Si dice che: «L’Uomo è misura di tutte le cose», e l’Uomo, da sempre, misura tutte le cose del suo mondo, con lo sguardo, con le mani e con i piedi, oppure utilizzando metro e bar, per esempio. All’interno di abitazioni civili dall’area definita o nella piramide edificata dall’ingiustizia sociale, tutto è giusto, calcolato, riconducibile a numero. È una convenzione conveniente, un’assoluta necessità appena sbiadita dal sole di mille secoli inconsapevoli.
Dicono molti: «Anche le idee e le emozioni si possono misurare», trasformando in solinga cifra numerica la cifra esistenziale di un pensiero, di un concetto e persino di un sentimento.
A onore del vero, però, molto del nostro mondo interno ed esterno sfugge a qualsiasi controllo computistico. Di questa censura, ne mortificano l’utilità e l’autorevolezza, da una parte il vissuto individuale di quell’idea trasmutata in realtà (numerica), molto spesso, e dall’altra, meno spesso, la non facile trasformazione di quel valore (numerico) in moneta corrente. Queste eccezioni realizzano, poi, entrambe e non di rado, l’impagabile risultato di seminare sgomento tra gli officianti prezzolati del Tempio.
Il sospetto è che si deve misurare tutto quanto ci serve; anche il dolore, quello fisico del corpo infermo, si può incolonnare in scientifica progressione dal più lieve al più estenuante, perché è utile saperlo, soprattutto se la malattia ha già un nome. Sia come sia, le diverse valutazioni consentono di stabilire ‘un livello, individuato esattamente dal punteggio di riferimento’. Qui c’è poco da filosofeggiare: un filotto da maestro, e qualunque obiezione al cuore del problema cade giù.
In ogni attività e condizione umana si possono determinare livelli: le classifiche si stilano proprio da questa semplice progressione, e si tratta sempre di una serialità che porta con sé un giudizio. Il giudizio elementare si articola in “buono o cattivo”, “bianco o nero”, ma infiniti gradi e sfumature obbligano ad altrettante distinzioni, sempre più sottili, ancorché riconducibili a una specifica misura. Quest’affermazione, tanto semplice quanto essenziale, è alla base di una più complessa verità: utile alla nostra vita è tutto ciò che la protegge, che la preserva dalle pene e dagli affanni, che la sostiene e nutre, alimentando al tempo stesso l’illusione dell’immortalità, mentre il calendario sgrana inesorabile i suoi foglietti numerati.
Uniti nell’impresa di raggiungere uno scopo solenne, nell’avventura leziosa di un giorno senza gloria e senza domani, o nel prosaico rovello per sbarcare il lunario in angoscia di fame e dignità, noi tutti percorriamo strade di diversa lunghezza e praticabilità, piegandoci in sottopassi scoliotici, tenacemente assicurati però alla volontà di arrivare, a qualsiasi costo. Dove? Esattamente lì dove ci attende un numero, un risultato su di un contachilometri razzista, la cui valutazione ci svela il livello, cioè il luogo del punteggio indicante il rapporto tra lo spazio percorso e il tempo sciupato da noi, confrontato con quello di chi ci ha preceduto o invano inseguito.
Esistono, però, tragitti dell’anima percorsi in solitudine, senza indicazioni o distanze prefissate, vuoti di numeri e scivolosi a calcoli e misure.
Quando osserviamo un quadro, il nostro sguardo può essere fortemente attratto da un piccolo particolare, una minuscola riproduzione perfetta collocata in evidenza dall’autore per far risaltare, in contrasto, la grandezza del soggetto principale, percepito perciò ancor più maestoso e importante, pur se rappresentabile o rappresentato solo in parte. Così, la dimensione del dettaglio se da un lato ci induce a circoscrivere l’intenzione vera dell’autore, dall’altro ci costringe a riflettere sull’incalcolabile grandezza dell’Arte, compresi i campi estranei a quell’Artista capzioso. Anche in questo caso, il Pensiero intuisce, anticipa o rievoca, mentre l’Occhio non riesce a far di conto. È un po’ quello che la possibilità della presenza, anticipata nell’immaginazione o rievocata nel ricordo, fa con l’Oggetto un tempo amato e assoluto, ma assente da un certo numero di ore, giorni o anni.
In Amore o in Guerra, la condanna per noi contabili è sempre quella di una desolata agnizione per un antico disagio: «la creazione dal mio Desiderio non si colloca su nessun livello, perché è opera ‘non misurabile‘, nemmeno per confronto, di questo solo Artista».
Infatti, il concetto di ‘livello’ contempla un piano immaginario dall’area indefinita, dove è possibile allocare ‘oggetti’ per almeno un criterio di valutazione assimilabili, ma anche diversissimi tra loro (per esempio, in base ai metri dell’Altezza: una collina o un grattacielo). Quest’impresa appare quasi impossibile per i sentimenti (per esempio, in base all’ intensità dell’Amore: una madre ama sicuramente sempre più di un padre?).
Si dice:« Ah, quello è un vero Artista!», per distinguerlo ovviamente dall’esercito dei non-artisti, nonché dal folto gruppo degli artisti di mezza tacca. Noi, i non-artisti, consumiamo anima e corpo nella conquista della normalità, cioè della quiete fuori e dentro di noi, e solo in rarissimi casi, distratti in una negazione tentata come fuga dalla routine, osiamo avventurarci verso la meta della distinzione, dolorosa e inquieta, propria di un livello cosiddetto artistico.
Definisco così quella non comune distensione dell’animo su un terreno non misurabile e non inquinato da prosaiche necessità, su cui abbiano facoltà di proliferare soltanto beni spirituali imprescindibili per tutti, nessuno escluso. Un terreno che in molti esseri umani si rivela permeabile a uno specifico fertilizzante, sia pure atterrato lì per caso e affidato a fecondità diverse. Come mai? O si potrebbe formulare la domanda in altri termini: come e perché si parla di un distinguibile livello artistico? Presuppone esso una prima essenziale scrematura tra artisti veri e d’occasione, oppure conchiude un tratto performativo che si può rinvenire in qualsiasi individuo, al servizio o meno di una Musa?
Si può, quindi, obiettare: «se non è misurabile, giacché vale come elemento consustanziale che sussume e integra l’intero quid, perché mai usare il termine livello?» Questa parola, infatti, evoca sempre l’accoppiamento con un aggettivo, o qualificativo o indefinito , ugualmente riconducibile a entità misurabile, funzionale a una o più graduatorie di performance , anche in forma ellittica .
Di fatto un livello costruisce un limite e indica una distanza, sempre. L’Artista vive nel suo mondo (limite) ed è lontano da tutti (distanza). Egli è sterile e cammina guardingo: non potrebbe tollerare di vedere il suo bambino addormentato, perché lo ucciderebbe il sentimento di tenerezza obbligato a provare, come il pensiero di non aver saputo evitare il piccolo insetto operoso, che sfida la superbia dell’homo sapiens e i suoi piedi. In realtà, si osserva spesso come la “Necessità dell’Arte”rende impossibile l’accesso a qualunque forma di empatia verso i Bisogni dell’Altro da parte dell’Artista.
Un vero Artista non conosce o non ricorda limiti al sentimento, fino a trasformarlo in uno slancio anarchico a volte imperscrutabile; dorme scomodo, rifiutando di sprimacciarsi il cuscino, prima di obbedire al sogno ad occhi chiusi; non si cura di poter apparire stupido, magari soltanto perché non conviene, e perciò non si cura di misurare le parole; vive dimentico nelle sue fantasie sgrammaticate e i suoi fatti trovano essenza nella protervia del Presente con il suo unico valore interpretabile; il Futuro, poi, si può anticipare solo per intuito, non per algebrica previsione e giammai per consiglio dell’esperto. Vivono in un altro mondo i pensieri di un artista, dilatati o compressi solo dal soffio dell’Arte.
Io dico: «chi di noi non ha provato nella sua vita, magari per una volta, almeno uno di questi pensieri; chi non ne vide l’immagine volteggiare in un angolo del cervello sognante, poi subito risvegliato a fare i conti della spesa; in altre parole, chi di noi non ha sfiorato l’idea di seguire per sempre un’ idea sconveniente , come un flusso che scorre tra due lamine giustapposte, senza tensione superficiale da calcolare?» Bene, lì ognuno di noi era il livello artistico del suo desiderio in cerca di oggetto, come lo è per lo scultore un blocco di marmo o il bulbo nel tocco del giardiniere. Artisti per la vita o per un momento, senza tavolozza né alfabeto, eccoci riemergere dall’abisso dove manca il confronto con la realtà necessaria dell’Arte, quella che si dispiace di esistere nello sguardo giudicante (e sofferente) di chi la vuole ad ogni costo controllare, precisare, misurare.