Lunedì 20 luglio il Parlamento egiziano ha autorizzato lo schieramento di truppe fuori dal Paese, dopo che il Presidente Abdel Fattah al-Sisi ha minacciato di agire contro le forze sostenute dalla Turchia nella vicina Libia.
Il Parlamento ha approvato all’unanimità «ildispiegamento di membri delle forze armate egiziane in missioni di combattimento fuori dai confini egiziani per difendere la sicurezza nazionale egiziana contro milizie armate criminali ed elementi terroristici stranieri». Lo schieramento verrebbe effettuato su un ‘fronte occidentale’, un probabile riferimento al vicino occidentale della Libia. La mossa potrebbe portare l’Egitto e la Turchia – che sostengono le parti rivali nella caotica guerra per procura della Libia – ad un confronto diretto.
La Libia è stata gettata nel caos quando una rivolta, sostenuta dalla NATO, nel 2011, ha rovesciato Muammar Gheddafi. La ‘rivoluzione libica’, e il conseguente intervento militare NATO, furono il prodotto di una strategia di cambiamento di regime ideata da Francia e Stati Uniti.
Dopo la caduta di Gheddafi i ‘rivoluzionari’ non sono riusciti a creare un governo e far approdare il Paese alla democrazia (come speravano Unione Europea e Stati Uniti). Al contrario, le varie forze politiche e religiose contrapposte, i vari clan e capi tribù, fino a quel momento tenuti sotto controllo dal dittatore, hanno continuato il conflitto. Chi con il sogno di succedere alla guida del Paese, chi semplicemente per controllare il suo feudo e i suoi traffici illegali.
Nel 2014 scoppia la seconda guerra civile. Il Paese è ora diviso tra il governo di Tobruk,controllato dal maresciallo Khalifa Haftar, e il governo di Tripoli, controllato dal Primo Ministro Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite. Il maresciallo Haftar controlla la Libyan National Army, che ha la missione di debellare tutte le varie fazioni e bande armate per restaurare la sovranità su tutto il territorio libico. Al-Sarraj non riconosce tale missione. Al contrario, pretende che il suo Governo sia riconosciuto come unica entità sovrana.
Il caos e i combattimenti dal 2014 al 2019 hanno determinato, di fatto, una situazione simile a quella della Somalia: nessun contendente è abbastanza forte per prevalere militarmente e si creano decine di ‘feudi’ che impediscono l’unità nazionale e un governo centrale.
Come era prevedibile, il caos libico favorisce il proliferarsi di armi in tutta la regione e il rafforzamento di gruppi terroristici islamicioperativi sia in Nord Africa che nell’Africa Occidentale (in special modo Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria).
Nel 2015, Daesh (ISIS) entra nel teatro di guerra libico. Nonostante le offensive congiunte tra Governo di Tripoli e unità speciale dell’Esercito americano, Daesh continua tutt’ora a rappresentare un serio problema per la pace e l’unità nazionale. La perdita del controllo sulla città di Sirte (2016) e le sconfitte inferte nel 2018 dal governo di Tobruk non hanno impedito a Daeshdi continuare le sue attività terroristiche.
Dal 2016 anche il gruppo terroristico algerino legato ad Al-Qaeda, Tanẓīm al-Qā’idah fī Bilād al-Maghrib al-Islāmī (conosciuto in occidente come Al-Qaeda in the Islamic Maghreb – AQIM) espande le sue operazioni militari in Libia, entrando in diretto conflitto con Daesh.
Un terzo gruppo terroristico, Ansar Al-Sharia in Libya, sorto durante la prima guerra civile, nel 2011, opera nel caos. Fino al 2017 faceva parte del Benghazi Revolutionaries Shura Council. A seguito di un’offensiva militare guidata dal Maresciallo Haftar, Ansa al Sharia si trova ora in difficoltà e molti miliziani hanno disertato per unirsi a Daesh.
Nonostante gli impegni presi dal Governo di Tripoli, di fatto il solo baluardo contro l’espansione dei terroristi islamici rimane l’esercito del Maresciallo Haftar che è diventato il nemico numero uno di Daesh, AQIM e Ansar Al-Sharia.
Il 4 aprile 2019 il maresciallo Haftar lancia l’Operation Flood of Dignity (Operazione Diluvio di Dignità) con l’obiettivo di conquistare Tripoli,sconfiggere definitivamente Fayez al-Sarraj e unificare il Paese.
L’Operazione Diluvio di Dignità spalanca le porte a una proxy war (guerra per procura) simile a quella che si sta combattendo in Siria.
L’Egitto, a fianco degli Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Francia, Giordania, Sudan e Russia, appoggia Khalifa Haftar, con Russia e Sudan che si sono spinti a garantire un supporto attivo al Maresciallo Haftar.
La Russia ha inviato 1.200 mercenari a combattere al fianco dell’esercito di Haftar, coordinate dal Wagner Group una milizia paramilitare privata russa fondata nel 2013 da Dmitriy Valeryevich Utkin, ex Luogotenente Colonnello delle Spetsnaz GRU (le forze speciali russe). La Wagner Group opera in stretta collaborazione con il governo di Mosca ed è impegnata nei teatri di guerra in Siria e Ucraina.
La giunta militare sudanese che è parte integrante del Governo Transitorio, nel dicembre 2019, ha inviato 3.000 soldati (molti provenienti dal Darfur) a combattere a fianco di Haftar (come denunciòall’epoca il quotidiano britannico ‘The Guardian’)
Gli Stati Uniti, sempre più preoccupati delle crescente influenza di Mosca in Libia, stanno adottando una politica contraddittoria. Dal 2015 supportano il Governo di Tripoli, ma dall’inizio dell’offensiva militare di Haftar su Tripoli l’Amministrazione Trump ha inviato segnali ambigui. Il Governo di Tripoli sospetta che gli Stati Uniti possano cambiare partner, soprattutto dopo che Trump, durante una conversazione telefonica con Haftar, riconobbe il «significativo ruolo del Maresciallo nella lotta contro il terrorismo e la sicurezza delle risorse petrolifere in Libia». Washington, nel luglio 2019, bloccò una condanna del Consiglio di Sicurezza contro Haftar per il raid aereo sul centro di detenzione di immigrati che uccise 40 persone e altre 70 furono ferite.
L’Italia (Paese europeo maggiormente penalizzato dalle guerre civili libiche visti i suoi interessi petroliferi, attraverso ENI) formalmente supporta il Governo di Tripoli, anche, a tratti, in chiave anti–francese -la Francia è stato il primo attore della distruzione del monopolio ENI in Libia-, ma ha dialogato e dialoga con Haftar, sia pure da una posizione molto difficile, visto che Roma è di fatto ricattata da Tripoli causa la questione migratoria.
Periodicamente il premier libico Fayez al-Sarraj minaccia una liberazione generalizzata di tutti i migranti detenuti in Libia, che si riverserebbero sulle coste italiane. Per scongiurare la minaccia periodicamente l’Italia fornisce a Tripoli materiale (motovedette ecc…) e fondi.
Nell’agosto 2018 Roma regalò a Tripoli 12 motovedette per il controllo dei migranti. Lo scorso 16 luglio alla Camera è passata la risoluzione che garantisce a Tripoli 58 milioni di euro di aiuti bilaterali, di cui 10 milioni andranno alla assistenza della guardia costiera libica, compresa la formazione e l’addestramento, 3 milioni in più rispetto al 2019. La risoluzione è stata approvata sia da forze di maggioranza che di opposizione. IlGoverno di Tripoli e la sua Guardia Costiera sono direttamente implicati nel traffico di esseri umani. La gestione dei centri di detenzione per migranti è costellata da violenze, torture, abusi e violazioni dei loro diritti fondamentali. In diverse occasioni la Guardia Costiere ha speronato o aperto il fuoco contro le navi delle ONG che soccorrono i migranti, utilizzando le motovedette regalate dall’Italia.
Sono solo due i Paesi che militarmente supportano il governo di Tripoli: il Qatar e la Turchia.
Doha, guidata da Tamim bin Hamad Al Thani, supporta il Governo di Tripoli in quanto risulta tollerante verso i gruppi estremisti islamici come i Fratelli Mussulmani che il Qatar da anni sostiene, utilizzandoli come strumenti della sua politica estera. In Libia questi gruppi estremisti sono strettamente collegati a Daesh, AQIM e Ansar Al-Sharia. Oltre al supporto politico e finanziario il re Al Thani garantisce un cospicuo afflusso di armi e paga centinaia di mercenari reclutati in Siria per combattere contro Haftar, al fianco delle truppe lealiste a Tripoli. Molti di essi provengono dalle file dei combattenti jihadisti.
Per la Turchia il Governo di Fayez al-Sarraj è una pedina di prima importanza per realizzare il suo piano di espansione nel Nord Africa e nel Mediterraneo oltre che contenere la potenza egiziana.
Oltre un constante afflusso di armi (anche pensanti), la Turchia attua raid aerei contro le truppe di Haftar, utilizzando droni da combattimento Bayraktar TB2 (già impiegati in Iraq e Siria). I raid aerei turchi sono iniziati nel giugno 2019, quando hanno colpito la base aerea di Mitiga, controllata da Haftar.
Il 5 aprile 2020 i droni turchi hanno attaccato il contingente russo in Libia, distruggendo un areo di trasporto Antonov An-26, su una pista di atterraggio vicino a Tarhuna. L’aereo trasportava munizioni per i soldati di Haftar. Teoricamente la Turchia impiega in Libia 20 droni da combattimento. Il numero reale sarebbe ben maggiore, visto che dal giungo 2019 ad oggi le forze di Haftar ne hanno abbattuto circa 15. I droni turchi hanno contribuito a fermare l’avanzata di Haftar. A fine maggio 2020 i raid aerei hanno distrutto 9 batterie di Pantsir S1, il sistema di difesa antiaerea russa a medio raggio.
Lo scorso gennaio Ankara ha aumentato il suo impegno in Libia entrando a tutti gli effetti nel conflitto tramite l’invio di truppe terrestri con il compito (ufficiale) di «supporto al Governo legittimo di Tripoli per aiutarlo a scongiurare una tragedia umanitaria».
Le truppe turche sono state decisive per ribaltare la sorte della battaglia di Tripoli a favore di al-Sarraj. A fine maggio le truppe di Tripoli presero il controllo del quartiere di Al-Kayikh, a Tripoli, vicino alla città di Qaser Bin Ghashir. Il 4 giugno i lealisti di al-Sarraj e le truppe turche hanno lanciato un attacco all’aeroporto di Tripoli, che hanno catturato. Le forze di Haftar sono state costrette a ritirarsi dalle loro posizioni rimanenti nella periferia sud di Tripoli, permettendo al Governo di Tripoli di riprendere il controllo dell’intera città. Ciò segnò la fine dell’assedio di 14 mesi di Haftar su Tripoli.
Il 5 giugno soldati turchi e tripolini lanciano un’offensiva conquistando le roccaforti di Tarhouna e Bani Walid.
Il 18 luglio è iniziata l’offensiva di Tripoli su Sirte, la porta di accesso ai principali terminal petroliferi della Libia sotto il controllo di Haftar. Solo l’intervento massiccio dell’Esercito egiziano potrebbe salvare il Maresciallo Haftar, ora in grosse difficoltà. Il Presidente al-Sisi ha ordinato all’esercito di essere pronto per la missione in Libia. Si ritiene che il primo attacco pesante sarà condotto con un uso massiccio dell’aviazione militare, reparti di carri armati e fanteria d’assalto per impedire ai turchi e ai tripolini di conquistare Sirte. La città libica si trova a 800 km dal confine egiziano. Il Cairo vede Sirte come una ‘linea rossa’ che non deve essere oltrepassata.
Non sarebbe la prima volta che il Cairo interviene militarmente in Libia. Attacchi aerei dell’aviazione egiziana e su gruppi armati in Libia si registrarono durante il rovesciamento di Muammar Gheddafi, nel 2011. L’Egitto ha anche sostenuto (tramite copertura aerea) Haftar, quando ha riunito una forza nella Libia orientale, secondo i rapporti delle Nazioni Unite. Ma l’invio di truppe di combattimento a terra è una novità e rappresenta una importante escalation. Un intervento egiziano destabilizzerebbe ulteriormente la Libia.
Il Governo di Tripoli ha denunciato la minaccia egiziana di intervento militare, etichettandola come una «dichiarazione di guerra». Il Ministro alla Difesa del Qatar ha incontrato lunedì ilMinistro della Difesa turco e il Ministro degli interni della Libia per discutere degli ultimi sviluppi in Libia.
La Turchia, nel frattempo, ha chiesto la fine«immediata» del sostegno a Haftar dopo i colloqui trilaterali tenuti ad Ankara tra funzionari libici, turchi e maltesi lunedì. «È essenziale che ogni tipo di aiuto e supporto dato al putschista Haftar – che vieti di garantire la pace, la tranquillità, la sicurezza e l’integrità territoriale della Libia – finisca immediatamente», ha dichiarato il Ministro della Difesa turco, Hulusi Akar. Ankara ha inviato Haftar a ritirarsi da Sirte e negoziare la resa.
«Penso che l’avventura militare in Libia sia estremamente pericolosa per l’Egitto», ha affermato ieri Ibrahim Kalin, Security Adviser del Presidente Recep Tayyip Erdogan. Il Ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shukry, ha risposto sottolineando l’importanza di raggiungere una soluzione politica in Libia che preveda una «ferma»risposta agli «estremisti» e alle interferenze straniere, che «non minacciano solo gli interessi dell’Egitto, ma anche la sicurezza dei Paesi del Mediterraneo».
Secondo i dati forniti dal sito europeo di analisi militare Armedforce.eu, uno scontro tra gli eserciti egiziano e turco in via teorica potrebbe creare seri problemi alla Turchia, in quanto le forze armate del Cairo superano quelle di Ankara.
L’Esercito egiziano supera quello turco in numero di soldati (compresi i riservisti), carri armati, artiglieria, missili a corta e media gittata. Le due aviazioni militari si equivalgono, mentre l’Egitto detiene la totale superiorità navale.
Lo scontro è inevitabile? A sentire le bellicose dichiarazioni del Cairo e di Ankara si. Ma dietro le quinte la diplomazia è al lavoro, e alcune mosse diplomatiche potrebbero evitarlo. Ieri, 23 luglio 2020, Turchia e Russia si sono accordate per creare le condizioni di un cessate il fuoco e fermare l’offensiva su Sirte.
Lunedì 20 luglio il Presidente degli Stati Uniti,durante un colloquio telefonico con al-Sisi,avrebbe consigliato l’alleato egiziano di calmarsi e di puntare su un cessate il fuoco e negoziati economici e politici. In cambio la Casa Bianca garantirebbe nuovamente il supporto al Cairo per risolvere in modo equo la questione della diga Grande Rinascita in Etiopia. Questione che potrebbe provocare il primo conflitto continentalein Africa per le risorse idriche, e che coinvolgerebbe anche il Sudan. Il Presidente al-Sisi ha confermato la comune intenzione del Cairo e di Washington di puntare sul cessate il fuoco e sui negoziati per evitare un’escalation militare in Libia.
Nonostante l’accordo raggiunto con Mosca,l’intransigenza di Ankara potrebbe far naufragare la necessaria tregua. La Turchia insiste che l’esercito di Haftar è illegale. Quindi si deve ritirare da Sirte e, a medio termine, cessare le ostilità ed integrarsi nell’esercito ‘regolare’ libico accettando che il Governo di Tripoli realizzi l’unificazione nazionale e prepari libere elezioni dove Haftar potrà, se vorrà,candidarsi.
La richiesta di Ankara ad Haftar è di fatto una domanda di resa. Per evitare il conflitto il Maresciallo di Tobruk dovrebbe abbandonare la lotta armata e passare alla lotta politica, terreno sul quale non si sente particolarmente a suo agio, e per di più accettando la legittimità del Primo Ministro Fayez al-Sarraj, che potrà essere messa in discussione solo tramite elezioni democratiche.
Una richiesta inaccettabile per Haftar.
Gli alleati russi sono ben consapevoli che la tregua potrebbe non essere dichiarata o non tenere a lungo. Per questo stanno inviando (via Siria) sul fronte di Sirte aerei da combattimento. Mosca sta ancherafforzando il contingente di mercenari presente nel bastione di Haftar per contenere una eventuale offensiva turca e tripolina.
Il Cairo, appoggiando la proposta di cessate il fuoco, propone un governo di unità nazionale al-Sarraj – Haftar e immediate elezioni presidenziali ed amministrative.
Proposta già rifiutata dal Governo di Tripoli. Unrifiuto che ha galvanizzato la stampa nazionalistica egiziana. «Il Presidente al-Sisi deve intervenire militarmente in Libia per difendere l’Egitto dall’aggressione turca» sostiene il popolare quotidiano egiziano ‘Al-Ahram’.
All’orizzonte del conflitto libico spunta un altro attore: la Grecia.
Atene potrebbe schierarsi con l’Egitto fino al punto di aprire le ostilità contro la Turchia, al fine di risolvere a suo favore la disputa sui diritti minerari dei fondali marini del Mediterraneo orientale e fermare i piani di Ankara di impossessarsi del petrolio e gas a sud delle isole greche. Un progetto che il portavoce del Governo greco, Stelios Petsas, ha descritto come una violazione diretta della sovranità greca.
‘Al-Ahram’ ieri registrava un incontro tra al-Sisi e il Primo Ministro greco, Kyriakos Mitsotak. Incontro molto importante con al centro delle discussioni proprio la Libia e il Mediterraneo orientale.
Secondo il prestigioso quotidiano, Mitsotakis avrebbe respinto tutte le interferenze straniere in Libia e «salutato positivamente gli sforzi dell’Egitto per raggiungere un accordo politico e ripristinare la pace in tutto il territorio libico», richiamando il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite e le conclusioni della conferenza di Berlino. Al-Sisi, da parte sua, avrebbe dato pieno appoggio a Mitsotak nella sua intenzione di fare«tutto il necessario» per difendere i suoi diritti sovrani, in risposta ai piani della Turchia di procedere con una missione di ricerca di petrolio e gas a sud delle isole greche, nel Mediterraneo orientale.
La Grecia e la Turchia sono state in conflitto per decenni sui confini marittimi, ma le recenti scoperte di gas naturale e piani di perforazione nel Mediterraneo orientale hanno aggravato la situazione. La Turchia sostiene che le isole greche non dovrebbero essere incluse nel calcolo delle zone marittime di interesse economico, una posizione che secondo la Grecia costituisce una chiara violazione del diritto internazionale. La Grecia ha circa 6.000 isole e isolotti più piccoli nel Mar Egeo e nel Mar Ionio, di cui oltre 200 sono abitati.
L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno invitato la Turchia a interrompere i suoi piani sugli idrocarburi della Grecia.
In risposta il Presidente Erdogan, durante la visita presso il Consiglio Militare Supremo, ha gettato benzina sul fuoco affermando: «I successi storici su diversi fronti, dalla Siria alla Libia, dal Mediterraneo orientale alla lotta contro il terrorismo, dimostrano la forza del nostro Paese e le capacità delle nostre forze armate». Erdorgan ha altresì aggiunto che la Turchia è in grado di sostenere un confronto armato per difendere la sua sovranità energetica.
I movimenti di truppe turche in prossimità delle isole greche oggetto della contestazione sono state considerate dagli Stati Uniti come azioni provocatorie unilaterali che impediscono la necessaria cooperazione per assicurare a tutti una sicurezza energetica duratura e una prosperità economica condivisa. Come misura preventiva il Pentagono ha rafforzato la sua presenza militare nella regione, inviando nel porto di Alexandroupolis (nord-est della Grecia) 2.000 marines, decine di elicotteri e centinaia di veicoli.Notizia in evidenza su ‘Al-Ahram’, accompagnata dalla dichiarazione di Geoffrey Pyatt, Ambasciatore americano in Grecia. «L’arrivo dei nostri marines non deve allarmare. Prenderanno parte a esercitazioni di addestramento della NATO e fanno parte di una regolare rotazione delle truppe», minimizza l’Ambasciatore Pyatt. Ankara prende nota senza commentare.
Per altro, lo stesso quotidiano, sempre ieri, ha pubblicato una durissima analisi volta a dimostrare come «le relazioni tra l’UE e la Turchia sono in rotta di collisione». L’elenco dei punti caldi che stanno allontanando sempre più la Turchia dall’Unione Europea, è poderoso, secondo un diplomatico europeo sentito da ad ‘Al-Ahram Weekly’, il dorso settimanale del quotidiano: «Libia, risorse di gas nel Mediterraneo, Siria, Curdi, Russia, NATO, sostegno a gruppi islamici radicali e immigrazione clandestina in Europa».
Approfittando della situazione, il Governo etiope sta riempendo il bacino della diga Grande Rinascita prima della definizione degli accordi di compromesso con Egitto e Sudan. Nuove immagini satellitari mostrano il serbatoio della diga idroelettrica dell’Etiopia che inizia a riempirsi. Le immagini emergono mentre Etiopia, Egitto e Sudan affermano che gli ultimi colloqui sul controverso progetto si sono conclusi lunedì scorso senza accordo.
Alcuni analisti e il Governo di Addis Abeba affermano che la presenza di acqua nel bacino della diga è dovuto dalle forti piogge stagionali. Nonostante questa spiegazione, mercoledì scorso, Seleshi Bekele, il Ministro etiope delle Acque, haaffermato che l’Etiopia questo mese inizierà a riempire il serbatoio della grande diga da 4,6 miliardi di dollari anche senza un accordo. Azione unilaterale che aumenterebbe ulteriormente le tensioni.
La decisione è diventata realtà mercoledì 22 luglio, quando il Primo Ministro etiope Abiy Ahmed ha informato ufficialmente delle operazioni di riempimento del bacino della diga. «Il completamento del primo round di riempimento è un momento storico che mette in mostra l’impegno degli etiopi nel rinascimento del nostro Paese», ha dichiarato Abiy, in una nota letta alla televisione di Stato.
La reazione da parte egiziana proviene dal mondo imprenditoriale. In una intervista rilasciata a ‘The African Report’, il miliardario businessman Naguib Sawiris ha chiaramente espresso la posizione del grande capitale egiziano. «Gli egiziani hanno diritto all’acqua del Nilo. Per questo la guerra tra Egitto ed Etiopia sta diventando una possibilità. Gli etiopi hanno chiuso il rubinetto e la nostra agricoltura va in malora e la nostra gente inizierà a morire. Cosa possiamo fare? Guardarli morire? O andare a combattere per i loro diritti? Se vi sarà una guerra non sarà l’Egitto ad essere incolpato per averla iniziata. Chi deve essere incolpato è l’Etiopia perché ha chiuso il rubinetto dopo centinaia di anni che il Nilo scorre libero nella terra dei Faraoni».
Quindi, il Cairo starebbe per iniziare due guerre contemporaneamente: in Libia e in Etiopia? Sarebbe una follia. “Niente affatto. Due conflitti sono possibili per il Cairo. In quanto quello conl’Etiopia di fatto non scoppierebbe in maniera convenzionale, con combattimenti di truppe terrestri”, ci spiega un esperto militare egizianodietro garanzia di anonimato.
“L’Egitto possiede alcuni missili a lunga gittata. I primi sono stati ideati in collaborazione con Argentina e Iraq ed hanno una portata di 900 km. I secondi sono stati realizzati grazie a una joint venture con la Corea del Nord; in pratica è stata effettuata una modifica del missile sovietico Scud C, e hanno una gittata di 1.200 km. Basta che questi missili vengano posizionati in Sudan e si può distruggere la diga. Si entrerà in guerra con l’Etiopia, ma difficilmente il conflitto verrà consumato, in quanto l’Egitto non ha convenienza ad una occupazione territoriale e l’aviazione militare etiope non è numericamente e tecnologicamente idonea ad attaccare l’Egitto».
In effetti, l’eventualità di un attacco missilistico è presa in seria considerazione dall’Etiopia, che a giugno ha dispiegato in difesa della diga un sistema anti–missili acquistato dalla Russia. Alcuni osservatori militari sono in disaccordo con l’esperto militare egiziano e hanno riferito al quotidiano arabo ‘TheNewArab’ che un conflitto tra i due Paesi è improbabile nell’immediato futuro.
L’area, insomma, è in ebollizione, guerre, convenzionali o meno, sono dietro l’uscio dell’Europa pronte a scoppiare.