanto più che il predetto brillante Ministro, esprimeva il suo sostanziale favore al trasferimento della ambasciata italiana in Israele da Tel Aviv, capitale di Israele, a Gerusalemme, città occupata illegittimamente da Israele e da essa tenuta illegittimamente come capitale, misconosciuta, giustamente, dalla gran parte del mondo, salvo l’anno scorso, dagli USA di Trump, come vediamo fra un momento.
Non voglio entrare nel merito di una questione complessa non di moda (sulla quale, però, sarebbe bello che si aprisse un dibattito) il che permette che vi accada di tutto senza che alcuno ne parli (l’altra sera, ad onore del vero e a suo merito, ne ha parlato Mentana, sia pure dimenticando di dire che la pattuglia israeliana era in territorio illecitamente occupato), anche perché passerei subito a dir poco per antisemita se non peggio, cosa che, peraltro, accadrà comunque, ma scrivo solo per segnalare al brillante Ministro quanto di seguito, anche perché l’Italia dovrà prendere una posizione in materia, data la posizione internazionale dell’Italia (almeno finora!) favorevole alla costituzione dello Stato di Palestina.
Con un documento presentato in data 28 Settembre 2018, lo Stato di Palestina ‘cita’ in giudizio gli Stati Uniti d’America, per avere installato la propria ambasciata presso lo Stato di Israele a Gerusalemme, invece che a Tel Aviv.
Questo è un ulteriore elemento di tensione in una zona del mondo dove la tensione è già spasmodica, ma, almeno, ha il pregio di utilizzare le armi del diritto, piuttosto che quelle della violenza.
Come molti ricorderanno, quel trasferimento esprime un cambiamento radicale della tradizionale politica americana, molto legata ad Israele, ma, anche, sempre ambigua sulla soluzione del conflitto che ormai dura da oltre 75 anni(!).
La cosa è in sé, estremamente significativa e merita una breve spiegazione. Anche perché, e innanzitutto, questa richiesta di giudizio della Corte internazionale di Giustizia utilizza la giurisdizione contenziosa della Corte. La Corte internazionale di Giustizia, infatti, ha due possibilità di esercitare le sue funzioni: una contenziosa, cioè destinata a risolvere controversie tra gli Stati, e una consultiva, cioè destinata a dare pareri non agli Stati ma agli organi delle Nazioni Unite, come l’Assemblea Generale.
La giurisdizione contenziosa, trattandosi di giudizi su controversie tra Stati sovrani, presuppone che gli Stati accettino la giurisdizione della Corte, dato che nessuno Stato o organismo, legittimamente, può imporgli qualcosa se non è d’accordo. E infatti, gli Stati membri della Corte internazionale di Giustizia, possono, se lo ritengono, sottoscrivere una clausola con la quale dichiarano preventivamente di accettare di subire un giudizio da parte della Corte.
Nel caso di specie, però, la Palestina che non è membro dello Statuto della Corte, ha depositato alla stessa una dichiarazione con la quale ne accetta la competenza con riferimento sulla base del Trattato di Vienna sulle relazioni diplomatiche e consolari, del quale sono parte anche gli usa. Insomma, da un punto di vista tecnico, la Corte può giudicare il caso e gli Stati Uniti non sembra che possano, allo stato dei fatti, sottrarsi alla giurisdizione della Corte. Già in passato, lo dico solo per completezza di informazione, gli Stati Uniti cercarono di sottrarsi alla giurisdizione della Corte, nella controversia con il Nicaragua, ma la Corte proseguì il giudizio, dichiarando gli usa contumace!
Non è la prima volta che preso la Corte si parla di Palestina. Infatti, a Luglio del 2004, la Corte emise un importante parere consultivo, richiesto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sulla legittimità della costruzione del muro che separa, su iniziativa israeliana, i territori di Israele (o meglio, i territori che Israele in parte illegittimamente considera suoi) e quelli destinati al futuro Stato di Palestina, che Israele fino ad oggi non ha mai permesso che si potesse formare, in contravvenzione a moltissime risoluzioni sia dell’Assemblea Generale (a partire dalla più famosa, la n. 181 del 1947) che del Consiglio di Sicurezza, e in particolare la n. 242 del 1967, in cui si ordinava ad Israele di ritirarsi dai territori occupati con la cosiddetta guerra dei 6 giorni del 1967.
Il parere è di enorme importanza perché non solo afferma senza mezzi termini l’illegittimità del muro (che è un vero e proprio muro di segregazione, che spesso attraversa letteralmente dei villaggi e delle città come Betlemme) ma, nel farlo, ribadisce con estrema chiarezza, sia che la Palestina ha diritto ad esistere come Stato in base alle decisioni della Comunità internazionale assunte a partire dalla citata risoluzione 181, sia che la Palestina ha, a maggior ragione, diritto ad esistere a seguito del trattato internazionale stipulato nel 1991 ad Oslo tra Yasser Arafat, a nome della Palestina appunto, e Yitzhak Rabin, Primo Ministro di Israele. Israele, peraltro, dopo l’assassinio di Rabin (ad opera di un israeliano esaltato, ma in realtà quasi certamente ad opera dei servizi segreti israeliani … si dice Sharon, a sua volta probabile autore dell’uccisione anche di Arafat) non ha mai riconosciuto quell’accordo, sostenendo che non era tale non era un vero e proprio trattato internazionale, dato che la Palestina non era uno Stato, ma ne utilizza alcune disposizioni per giustificare la propria presenza sul territorio.
Il parere consultivo della Corte è, però, di enorme importanza, anche perché afferma in maniera inequivocabile che la Palestina ha diritto ad esistere come Stato in ragione del principio di autodeterminazione dei popoli al quale Israele non ha diritto di opporsi. Invero, a mio parere, la Palestina, già da molto prima del Parere consultivo del 2004, è un soggetto di diritto internazionale, in quanto titolare della garanzia alla autodeterminazione, riconosciuta comunemente come uno dei principi fondamentali del diritto internazionale.
Comunque, grazie anche a quella sentenza, sia pure solo consultiva, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 2012, con una risoluzione per certi versi rivoluzionaria e comunque unica, ammise la Palestina alle Nazioni Unite con lo statuto particolare di ‘Stato non membro’, dove la cosa importante è il fatto che alla Palestina viene riconosciuto la natura di ‘Stato’ osservatore permanente, come l’unico altro, e cioè la Santa Sede.
L’ottenimento della qualifica di ‘Stato’, o più precisamente il fatto che nelle Nazioni Unite si parli esplicitamente della Palestina come di uno Stato, ha permesso alla Palestina di accedere ad altre organizzazioni internazionali nelle quali, come spesso accade, la partecipazione è limitata agli Stati in senso formale. In particolare la Palestina ha potuto accedere allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, dove ha già iniziato una serie di procedimenti contro Israele, e indirettamente a quello, rilevante per quanto sto dicendo qui, della Corte internazionale di Giustizia.
Ora, la Corte dovrà innanzitutto valutare se ha giurisdizione sul caso, anche se, direi, che non dovrebbero esservi dubbi, se non altro perché l’articolo 1 dell’annesso alla Convenzione internazionale sulle relazioni diplomatiche prevede esplicitamente che le controversie in materia sono obbligatoriamente sottoposte al giudizio della Corte.
Il tema, anche nel merito, è di grande interesse.
Il diritto internazionale, infatti, fa espresso e chiarissimo divieto di considerare valide le acquisizioni territoriali illegittime. Cioè, se uno Stato, ad esempio, occupa un territorio illegittimamente e poi chiede ad altri Stati, che so, di considerare i prodotti coltivati su quel territorio come prodotti provenienti dallo Stato occupante (ad esempio a fini fiscali), il diritto internazionale fa divieto agli altri Stati di accettare questa pretesa. Anzi, per essere precisi, stabilisce che quella eventuale pretesa è nulla, è come se non ci fosse. È già accaduto, e vale la pena di sottolinearlo, qualche anno fa che si applicasse questo principio proprio ad Israele (e quindi alla Palestina) ad opera della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiamata a giudicare sulla possibilità di praticare delle agevolazioni doganali a prodotti provenienti ufficialmente da Israele, ma in realtà provenienti dalla Palestina. E la Corte, nel giudicare quelle agevolazioni inapplicabili, affermò fermamente che i territori palestinesi sono parte del (futuro) Stato di Palestina e quindi non possono essere sfruttati da altri Stati,
Con la risoluzione 181 della Assemblea Generale di cui ho accennavo sopra, tra le altre cose si decise (sebbene la decisione tecnicamente non sarebbe vincolante!) che i due costituendi Stati (Israele e Palestina) avrebbero lasciato Gerusalemme come città libera non parte, cioè, di nessuno dei due Stati.
Con la guerra del 1967, Israele occupò Gerusalemme e, dopo qualche anno, la annesse, violando le norme di diritto internazionale che fanno esplicito divieto di annettere i territori occupati durante una guerra, fin tanto almeno che non si arrivi ad un trattato di pace. Quindi, come ho spiegato prima, non si può tenere conto di quella annessione come se fosse legittima.
Le ambasciate sono istituite ovviamente sul territorio dello Stato con il quale si vogliono intrattenere relazioni diplomatiche. E infatti, praticamente nessuno Stato (fortunatamente, Italia inclusa) ha le ambasciate a Gerusalemme, e di recente alcuni Stati che vi avevano le ambasciate le hanno spostate a Tel Aviv, la capitale ufficiale di Israele, riconosciuta dalla Comunità internazionale.
La decisione USA di trasferire la propria ambasciata a Gerusalemme, viola perciò il diritto internazionale. In realtà, la cosa in sé non sarebbe un gran problema, se non potesse quell’atto avere una conseguenza inaccettabile per i palestinesi: l’ammissione che Gerusalemme appartiene a Israele e che ne è la capitale. Mentre la Palestina ha sempre considerato e considera Gerusalemme la capitale, sperata, della Palestina e per di più ‘città santa’ per i palestinesi mussulmani, come anche per le altre religioni, ebraica inclusa. Logica vorrebbe che Gerusalemme fosse la capitale di entrambi gli Stati.
Sarà, dunque, interessante vedere come si regolerà la Corte, nella speranza che la soluzione pacifica della sentenza possa aiutare a perseguire una soluzione pacifica della intera questione.
È poco più di una speranza, perché la estrema complessità della questione e la violenza di essa non trova per ora soluzioni né facili né pacifiche. Sarebbe bello, ma è inutile dirlo con questo Governo, che l’Italia rendesse nota la propria posizione favorevole alla richiesta palestinese, oltre a sciogliere definitivamente la assurda vicenda del riconoscimento dello Stato di Palestina. Non si tratta, sia chiaro, soltanto di una questione di principio o etica, ma, almeno anche di una questione di interesse economico e politico, utile tra l’altro a permettere relazioni più ‘distese’ con le popolazioni arabe e mussulmane. Ma, certo, se il nostro Governo si esprime come Matteo Salvini, non aumentiamo il numero dei nostri amici da quelle parti.