Nel discorso pronunciato mercoledì 13 settembre a Strasburgo, di fronte al Parlamento europeo, il Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, elogiando l’Italia per la sua «perseveranza e disponibilità» nell’affrontare il fenomeno migratorio, ha definito una nuova configurazione dell’Unione Europea fondata sull’integrazione.
Oltre alla ripresa e alla crescita economica (assistita dalla creazione di 8 milioni di posti di lavoro per i cittadini dell’Unione), Juncker ha annunciato nuove misure in materia di sicurezza e antiterrorismo, con la previsione di una CIA europea in grado di coordinare attività di intelligence e di polizia, ma soprattutto una riforma ‘costituzionale’, da approvare nel termine di 18 mesi, capace di liberare le decisioni del Consiglio dai vincoli di veto dell’unanimità: a condizione di incontrare il previo consenso di tutti i capi di Stato e di governo (come impone il Trattato di Lisbona), materie fondamentali come giustizia, fisco, politica estera, difesa e sicurezza potrebbero essere discusse e votate a maggioranza. Ancora, è stata proposta l’unificazione delle cariche di Presidente della Commissione e Presidente del Consiglio europei, oltre all’istituzione di un super-Ministro europeo delle Finanze e del Tesoro, con la contestuale trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità (c.d. « Fondo salva-Stati») in Fondo Monetario Europeo a copertura di riforme e investimenti nei Paesi membri. Il nuovo Ministro, direttore del Fondo e vicepresidente della Commissione, sarebbe responsabile della sua attività di fronte al Parlamento europeo.
Lontano da un modello intergovernativo, basato sulla gerarchia interna tra Stati forti e subalterni, l’indirizzo integrazionista proposto da Juncker, manda in crisi, nella durata, le polities (relative a identità e confini fondati su un territorio) che hanno consolidato le entità politiche nazionali per tutto il corso del Novecento. Il rischio di far vacillare questa impalcatura è il fattore fondamentale di resistenza e paralisi interna all’Unione, nei casi in cui non si riconosca che la governance nazionale si può realizzare in prospettiva integrata con gli altri Paesi di quella ‘regione’ o ‘comunità’ che è l’Europa dei Trattati, di cui gli Stati sono parte costitutiva. Contro i timori nazionalisti del my country first, e nella consapevolezza del tramonto delle grandi narrazioni ideologiche del Secolo scorso, Maurizio Ferrera propone il rilancio dell’integrazione europea come «utopia gentile (…) Questo progetto è caduto nella palude dell’iperrealismo. Va invece rilanciato come grande disegno volto a ricombinare gli ideali novecenteschi (tutti) su scala post-nazionale, facendo appello sia ai cittadini come tali sia ai popoli». In questo senso, Ferrera parla di «EUtopia democratica».
Tuttavia, prima di parlare di superamento consapevole dei nazionalismi, è necessario interrogarsi su ciò che è diventata l’Unione Europea come entità politica, in seguito agli ‘scossoni’ recentemente subiti a livello di polity (con Brexit) e rispetto ai nuovi indirizzi (configurazione del potere e nuove policies) coraggiosamente delineati da Juncker nella sua Agenda.
Lo abbiamo domandato al Professor Maurizio Cotta, docente di Scienza Politica all’Università di Siena.
Professor Cotta, in un Suo recente contributo, Lei ha fatto riferimento a una ‘fase nuova’ nella vita dell’UE. Pensando ai cambiamenti geopolitici vissuti negli ultimi anni dalla realtà unionale (uscita di scena della Gran Bretagna, crisi dei rapporti con gli USA e la Russia) in che termini è possibile parlare oggi di ‘integrazione europea’? Possiamo parlare in proposito di «utopia gentile» o di «EUtopia», secondo l’accezione adottata da Maurizio Ferrera?
L’Unione Europea è passata attraverso una fase molto dura e difficile. A una lunga crisi economica è seguita la crisi dell’immigrazione, che tuttora si sta manifestando in maniera molto seria, oltre ai problemi sul fronte della sicurezza sia interna che all’esterno delle sue frontiere. Nel mio libro Un’altra Europa è possibile, appena uscito presso Il Mulino, ho adottato la metafora di un prolungato «stress test» al quale l’UE è stata sottoposta.
Si tratta di un concetto relativo alla salute e alla solidità, in termini di capitale e liquidità, degli istituti bancari in situazioni critiche (ad esempio, quando peggiora la valutazione relativa ai titoli di stato o al valore degli immobili). In che senso esso è riferibile a una realtà politica come l’Unione?
Diciamo che l’UE è si è trovata, in buona misura, sotto pressione e poco preparata ad affrontare queste crisi perché non aveva gli strumenti adatti. Al principio della crisi economica mancavano i mezzi di intervento, soprattutto quando tale crisi si manifestava con grosse asimmetrie tra i vari Paesi (alcuni fortemente colpiti, altri meno): l’Unione non aveva gli strumenti per affrontare la crisi dei debiti sovrani, la crisi migratoria, né per rispondere alle sfide esterne – pensiamo alla questione ucraina. In questi termini, l’UE risultava molto ‘sottodimensionata’. Se vogliamo usare l’immagine dello stress test adottato per le banche, l’UE era ‘sottocapitalizzata’. Questo ha prodotto forti tensioni al suo interno, tra i diversi Paesi, tra Paesi indebitati e meno indebitati, tra Paesi che ricevono immigrazione e quelli che la rifiutano, tra quelli interessati da realtà di confine pericolose e quelli che hanno confini ritenuti sicuri. Diciamo anche che siamo passati attraverso fasi di grande pessimismo sul futuro: sul futuro dell’euro come della stessa Unione. Questo sentimento non era astratto, tanto che un Paese, l‘Inghilterra, in questa fase è uscito dall’Unione – un fatto che, in un certo senso, abbiamo ormai digerito, ma che resta pur sempre di grande rilievo. L’abbandono da parte di un grosso Paese costituisce, per così dire, una ‘prima volta’, e in certi momenti si è pensato che Brexit potrebbe conoscere un seguito da parte di altri Paesi. Con altrettanta sfiducia, si è pensato che la crisi economica finanziaria e di bilancio greca potesse estendersi a un Paese più grande, come l’Italia.
È possibile, a valle di questo ‘periodo buio’ e nella consapevolezza delle crisi ancora in atto, tracciare un bilancio provvisorio?
Direi che le risposte sono state piuttosto lente e non molto adeguate, specie all’inizio, riguardo alla questione economica. Ad oggi, sulla questione migratoria e in materia di sicurezza internazionale non abbiamo risposte consistenti, a riprova del fatto che le difficoltà di intervento hanno pesato molto. Tuttavia, non c’è dubbio che, nel corso di questo periodo di crisi, l’UE ha mostrato anche la capacità di mettere a punto dei nuovi strumenti. Soprattutto, alcuni soggetti del sistema istituzionale hanno dimostrato una capacità di reagire rivelatasi importante, per non dire decisiva: mi sto riferendo in modo particolare alla Banca Centrale Europea (BCE), che è stata in grado di sviluppare strumenti – ad esempio, i piani ‘lunghi’ di rifinanziamento, o «Longer-term refinancing operations» – capaci di coinvolgere dei ‘corpi di armata’ importanti. Questo ha permesso di impedire che la crisi andasse oltre dei punti di non-ritorno, consentendo di avviare una fase di ripresa economica.
In altri settori come l’immigrazione siamo più indietro e questa è una spina nel fianco. Detto questo, due anni fa – anche un anno fa – con la Brexit si poteva essere molto pessimisti. Oggi, forse, ci sono elementi di speranza maggiori sul fatto che l’Unione Europea possa farcela. È accaduto che, nei momenti più critici, i Paesi importanti, con l’eccezione dell’Inghilterra, hanno capito – e il ruolo della Germania è stato portante – che bisognava difendere l’Europa, che il rischio della crisi non era accettabile.
Quindi Lei nutre speranze per il futuro dell’UE?
Oggi la situazione non è così drammatica; ma non è una speranza facile né ingenua, come a dire che tutto, semplicemente, andrà bene. Grandi scelte restano da affrontare nei prossimi mesi. Se è vero che la Banca Centrale è stata in grado di tamponare la crisi dei debiti e di aiutare la ripresa, l’UE manca ancora di nuovi strumenti di politica economica, di modalità di intervento per sanare difficoltà e disparità economiche eccessive, pertanto il problema sussiste. Inoltre, come accennavo, sul fronte delle migrazioni si è fatto ancora molto poco ed è un tema all’ordine del giorno. Così come sempre più centrale è il tema delle relazioni esterne dell’UE: di fronte a questioni legate a Paesi come la Libia, la Siria o l’Ucraina, l’azione rimane ancora affidata a iniziative individuali di Stati che hanno mostrato molto presto la loro scarsa efficacia, se non addirittura controproduttività, oppure ad azioni coordinate (come, per l’Ucraina l’azione di mediazione promossa dalla Germania, seguita dalla Russia e dalla Francia), ma siamo ancora indietro.
Certamente, è chiaro che – e qui arriviamo al tema dell’«utopia gentile» o dell’«EUtopia» – fare passi avanti in questi tre ambiti (quindi: politiche economiche più serie più impegnative, politiche dell’immigrazione, politica estera) richiede la fiducia nel fatto che l’UE non sia un’utopia né un ‘paradiso’, ma in termini realistici la strada da seguire, piuttosto che un ritorno a nazionalismi che non si sa dove ci porterebbero. Questa strada non è in discesa. Lo vediamo adesso, nel momento in cui si avvia il dibattito sulla questione di un Ministro delle Finanze europeo, su un Fondo Monetario Europeo… Soluzioni che, a seconda di come saranno declinate, possono rafforzare veramente un senso di solidarietà comune, oppure possono tradursi in strumenti quasi repressivi nei confronti di Paesi giudicati poco disciplinati. Abbiamo di fronte scelte molto serie e importanti. Quindi, scommettere sul futuro oggi vuol dire cercare di capire cosa comporteranno queste scelte.