Che l’undicesima edizione dei giochi Olimpici invernali si potesse tenere in Giappone era, tutto sommato, preventivabile. Non era la prima volta che il paese del Sol Levante proponeva la sua candidatura (vinta oltretutto nel 1940, per un’edizione mai disputata a causa della II guerra mondiale), ed il successo delle Olimpiadi Estive di Tokio 1964 era fresco nella memoria dei membri del CIO quando, nel 1966, il congresso del Comitato Olimpico doveva prendere la decisione.
Ciò che sorprese fu il fatto che tutto si risolse subito alla prima votazione, e che la località era Sapporo, 30 metri di altezza sul livello del mare, posto quantomeno curioso per ospitare i primi Giochi Olimpici Invernali al di fuori del duopolio Europa – Stati Uniti. Ma Avery Brundage, presidente del CIO, che aveva ormai superato gli 80 anni, era ormai convinto di potere tutto e, dimenticandosi del flop che solo 12 anni prima era stata l’Olimpiade di Squaw Valley, spinse fortemente per questa località. C’entra forse qualcosa il fatto che il maggior sponsor della candidatura della cittadina di Hokkaido era Kogoro Uemura, un imprenditore della birra più famosa del Giappone, in cui si diceva che anche Brundage avesse affari.
Uemura ottenne ingenti finanziamenti per questi giochi. Finanziamenti che compresero, oltre alla creazione di un villaggio olimpico di 2300 posti, anche la costruzione di un aeroporto internazionale. Per raggiungere le vette dalla quali lanciarsi per le gare di sci alpino, fa costruire una torre apposta. Nulla si poté fare, ovviamente, per la qualità della neve, molle e salata per l’eccessiva vicinanza dal mare.
Ovviamente, la partecipazione ne risente: 35 nazioni e 1.009 atleti, meno dell’edizione di Grenoble. Non solo per l’eccessiva spesa della trasferta giapponese, ma anche per l’eterna diatriba tra dilettantismo e professionismo. Brundage, molto lasco su tale distinzione per quanto riguardava gli atleti del blocco Sovietico, dilettanti solo di nome, era invece molto rigido sugli sciatori, tanto da non accettare 40 atleti di varie nazionalità accusati, per sponsorizzazioni varie, di “professionismo”. Tra questi, l’austriaco Schranz, che dopo il danno subito nella gara di slalom speciale di Grenoble da Killy, aveva adesso anche la beffa di non poter partecipare per aver prestato il suo volto alla pubblicità di una marca di caffè. Ormai la distinzione tra dilettanti e professionisti era molto lasca, persino uno sport nobile come il tennis si era arreso all’evidenza, ma Brundage no. Per lui, che sarà costretto a lasciare proprio in quel 1972 a causa del blitz terroristico durante le olimpiadi Estive a Monaco di Baviera, era importante “non fare pubblicità”. Mah! Di certo, oltre agli sciatori accusati di professionismo, persino la nazionale canadese di Hockey non parteciperà in segno di protesta, lasciando così campo libero all’URSS.
E l’Unione Sovietica non ebbe campo libero solo nell’Hockey: in quei giochi, che durarono 12 giorni, dal 3 al 13 febbraio del 1972, i sovietici la faranno da padrone, con 8 medaglie d’oro, doppiando Svizzera, Olanda, e Tedeschi dell’Est, tutti fermi a 4 medaglie.
Fu in particolar modo lo sci di fondo ad essere interamente sovietico, con 5 medaglie su sette conquistate, ed un’atleta sugli scudi: Galina Kulakova, che a quasi 30 anni vinse tutte e tre le gare femminili: 5 Km, 10 Km e staffetta. Vincerà anche 4 anni dopo, ma con l’ombra del doping – come vedremo – che comincerà ad aleggiare su queste super atlete.
Furono però due atleti provenienti da nazioni non famose per gli sport invernali a caratterizzare questa edizione dei Giochi Olimpici: l’olandese Ard Schenk e lo spagnolo Francisco Fernandez Ochoa.
L’orange Ard Schenk, che in patria è considerato uno dei più grandi atleti della storia olandese, vince tre ori su 4 nel pattinaggio di velocità, fallendo il quarto (quello “breve” dei 500 metri) solo per una caduta. Ha dominato la scena del pattinaggio di velocità per anni, essendo il primo a fare I 10.000 metri in meno di 15 minuti, ed il primo a terminare I 1.500 metri in meno di due. Diciotto record del mondo battuti in carriera, record tuttora ineguagliato.
Lo spagnolo Ochoa, invece, era uno dei tanti carneadi dello sci alpino. In coppa del mondo, non era mai andato oltre il settimo posto in slalom speciale. A Sapporo, indovina le due manches della vita, prima relegando il superfavorito italiano Gustav Thoeni a un secondo e 33 centesimi, e poi resistendo al ritorno dell’azzurro – argento alla fine – nella seconda manche. Vincerà, molto a sorpresa, l’oro di specialità. In quella gara arriverà terzo Roland Thoeni, cugino di Gustav ed anche lui autore di un’impresa che non si è più ripetuta. Del resto, di “casi unici” ce ne furono parecchi in quella Olimpiade: nel trampolino lungo, il polacco Wojciech Fortuna effettua un primo, incredibile, salto di 111 metri in condizioni di vento perfette. Gli basterà, perché con il secondo salto, di “soli” 87 metri e mezzo, batterà il secondo classificato di solo un decimo di punto! Il destino era già nel cognome del polacco.
Nel pattinaggio di figura, vanno citati i vincitori della gara maschile e di quella a coppie: il cecoslovacco Nepela, asso della specialità, incanta tutti con la sua bravura, ma sarà il suo canto del cigno: morirà giovanissimo, nel 1989, di AIDS. La coppia sovietica Rodnina/Ulanov vince invece la gara di coppia battendo i connazionali Smirnova/Suryakin. Si separeranno subito dopo: Ulanov scappa con la Smirnova, dopo essersene innamorato, lasciando la Rodnina senza partner. Ne troverà un altro in Alexander Zaitsev, con il quale si sposerà dopo aver vinto altri due allori olimpici.
Chiudiamo con gli italiani: Thoeni, che abbiamo visto argento nello slalom speciale, conquisterà l’oro nel gigante, dominando la gara. Un secondo oro, per i colori azzurri, viene nel doppio di slittino, con gli altoatesini Hildgartner e Plaikner, che all’epoca erano al vertice della specialità. L’argento nel Bob a 4 completa il medagliere azzurro, con una medaglia in più, ma due ori in meno, rispetto a 4 anni prima.
[Continua]
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