La settantaduesima sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU è ormai alle porte. New York pullula di controlli ed è prontissima ad accogliere i rappresentanti dei 193 Stati. Tra le emergenze da affrontare, la lotta al terrorismo, la situazione umanitaria in Myanmar, il cambiamento climatico e la questione migratoria; probabile, però, che non si giunga ad un accordo unanime. I punti critici da affrontare, insomma, non saranno pochi, ma uno sembra scottare più di tutti: la minaccia nordcoreana. Pochi giorni fa, le nuove sanzioni del Consiglio di Sicurezza, per la nona volta dall’inizio del programma missilistico di Pyongyang dopo l’ultimo test del 3 Settembre scorso.
Tutti i riflettori sono puntati sul Palazzo di Vetro, ma, soprattutto, in direzione di Donald Trump. Il neo Presidente degli Stati Uniti è al suo debutto dinanzi all’Assemblea e attorno al suo ‘speech’ aleggia un velo di timore e tanta curiosità. Di qualche ora fa, l’ultimo tweet in cui Trump, parlando del leader nordcoreano, lo definisce «Rocket Man», uomo razzo. Trump parlerà martedì mattina (ora locale) e nonostante Kim Jong–un non sarà presente, i diplomatici della Corea del Nord godranno del posto d’onore, esattamente dinanzi al ‘nemico’ americano.
A noi, non resta che attendere. In attesa dell’apertura dell’Assemblea nelle prossime ore, abbiamo parlato di questo evento con Luca Marfé, giornalista professionista a New York, contributor tra gli altri per ‘Repubblica‘, ‘Vanity Fair‘, il ‘Mattino di Napoli‘, ma anche fotografo e video produttore.
Oggi l’atteso inizio della Assemblea Generale delle Nazioni Unite; quest’anno, sarà presente per la terza volta. Quali saranno i punti chiave toccati? Come li inquadrerebbe?
La 72esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite sarà incentrata, come del resto è sempre stato storicamente, su una moltitudine di temi. Per ragioni più o meno evidenti, al centro dell’agenda di quest’anno ci sono la riforma dell’Onu, il cambiamento climatico e, naturalmente, la Corea del Nord. Il primo punto è fondamentale: il nuovo segretario generale, il portoghese António Guterres, ancor prima di assumere il suo incarico aveva indicato un cambio di passo come la grande necessità per l’organizzazione che è stato chiamato a guidare. Il mondo corre veloce, diviene ogni giorno un po’ più complesso e non ci si può limitare a scaricare ogni colpa sul ‘Trump’ di turno. Le Nazioni Unite devono essere necessariamente più agili, più snelle. A settant’anni dalla loro nascita, è tempo che la burocrazia lasci definitivamente il posto alla concretezza. Ci sono missioni di pace che giacciono da decenni e che faticano a muoversi per via di veri e propri cavilli. O, peggio ancora, perché attorno ad un certo tergiversare si ramificano subdoli interessi interni. Una sfida articolata, ma centrale per evitare che il Palazzo di Vetro possa essere percepito come una sorta di club inutile ed autoreferenziale riservato alla crema e all’autocompiacimento della diplomazia mondiale. Ripeto, siamo in una fase di grande velocità della Storia. Il secondo e il terzo punto, invece, sono accomunati dalla rilevanza, ma, allo stesso tempo, divisi nella prospettiva: il cambiamento climatico è un’emergenza che va inquadrata in un’ottica di medio-lungo periodo; il dossier nordcoreano, invece, è un dramma potenzialmente imminente.
Proprio la questione nordcoreana è in cima alla lista dell’Assemblea Generale: cosa c’è all’orizzonte?
L’orizzonte è oggettivamente cupo. Le sanzioni approvate fino ad ora non hanno sortito gli effetti sperati. O forse, addirittura, non hanno sortito alcun effetto se non quello di irritare e spaventare Kim Jong-un che si dimostra, contrariamente a quanto auspicassero i grandi della Terra, ogni giorno un po’ più aggressivo. La situazione, insomma, è paradossalmente peggiorata. Pare che gli statunitensi, come ultimo passo prima di ricorrere alle opzioni militari che hanno già menzionato in più di una sede e in più di un’occasione, puntino ad un compatto embargo petrolifero che metta Pyongyang e dintorni definitivamente in ginocchio. Il punto è che, soprattutto con l’inverno alle porte, privare l’intero Paese di risorse energetiche rischierebbe di scatenare una vera e propria emergenza nell’emergenza: quella di natura umanitaria. È sufficiente pensare al soltanto apparentemente banale tema del riscaldamento negli ospedali o nelle abitazioni. Si tratta dunque di un ultimo stadio di sanzioni che, tuttavia, sono di fatto inapplicabili. Il Consiglio di Sicurezza, nella sua necessaria unanimità, non le voterà mai. Un filo oltre la linea di confine di questo ragionamento c’è il conflitto. L’unica vera speranza giace in mani cinesi. Il Governo di Pechino è il solo in grado di risolvere questa faccenda dinanzi alla quale persino Trump, per quanto arrembante nei toni, si sforza di essere prudente. La Corea del Nord non ha nessuna chance di fronteggiare i rivali statunitensi. Ma nel delirio di onnipotenza di Kim potrebbe comunque fare grossi danni, al di là dei timori legati al nucleare, con delle ‘semplici’ armi convenzionali già puntate su Seul e perfettamente in grado di scatenare un inferno tra i civili.
Attesissima la prima volta di Donald Trump. Lei lo ha seguito sin dai primi appuntamenti dell’estenuante campagna elettorale. Poi la nomination, i dibattiti televisivi che lo hanno contrapposto ad Hillary Clinton, la notte dell’8 novembre scorso, fino all’Inauguration Day e ad oggi. Il tycoon è pronto ad intervenire personalmente tra le mura del Palazzo di Vetro: come immagina questo esordio?
Nelle occasioni più istituzionali, Trump tende ad attenersi ad un copione formale e rispettoso di certe platee e di certe atmosfere. Immagino che il suo intervento tenderà a non discostarsi da questa linea. Ancor più interessante dell’appuntamento in Assemblea Generale, dove ripeto, non avrà troppa libertà di movimento, sarà l’incontro di alto livello con Emmanuel Macron sul clima. Il presidente francese, chiamato ovviamente a rappresentare il Paese che ha ospitato la firma degli accordi al centro del confronto/scontro, farà in modo di tenere dentro gli Usa, magari concedendo al suo omologo statunitense il fianco di una rinegoziazione, proprio come auspicato a più riprese dallo stesso tycoon. Gli Stati Uniti non hanno nessun interesse a danneggiare il clima e restano tra i Paesi più ‘green’ del mondo. Trump, a modo suo e con numerose sbavature, si è fatto soltanto portavoce di un dissenso che ha letto nel Protocollo di Kyoto prima (non a caso mai firmato) e nel Trattato di Parigi poi, una sorta di ‘fregatura’ articolata in maniera tale da ledere gli interessi propri e del Primo Mondo in generale, favorendo viceversa, con l’intento di coinvolgerli, quelli in via di sviluppo. Né Trump né i volti della sua amministrazione torneranno indietro nel senso di accettare certi squilibri. Che piaccia o no, non c’è stato e non ci sarà nessun pentimento, nessuna marcia indietro. Saranno semmai gli altri a convergere sulle ragioni della nuova Casa Bianca.
Un altro argomento chiave è il Venezuela di Maduro, che, peraltro, sarà assente: cosa si prospetta?
Ho vissuto a Caracas per 4 lunghi anni e con il dramma venezuelano mi ci sono ritrovato occhi negli occhi. Quando il presidente di uno dei Paesi più ricchi del mondo in termini di risorse naturali invita i propri connazionali ad allevare conigli in casa per garantirsi la sopravvivenza, francamente direi che continuare a sostenere Maduro per strampalate ragioni ideologiche, puntualmente ricamate attorno alla retorica anti-americana, sia un atteggiamento inutilmente ostinato, se non addirittura complice o criminale. E attenzione a non cadere nella trappola architettata di recente da alcuni presunti furbi della politica internazionale: far gravare sul presidente in carica tutte le responsabilità e tutte le colpe dell’attuale situazione, senza andare ad intaccare la memoria storica dell’icona Chávez. È lui il vero grande artefice del disastro che, occultato troppo a lungo, è finalmente sotto gli occhi del mondo intero. Maduro non ci sarà perché, al di là di una narrativa vuota ed insapore, non avrebbe saputo cosa portare tra le mura del Palazzo di Vetro. Se non i cocci del suo fallimento.
Com’è la vita di un giornalista a New York?
Vivere a New York non è semplice, ma è quanto di più stimolante si possa immaginare. Nel nostro mestiere la concorrenza è folle ed il livello medio dei colleghi, italiani e stranieri, è altissimo. Una ragione in più per fare bene, per dare il massimo. Gli americani parlerebbero di ‘Big League’, ma per un lettore nostro la descriverei più che altro come una sorta di ‘Champions’. Sì, a New York si gioca con e contro i migliori, proprio come fosse una Champions League della vita.