C’è stato un leggero declino, nel 2015, nella produzione di papaveri da oppio. Un piccolo intoppo in uno dei mercati più floridi al mondo, che per quest’anno è destinato, stando alle stime, a continuare nella sua crescita. Un rapporto dettagliato lo fornisce, ogni anno, l’Unodc, l’Ufficio dell’Onu sul controllo della droga e prevenzione del crimine. Nel suo report 2016, le stime di questo mercato sono mostruose, anche considerando i tentativi della Repubblica Islamica Afgana e delle Nazioni Unite nell’ostacolare uno dei business che maggiormente foraggiano i gruppi terroristici dell’Afghanistan.
Il Paese asiatico è il responsabile dell’85 per cento di tutta la produzione d’oppio mondiale, e del 77 per cento dell’eroina, droga ricavata dall’oppio stesso. Nel 2014, le superfici coltivate ad oppio coprivano un’estensione di 224 mila ettari, facendo registrare una crescita del 7 per cento rispetto l’anno precedente. Come si diceva prima, il 2015 è stato l’anno in cui si è verificato un consistente calo nella produzione, arrivando a toccare decrementi del 19 per cento, che si traducono in 183 mila ettari di terreno coltivato a papavero, ed una riduzione nella produzione di oppio, passata da 6400 a 3300 tonnellate. Tuttavia, come mette in luce il report, nonostante il calo nella produzione, il 2015 si piazza al quarto posto nella classifica degli anni a maggior produzione, considerando i dati a partire dal 1994, ovvero dall’inizio delle stime Onu.
La produzione dell’oppio si concentra, oggi, nelle regioni a sud e ovest del Paese. La provincia che più di tutte accoglie campi di papaveri è l’Helmand, una di quelle sotto il controllo dei talebani, arrivando a 86.443 ettari, seguita da Farah (21,106) e Kandahar (21,020). Queste regioni hanno conosciuto, negli ultimi tempi, un lieve decremento nella produzione, a vantaggio però di significativi aumenti in altre aree del Paese, come quella centrale, che ha registrato una crescita del 38 per cento, e le regioni settentrionali, addirittura con aumenti del 154 per cento. Questi dati suggeriscono anche quali possano essere state le motivazioni del sostanzioso calo registratosi nel 2015. Non certo dovuto all’azione degli organismi internazionali, quanto a dinamiche prettamente agricole. Il rapporto Onu, seppur non dando certezze, considera determinanti fattori come la sovrapproduzione degli anni passati, così come lo stress cui sono andati incontro i terreni dopo anni di elevati raccolti.
Come si sa, l’oppio non rappresenta solo un problema legato alla salute e produzione di droga, ma determina considerevolmente la capacità dei gruppi armati locali di sostenere le proprie guerre ed avere disponibilità di fondi pressoché illimitata. Stiamo parlando di un mercato in grado di rifornire di oppio, morfina ed eroina gran parte del mondo, inclusi i mercati di Europa e Nord America. Del resto, i territori in cui è più florida questa coltivazione sono proprio quelli a forte instabilità politica e con gravi problemi di sicurezza, ovvero quelli in gran parte controllati dalle forze di insorti afgani. Secondo le stime Onu, è proprio in questi villaggi che si concentra l’80 per cento della produzione di oppio afgano, mentre si registra appena il 7 per cento sui territori lontani dagli scontri armati.
La storia dell’oppio afgano prende le basi dall’invasione sovietica del 1979. La situazione di guerra nel Paese portò molti contadini a coltivare oppio nei loro campi, una produzione che rendeva allora intorno ai 50 dollari a libra (450 grammi), molto più di qualsiasi altra coltivazione locale. Grandi trafficanti di droga e proprietari terrieri iniziarono a fiutare l’affare, e reclutarono i mujahideen a difesa delle proprie coltivazioni. Gli stessi mujahideen iniziarono a considerare la vendita d’oppio come lo strumento che avrebbe potuto finanziare le proprie battaglie e fornire quell’autonomia economica che gli aiuti sporadici della CIA e dell’Intelligence pakistana non garantivano.
Così, alcuni combattenti iniziarono a creare il loro impero dell’oppio, sfruttando masse di contadini e sviluppando un florido commercio verso ovest e ai confini con il Pakistan. Grande importanza, in questo quadro, ebbe l’esercito pakistano, che fonti della polizia europea riportano avesse il controllo del 70 per cento del traffico d’oppio dall’Afghanistan nel 1984, mentre riforniva i combattenti di armi e vario materiale. Ma anche la CIA, come venuto fuori dallo scandalo relativo alla Bank of Commerce and Credit International e dalle testimonianze di ex agenti, favorì il mercato di oppio afgano per supportare le truppe mujahideen in chiave anti sovietica.
Questo sistema criminale, avviatosi all’indomani dell’invasione russa, è rimasto pressoché immutato fino ad oggi, con tuttavia degli importanti aggiornamenti, messi in atto da combattenti e miliziani per far fruttare ancora di più il già profittevole business della droga. Gli interventi più importanti sono quelli relativi lo sviluppo di laboratori e raffinerie (oggi i talebani ne controllano 190) per allargare il proprio business non solo alla produzione di papaveri, ma anche alla raffinazione dei prodotti finiti, come l’eroina. Oggi, i talebani tassano ogni gradino della catena dell’oppio, dalla produzione agricola ai piccoli negozi locali, seguendo un modello che richiama il pizzo mafioso. Altre consistenti entrate sono garantite, poi, dalla protezione armata offerta dai talebani ai campi d’oppio, così come alla gestione delle tratte del commercio.
Il giro d’affari è enorme. Nel 2008, l’Unodc ha calcolato i guadagni direttamente in tasca ai talebani derivanti dal traffico d’oppio. Il 98 per cento delle 7700 tonnellate d’oppio ha fruttato 50 milioni di dollari, a cui si aggiungono altri 125 milioni di dollari dalla vendita di eroina e morfina.
L’escalation nella produzione di oppio ed il suo ruolo sempre più centrale nel foraggiamento dei gruppi talebani, portò l’Onu ad occuparsi attivamente del problema. Una delle prime e più significative iniziative per provare a fermarne il traffico ci fu nel 2000, uno dei primi casi che esplicita come quello della coltivazione d’oppio non sia un problema facile da eradicare. Facendo leva sulle sanzioni e sulla necessità del potere talebano di acquisire riconoscimento internazionale, le Nazioni Unite portarono il Mullah Omar a imporre il veto totale sulla coltivazione d’oppio in Afghanistan. Nella primavera successiva i risultati furono clamorosi, con un totale di soli 8000 ettari coltivati a fronte degli 82 mila dell’anno precedente. Quello che sembrò un grande successo, si trasformò, tuttavia, in ben altro. Il divieto portò sul lastrico migliaia di agricoltori, che si trovarono estremamente indebitati e senza possibilità di pagare i proprietari terrieri.
Inoltre, la rifornitura di droga nei mercati occidentali rimase stabile, pur con prodotti meno puri. I talebani e i signori della droga avevano verosimilmente riempito i propri magazzini in vista del divieto nazionale, riuscendo comunque ad avere abbastanza merce da vendere all’estero. Inoltre, le autorità di polizia internazionale non rilevarono alcuna volontà del potere talebano nel colpire i trafficanti e i depositi d’oppio nel Paese. Con la riduzione della quantità coltivata, il prezzo dell’eroina e degli oppiacei salì vertiginosamente, non determinando alcun decremento nel fatturato ottenuto dai trafficanti. Come ultima cosa, dopo appena un anno, la coltivazione di papavero riprese floridamente, ritornando ai valori precedenti il bando, fino ad un totale di 72 mila ettari.
Dopo anni di guerra americana in Afghanistan, il problema dell’oppio rimane irrisolto. Le stime delle Nazioni Unite per il 2017 prevedono un’ulteriore crescita nella produzione del papavero, dopo il già registrato incremento del 10 per cento delle coltivazioni, pari a 201 mila ettari di terreno, nel 2016, e del 43 per cento della produzione, arrivata a 4800 tonnellate d’oppio.
Da questi dati è evidente come l’intervento americano non abbia minimamente intaccato la produzione d’oppio in Afghanistan, anzi. Come registra la storia del Paese, sono i periodi di guerra quelli in cui la produzione d’oppio è stata più florida. Gli Usa ci hanno messo tempo per considerare prioritaria la guerra all’oppio con la visione di intaccare le basi economiche del terrorismo. La focalizzazione sulle cellule di al-Qaeda e cercare di sradicare con le bombe il potere talebano ha avuto, fino ad oggi, il solo merito di miniaturizzare le cellule del potere locale, senza tuttavia minarne, nella sostanza, gli affari e l’influenza sul territorio.
Il Sigar, ispettorato speciale per la ricostruzione in Afghanistan, ha rivelato come siano stati spesi, dal 2002 ad oggi, otto miliardi e mezzo di dollari per progetti di eradicazione delle coltivazioni di oppio. I risultati, tuttavia, riportano solo una diminuzione di 355 ettari di terreno, cifra risibile rispetto l’impegno speso. Questo anche per colpa della corruzione derivante proprio dall’oppio di ufficiali e governanti locali, incalzati nel boicottare i progetti americani. Difficile anche coinvolgere i contadini stessi ad abbandonare dei raccolti che riescono a fruttare circa 400 volte più delle colture tradizionali, come quella dei fagioli, ad esempio. Chi coltiva oppio, inoltre, non si deve preoccupare di altro, dal momento che il trasporto e stoccaggio sono sotto la competenza dei gruppi armati locali.
Oggi, l’approccio degli Stati Uniti nella guerra ai gruppi armati afgani, nonostante tutto, non sembra destinato a cambiare, anche sotto il riveduto programma di Trump. Come sottolinea, a conclusione, il report Onu, la vera rivoluzione nella guerra ai talebani e all’oppio non può avvenire solo sotto l’aspetto militare, ma deve inglobare strategie in primo luogo regionali, in grado di offrire stabilità politica e alternative economiche alla popolazione, portando parallelamente avanti programmi diplomatici per rendere ininfluente il potere armato insurrezionalista. In definitiva, l’unico futuro per l’Afghanistan si può avere costruendo un nuovo sistema che dia garanzie economiche e sociali ai propri cittadini, invece di continuare in operazioni armate, volte a distruggere i frammentari poteri alternativi.