martedì, 21 Marzo
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Libano: i protagonisti della politica interna

Dal momento in cui, lo scorso 4 novembre, il Primo Ministro del Libano, Saad Hariri, ha annunciato le proprie dimissioni in un messaggio video girato e trasmesso mentre si trovava in viaggio in Arabia Saudita, nel Paese dei Cedri si è aperta una nuova crisi politica che ha fatto temere per la stabilità stessa del Paese.
Il fatto che le dimissioni, in maniera del tutto atipica, siano arrivate mentre il Primo Ministro non si trovava a Beirut ha portato molti analisti a ritenere che la crisi fosse il frutto di uno scontro tra potenze straniere (in primo luogo, Arabia Saudita ed Iran) che si affrontavano sul terreno libanese. Dopo un lunga permanenza a Riad, un viaggio a Parigi e un breve passaggio a Il Cairo, Hariri, le cui dimissioni erano state rifiutate dal Presidente della Repubblica, Michel Aoun, è tornato in Libano per la festa nazionale: in un incontro con il Presidente Aoun, Hariri ha accettato di sospendere le proprie dimissioni fino a che, una volta terminate le nuove consultazioni, non si arrivi alla formazione di un nuovo Governo.
A questo punto, la crisi sembrerebbe prossima alla fine, sennonché le ragioni che la hanno scatenata sono tutt’altro che archiviate: in effetti, non è detto che la crisi sia stata il frutto dello scontro che, attraverso i propri sostenitori nella politica libanese, vede contrapposti Riad e Teheran. Esistono fratture interne al mondo politico libanese in cui risultano fondamentali i rapporti tra i principali attori della politica di Beirut: il fronte musulmano sunnita, principalmente aggregato attorno all’impero finanziario della famiglia Hariri, da un lato, l’alleanza tra i cristiani maroniti del Presidente Aoun e i musulmani sciiti di Hezbollah, dall’altro.

Per tentare di chiarire, abbimo intervistato la Professoressa Rosita Di Peri, ricercatrice presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli Studi di Torino.

Con la conferma di Saad Hariri alla guida del Governo libanese, la crisi è veramente superata?
Secondo le ultime notizie, Hariri ha concordato con il Presidente della Repubblica, Michel Aoun, di sospendere le dimissioni previa la verifica di una serie di condizioni che, a suo avviso, sono imprescindibili per pensare ad una sua prosecuzione nel ruolo di Primo Ministro. Una delle condizioni, in linea con la dichiarazione di Baabda del 2012 tra le principali forze politiche libanesi come reazione all’inasprimento della crisi siriana e ai suoi possibili effetti di spillover in Libano, è che il Libano debba mantenersi neutrale, sia rispetto al conflitto in Siria, sia rispetto ai conflitti mediorientali in generale.
Questo è un elemento importante che si lega ad un aspetto della politica libanese, ovvero la presenza di Hezbollah all’interno della compagine governativa: questo movimento-partito, che ha deciso di entrare nella politica libanese a partire dal 1992, ha un peso dirimente negli equilibri, non soltanto politici, ma anche sociali del Paese. Hezbollah si compone di una parte visibile, che fa capo al partito, e di una parte non visibile, di cui non si hanno informazioni precise, che fa capo al suo braccio armato: la presenza di Hezbollah, e soprattutto delle sue armi, è una questione fondamentale per gli assetti libanesi perché, all’indomani della fine della Guerra civile, con gli Accordi di Taif del 1989, tutte le milizie che avevano combattuto durante il conflitto avevano rinunciato alle loro armi, riconsegnandole allo Stato; tutte tranne Hezbollah che ha deciso di continuare a tenere le proprie armi per difendere il Libano da possibili aggressioni esterne e, in particolare, per fronteggiare una nuova eventuale invasione da parte della Stato di Israele. Dal punto di vista di Hezbollah, la questione delle armi è cruciale perché, come abbiamo visto con l’invasione del Libano da parte di Israele nel 2006 e la conseguente Guerra dei Trentatré Giorni, queste armi sono state usate dalle milizie per difendere l’integrità dello Stato e per celebrare la cosiddetta “vittoria divina” su Israele. La questione delle armi è diventata ancor più fondamentale con il coinvolgimento di Hezbollah nella crisi siriana al fianco di Assad: le armi servono a Hezbollah per legittimarsi come unico attore, all’interno del panorama libanese, in grado di difendere l’integrità dello Stato (dopo il 2011 da un eventuale invasione da parte dell’ISIS) e, allo stesso tempo, come in passato, servono per accreditarsi all’interno del cosiddetto ‘asse della resistenza‘, una coalizione che, nel corso degli anni, ha coinvolto Hezbollah, l’Iran, in un primo momento Hamas (che si è poi ritirato) e, naturalmente, la Siria. Armi che, nel corso degli ultimi dieci anni, sono cresciute grazie ai finanziamenti iraniani e siriani. La questione delle armi è dunque fondamentale in un contesto nel quale la presenza dell’Esercito è problematica in quanto le Forze Armate libanesi hanno mostrato segni di profonda divisione e debolezza nonostante, recentemente, ci siano state delle campagne mediatiche di accreditamento dell’Esercito come nuovo fulcro dell’unità nazionale. La questione di Hezbollah e delle sue armi, dunque, è un elemento critico per la tenuta politica di un eventuale nuovo governo Hariri.
Un’altra questione di cui Hariri deve tener conto riguarda gli equilibri politici interni e il suo ruolo in essi: questi equilibri si basano su una delicata configurazione del potere tra la Coalizione dell’8 Marzo, di cui fanno parte Hezbollah e il Free Patriotic Mouvement, partito del Presidente della Repubblica Aoun, e la Coalizione del 14 Marzo, guidata dal partito al-Mustaqbal di Saad Hariri. Queste due coalizioni, sorte nel 2005 all’indomani dell’assassinio di Rafiq Hariri, padre di Saad, hanno avuto un ruolo fondamentale nella vita politica libanese. All’interno della Coalizione del 14 Marzo, Saad Hariri ha cercato di accreditarsi non soltanto come leader di tale coalizione ma anche come referente unico della comunità sunnita, come in precedenza aveva fatto suo padre. Questo passaggio è importante per capire come si sia arrivati alle dimissioni dello scorso autunno che, oltre ad una dimensione regionale, sono a mio avviso legate anche a dinamiche interne squisitamente libanesi. Intanto, va sottolineato come Saad Hariri non abbia avuto, nel corso degli anni, la stessa verve e le stesse capacità di leadership del padre, Rafiq, di cui è l’erede politico; allo stesso tempo, Saad Hariri non è riuscito ad accreditarsi come indiscusso leader sunnita, prima di tutto, a causa della sostanziale incapacità di gestire l’impero imprenditoriale ereditato dal padre, impero che è stato ampiamente foraggiato dai sauditi. I legami della famiglia Hariri con l’Arabia Saudita sono solidi e stabili da anni. Rafiq Hariri, libanese di Sidone, era un uomo saudita, cresciuto in Arabia Saudita come imprenditore (dove aveva fondato il gruppo Oger) e incoraggiato, anche finanziariamente dei sauditi, a ritornare in Libano per investire nel processo di ricostruzione dopo la fine della Guerra Civile. L’Arabia Saudita, dunque, ha da sempre sostenuto la famiglia Hariri: la sostanziale incapacità di Saad Hariri di gestire il patrimonio familiare, però, ha fatto sì che i Principi sauditi lo abbiano più volte ripreso sulla gestione di questo impero economico, la cui consistenza è stata alimentata anche dalla stessa famiglia reale saudita (nel corso del 2011, per esempio, i Principi sauditi hanno rifiutato di ricevere Saad Hariri in Arabia Saudita proprio per mostrare la propria disapprovazione nei confronti del risultato delle sue attività economico-finanziarie in patria). Quindi, da una parte la mancanza di quelle qualità di leadership che avevano contributo all’ascesa politica del padre, dall’altra l’incapacità di gestire un patrimonio così ampio come quello ereditato, hanno fatto sì che né Saad Hariri né tantomeno il suo partito, divenissero, negli anni riferimenti per la comunità sunnita libanese. Quanto accaduto nel mese di novembre, dunque, sembrerebbe in linea di continuità con gli storici legami con l’Arabia Saudita ma anche, con un bisogno di ri-accreditamento nella politica nazionale in generale e nella comunità sunnita in particolare. Da questo punto di vista, quindi, le dimissioni hanno avuto l’effetto, forse indesiderato, di far recuperare a Saad Hariri e al suo partito al-Mustaqbal (la Corrente del Futuro), parte di quei consensi che, per le ragioni sopra espresse, aveva perso nel corso degli anni. Questo, va detto, anche a causa del rapporto ambiguo che Saad Hariri aveva avuto, dopo lo scoppio della crisi siriana, con gruppi radicali sunniti che, seppure assai lontani dal sunnismo imprenditoriale e neoliberale della dinastia Hariri, hanno, dopo il 2011, avuto un peso nel contribuire ad allargare la base più conservatrice di al-Mustaqbal necessaria al partito per riconquistare sostenitori utili a fargli acquisire nuova centralità nel panorama politico libanese.
Come si è visto, dunque, la situazione è molto fluida, e ritengo che non si possano non considerare queste complesse dinamiche interne e spiegando le dimissioni di Hariri soltanto come un processo manovrato dall’esterno o come la volontà saudita di porre un argine all’influenza iraniana in Libano.

 

Quali sono i rapporti di Hariri con la galassia sunnita di cui si propone come guida?
La questione delle dimissioni, quindi, potrebbe essere in parte collegata alla necessità di Hariri di riaccreditarsi in patria come nodo centrale della comunità sunnita: in parte ci è riuscito perché, grazie a questa mossa delle dimissioni, che certamente è stata anche sollecitata dallo storico alleato saudita (che in questi ultimi mesi ha subito grandi modificazioni degli assetti interni di gestione del potere), il partito di Saad Hariri, al-Mustaqbal (la Corrente del Futuro), ha parzialmente recuperato il consenso che, fino a quel momento, stava perdendo. Queste dimissioni, quindi, potrebbero contribuire a far riacquistare a Saad Hariri quella centralità politica che, negli ultimi anni, aveva perso.
Il sunnismo libanese, e in particolare la parte di cui gli Hariri si fanno portavoce, si rifà a quel sunnismo storico libanese che, nel 1945, aveva permesso la stipula del Patto Nazionale (un patto non scritto tra i cristiano maroniti e i musulmani sunniti): si tratta di un sunnismo di stampo laico, imprenditoriale, quasi liberale; si tratta di un sunnismo di avanguardia che, per molti anni, è sceso a patti con i leader delle altre comunità presenti nel Paese. Questo sunnismo laicheggiante è stato messo alla prova dopo il 2011 perché, a quel punto, anche se in maniera minoritaria, sono emersi in Libano dei gruppi sunniti più radicali che hanno messo in discussione questa modalità di gestire la comunità. È importante sottolineare questo aspetto perché questa ripresa e pretesa di centralità nella guida della comunità sunnita nel suo complesso, da parte di Saad Hariri, è anche un modo per tentare di riprendere il controllo su quei gruppi sunniti radicali, emersi in Libano dopo il 2011, ai quali lo stesso Hariri aveva in parte strizzato l’occhio utilizzandoli strumentalmente dopo lo scoppio della crisi siriana.
Il panorama politico libanese, in questo momento, è molto fluido, però non credo che si possano non considerare queste complesse dinamiche interne come è stato fatto in alcune analisi che vedono le dimissioni di Hariri soltanto come un processo manovrato dall’esterno e soltanto come la volontà saudita di porre un argine all’influenza iraniana in Libano. Penso si sia trattato di una questione molto più complessa, che non attiene tanto allo scontro tra sciiti e sunniti, ma che ha una dimensione interna attinente alla politica libanese.

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