lunedì, 20 Marzo
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Letizia Battaglia, fotoreporter tra bellezza femminile e antimafia

«Il mio mestiere è quello di documentare, poi se ci scappa la bella foto…..I morti di mafia? L’odore del sangue non mi ha più abbandonato. Una donna nuda è la vita, è una madre, è la terra e quindi aggiungo una foto di di rinascita ed una di morte».

In queste telegrafiche riflessioni, è racchiusa tutta  la vita professionale di Letizia Battaglia, la grande fotoreporter nata a Palermo il 5 marzo del 1935 e morta a Cefalù il 13 aprile scorso all’età di 87 anni. La fotografia è stata parte fondamentale del suo impegno civile e politico sempre dalla parte del mondo progressista e della lotta contro la mafia  di cui era divenuta un simbolo. Una realtà che lei si portava con dolore nel sangue. Nei giorni seguiti alla sua scomparsa la foto più riprodotta, divenuta iconica della sua attività, è quella di uno dei tanti crimini che hanno insanguinato la Sicilia: vittima Piersanti Mattarella, allora presidente della Regione Sicilia. Lei descriverà così quel tragico evento dell’Epifania del 1980: «È molto bello un uomo che si ricorda degli altri esseri umani. Quell’uomo, che avevo visto solo quando tirava fuori il corpo del fratello dalla macchina, adesso è Presidente della Repubblica. Avevamo fatto una decina di foto, io e Franco Zecchin. Oggi questa foto non è più la foto di allora, non è più mia, è entrata dentro la storia. Un Presidente della Repubblica che ha questo background non ci abbandona. Quello che non hanno fatto in precedenza gli altri, lo farà lui». E fra i molti attestati di stima giunti alle figlie di Letizia Battaglia, significativo il messaggio di vicinanza inviato proprio dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella alle figlie di Letizia, Cinzia, Shobha e Patrizia. A loro il capo dello Stato ha scritto di «ricordare commosso la figura della loro mamma».

Letizia Battaglia, era divenuta una fotoreporter di fama internazionale conquistando vari riconoscimenti tra cui il Premio ‘Eugene Smith’, il celebre fotografo di «Life», ricevuto a New York nel 1985. Si è interessata a tante cose della vita, le donne, la bellezza, ma l’etichetta che si è portata dietro in quarant’anni di lavoro con la Leica M2 è, e forse resterà: la ‘fotografa dell’antimafia’, che in verità le sta un po’ stretta. Le sue foto, rigorosamente sempre in bianco e nero, hanno documentato i delitti della criminalità e del sistema di corruzione politico e imprenditoriale ad essa collegato, che ha seminato fiumi di sangue e che incuteva paura.

Non solo nella sua Sicilia. Ha fotografato ovunque, ma c’era qualcosa di speciale che la legava alla Sicilia: «Ho fotografato in tutto il mondo, ma fuori da Palermo le foto mi vengono diverse. Qui c’è qualcosa che mi appartiene, o io forse le appartengo. Ho fotografato la cronaca di questa città, io non ho fatto arte, ho fatto un lavoro, duro, anche spietato, per diciannove anni. E nella cronaca c’era di tutto, processioni, partite di calcio, feste dei ricchi, mai un capodanno con la mia famiglia in diciannove anni! C’era la spazzatura nelle strade e il concorso delle miss, arrivava Mina e fotografavo pure lei. Anche a fotografare le ragazze in topless a Mondello mi mandavano. Ma a Palermo c’era la mafia, c’erano le vittime della mafia. E io ho fotografato anche quelle. Tante. Troppe da sopportare».

Tant’è che dopo l’assassinio del giudice Falcone il 23 maggio 1992, Letizia Battaglia si allontana dal mondo della fotografia legata alla cronaca – terribilmente nera –  stanca di tanta violenza. Si dedica ad altro, se ne va per un periodo a Parigi, ma per i media resterà sempre la fotografa dell’antimafia. Titolo assegnatole sul campo, dal tempo in cui iniziò a seguire con il cronista dell’Ora di Palermo gli omicidi di massa. Non era più una ragazzina, aveva 40 anni e si gettava senza risparmio di energie nel lavoro. Nonostante l’ostilità dei colleghi, quella biondina carina che portava gli zoccoli, si fece conoscere e  – grazie alla stima del direttore Vittorio Nisticò si conquistò uno spazio importante nel giornale e tanta stima delle persone, quelle impegnate socialmente, culturalmente e politicamente, ma anche della gente semplice, della quale si era occupata fin da piccola, quando si schierava dalla parte dei più bisognosi, con i suoi scarsi mezzi di bambina. Un giorno dirà che allora aveva capito che da grande avrebbe descritto raccontato e aiutato con le immagini (e non solo) quella parte della società più povera e bisognosa che le stava a cuore.

I suoi scatti lasciavano il segno, immagini crude, che raccontano la spietatezza degli uomini del crimine e del dolore. «Ma dietro ad ogni scatto» – diceva – «c’era un pensiero. C’è sempre un rapporto emotivo con la realtà che si osserva; spesso sbaglio esposizione, inquadratura: vado avanti lo stesso fino all’immagine giusta, giusta per me». Era il suo modo di praticare la fotografia, e non era un esercizio accademico, ma uno sguardo che affonda nella realtà e nella natura, spesso crudele, della società. Non amava fotografare gli uomininon mi vengono bene») quanto piuttosto le donne, nelle quali diceva di ritrovare sé stessa. E in quella sé stessa, c’era tanta vita vissuta. Spesso difficile. Aspra. AmaraCome gli anni giovanili della crescita, segnati dalla presenza di un padre-padrone, per sfuggire al quale, a soli 16 anni si sposa con un uomo assai più grande, che si rivelerà autoritario  e possessivo. Dalla loro relazione nascono tre figlie (Cinzia, Shobba e Patrizia Stagnitta). A 38 anni si riesce a divorziare e a conquistare quella libertà che le era sempre stata negata. Un atto non facile, quella rottura, quel cambio di vita che le richiederà due anni di analisi e un esaurimento nervoso che verrà  affrontato con la cura del sonno in una clinica svizzera. Avrebbe dovuto proseguire, secondo i medici, in una clinica palermitana, ma lei rifiuta e invece incontra quella che definisce ‘una persona strepitosa’, Francesco Corrao, psicanalista freudiano che la tiene in cura per due anni.

Nell’estate del ’69 si presenta all’Ora, importante testata giornalistica di Palermo, per lanciarsi nella sua grande passione: la fotografia. La dura cronaca la pone a contatto con terribili e  complicati fatti di violenza, come l’accusa per omicidio di una prostituta, da parte di un’altra. Ma quella terra tanto amata, le fa scoprire l’esistenza di un fenomeno che è penetrato nelle viscere della società, come l’esistenza di una ‘pizza mafia’. La sua vita professionale s’incrocia con quella privata e sentimentale, come la lunga storia d’amore con il fotografo Franco Zecchin.

Nel 1970 si trasferisce a Milano dove collabora con varie testate. Poi ritorna a Palermo dove crea, col compagno, l’agenzia ‘Informazione fotografica’, frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna. Sono gli anni di piombo che si intrecciano con i delitti della mafia. E lei intende informare l’opinione pubblica e scuotere le coscienze. Ritiene di trovarsi nel mezzo di una ‘guerra civile’Non solo i delitti di mafia, ma anche gli intrighi riesce a scovare e ritrarre gli esattori mafiosi (i fratelli Salvo) con Giulio Andreotti all’Hotel Zagarella. Le foto sono acquisite agli atti del processo. L’omicidio del giudice Terranova è un’altra delle foto simbolo, che vengono esposte in giro, attraverso mostre ambulanti, nelle piazze perché i siciliani vedano e sappiano.Talvolta nessuno si avvicina. O si diradano quando a Corleone tra le immagini appare quella di Luciano Liggio. Credevano che la mafia uccidesse i mafiosi. E invece – corrono gli anni Ottanta – cadono sotto i loro colpi oltre a Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie, la scorta, Rocco Chinnici e nel ’92, trent’anni fa!- Falcone e Borsellino. In un workshop tenutosi a Firenze dirà (così riferisce  Maria Grazia Dainelli, in una bella intervista su  Toscana Nuova), «il mio archivio era pieno di foto orribili legate alla morte e alla violenza, ero angosciata, sognavo di bruciare i miei negativi, feci perfino un piccolo film dove Serena, una mia amica attrice, bruciava e strappata le mie foto. Mi veniva da vomitare perché sentivo quell’odore di sangue perfino dentro casa». Poi Letizia racconta   ha un lampo: quello di collocare davanti ad una immagine di cronaca, un corpo di donna nudo, una bambina, un fiore, un modo per inventarmi un’altra realtà e spostare il ‘punctum’A tanta violenza, la reazione della parte sana della sua Sicilia segna la nascita della ‘Primavera di Palermo’. Anche lei è a fianco di Leoluca Orlando, su quell’onda civile e democratica, come assessore, consigliere, consulente.

Poi l’onda sembra disperdersi. Seguiranno attentati e stragi (quella dei Georgofili a Firenze,  vittime 5 persone tra cui una bimba). Alle domande dei giornalisti venuti da ogni parte del mondo sui tanti perché il fenomeno non è stato debellato, non trova adeguate risposte. Letizia è stanca, rivolge altrove il suo sguardo. Fonda con Simona Mafai la rivista bimestrale ‘Mezzocielo’, voluta da donne che racconta storie di donne. Nel 2003 lascia Palermo e se ne va a Parigi. Viaggiare, descrivere e mostrare le più diverse realtà umane, con i suoi scatti, è stato sempre uno dei suoi desideri, in buona parte realizzati. Si organizzano Mostre nei vari continenti delle sue foto, che la consacrano come una delle più significative fotoreporter del mondo e una delle più importanti donne del ‘900 italiano. Le sue foto sono il prodotto anche di un background culturale e poetico, perché – diceva – «un fotografo deve essere colto, consapevole del mondo. Se non legge libri, giornali, se non ascolta musica, se non ama l’arte, raramente le sue immagini saranno potenti». E lei di cultura  e poesia si era nutrita (Ezra Pound, Pasolini, James  Yoyce, Marguerite Yourcenar, e  i grandi  artisti).  Descrivere la bellezza era una delle sue vocazioni. A partire da quella femminile. E lei le donne, le ha descritte anche con affetto ammirazione, ma anche spirito critico, con i loro difetti e debolezze. Perché sono proprio le donne a rappresentare  quella parte di mondo incapace di creare guerre.

Quanto alla morte aveva dichiarato di non   considerarla. «Arriva? Arrivederci. Le mie figlie miei nipoti e pronipoti rimarranno: come le mie foto, che spero saranno una testimonianza della mia storia. Per cui non morirò». Di lei è attivo e vitale all’interno dei Cantieri Culturali della Zisa a Palermo, il Centro Internazionale di Fotografia, metà museo e l’altra metà scuola e galleria. La morte l’ha portata via mentre il regista Roberto Andò stava girando un documentario su di lei. La vedremo e ascolteremo ancora, come fosse qui tra noi.

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