Maya, oggi trentenne, è costretta a sposarsi dal padre e dai fratelli a 16 anni. Per molto tempo il marito la picchia e la insulta. E, una notte, tenta di ucciderla dandole fuoco. Sopravvive, partorisce una bambina, ma tuttora porta i segni delle ustioni e muove a fatica una mano. Quando il suo ‘carceriere’ muore, è nuovamente vessata dai famigliari, tra i quali anche le sorelle. In Nepal una vedova può essere ritenuta responsabile della scomparsa del coniuge.
Questa è solo una delle numerose storie raccolte dall’italiana Barbara Monachesi a Casa Nepal, rifugio per le donne nepalesi vittime di violenze nella capitale Kathmandu. Monachesi si è trasferita da Cesena nel Paese himalayano, a maggioranza indù, nove anni fa, dopo essere diventata avvocato. Ha iniziato ad assistere i bambini di strada che affollano i vicoli del centro, in collaborazione con un’organizzazione locale. Dopo aver studiato la lingua ed essersi immersa nella cultura e nelle difficoltà quotidiane del posto, ha assunto la direzione dei progetti di Apeiron, una Onlus italiana presente in Nepal dal 1996. Grazie al suo pragmatismo e alla sua sensibilità, Apeiron negli ultimi sette anni è cresciuta e intorno a Casa Nepal sono nati nuovi progetti dedicati a donne e bambini.
L’ultima campagna, intitolata ‘Uguali & Opposti’, affianca l’immagine di una donna italiana a quella di una donna nepalese della stessa età, ma in condizioni di salute, di diritti ed economiche lontanissime. Maya compare accanto a una trentenne milanese sorridente e scherzosa.
A Kathmandu è un pomeriggio di settembre quando raggiungiamo Monachesi al telefono: “Dobbiamo sentirci più tardi. Aspettavo una persona tre ore fa, ma è arrivata adesso“. Le giornate in sede sono frenetiche, i ritardi comuni e le telecomunicazioni precarie. La nostra telefonata sarà interrotta più volte. Tuttavia, Monachesi ci tiene a riportare a ‘L’Indro’ un dato non reperibile altrove e che lei ha recuperato dalla polizia: “Nella sola valle di Kathmandu, composta da tre distretti, ogni mese si contano 150 casi di violenze su donne e 20 suicidi di mogli, madri e figlie disperate. Sembra che gli abusi siano in crescita o, probabilmente, le denunce sono aumentate“.
Sebbene la polizia cominci a collaborare, essa resta lo specchio di una società patriarcale e contraddittoria. Monachesi spiega: “Le donne che denunciano e che arrivano da noi sono una minoranza. Ci vuole molta forza per affrancarsi da una mentalità che ti considera subordinata al maschio e che t’impone di stare con il marito qualsiasi cosa accada. I poliziotti tendono a convincere le donne a fare marcia indietro. Convocano il coniuge strappandogli la promessa che non maltratterà più la compagna. Gli fanno firmare una dichiarazione e gli dicono di ripresentarsi da loro periodicamente. Ma nessun marito torna. E’ una pratica inutile “.
Ci sono delle similitudini con quanto accade altrove, come in Italia, perché secondo la responsabile di Apeiron all’origine del ‘femminicidio’ (inteso dal Devoto Oli come «Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica») c’è il patriarcato, che ha radici storiche in tante civiltà, indiana, cinese, mongola, latina, semitica. In Nepal e nel Sud Est Asiatico, soprattutto in India, ad aggravare la condizione femminile contribuiscono la discriminazione per caste, la povertà, la scarsa istruzione, l’analfabetismo, l’instabilità politica, un sistema legislativo e un sistema giudiziario deboli.
Uno dei fenomeni più comuni nel Sud Est Asiatico è la migrazione interna dalle campagne alle città, che conduce milioni di persone con l’illusione di un futuro migliore a sopravvivere in condizioni precarie ai margini delle aree metropolitane. La valle di Kathmandu è una di queste, dove alcolismo, dipendenze da droghe e violenze sono all’ordine del giorno. Molti antropologi come Arthur Kleinman, direttore del centro studi sull’Asia di Harvard, dicono di non aver visto peggiore sofferenza di quella urbana, tipica del mondo contemporaneo.
Eppure in Nepal, dove un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà (con meno di un dollaro al giorno) e in un territorio prevalentemente rurale (83 per cento), i retaggi del patriarcato sono duri a morire anche fra i più ricchi e istruiti. “Ho visto molti benestanti e laureati piangere all’annuncio di una figlia femmina“, racconta Monachesi, madre di due bambine. “I nepalesi preferiscono il maschio non solo perché costituisce forza lavoro e non richiede una dote. Non ci sono statistiche, ma è noto che gli aborti di bambine sono diffusi in tutti gli strati sociali. Durante le ecografie della mia seconda gravidanza, si rifiutarono di dirmi il sesso. Per cautela, i medici nepalesi aspettano il settimo mese a dare dettagli sul nascituro“.
Un editoriale di ‘Nepali Times’ di due anni fa, «Slaughter of our unborn daughters», cita un’indagine condotta da Ramji Dahal, secondo cui la legalizzazione dell’aborto del 2007 ha prodotto molti effetti positivi, ma anche un picco scioccante nei feticidi. La proliferazione di cliniche dotate di ecografi permetterebbe più facilmente ai genitori, spesso della classe media, di porre fine alle gravidanze in caso si aspetti una femmina. Il settimanale denuncia che «ogni anno in Nepal le bambine a cui è impedito di nascere sono 50mila». E aggiunge: «La discriminazione delle ragazze in Nepal comincia prima che vengano alla luce. Una volta cresciute, sono stigmatizzate in famiglia e in società: scoraggiate dal frequentare la scuola, nutrite di meno, non portate in ospedale se malate, fatte sposare giovani, private della cittadinanza, abusate o trafficate, qualche volta dai loro stessi parenti».
E sono gli stessi genitori a combinare i matrimoni tra figli ancora bambini e a dare in spose le ragazzine a uomini adulti, nonostante la legge lo proibisca. L’ultimo censimento del 2011 stima che fra le spose 750mila abbia un’età compresa fra i 10 e i 14 anni, e circa la metà di esse fra i 15 e i 19. Le conseguenze delle nozze forzate, prevalenti nella comunità Dalit o ‘fuori casta’, sono drammatiche per le giovani: depressione, suicidi, gravidanze precoci con complicanze per la madre e per il bambino, relazioni coniugali violente, abbandono degli studi.
A partire dal 2006 il Nepal è transitato da un regime monarchico dispotico alla repubblica, lasciandosi alle spalle una guerra civile decennale, ma non è pressoché avanzato nella tutela dei diritti umani. “I problemi emergono nell’interpretazione della legge“, puntualizza Monachesi. “Ad esempio, la nuova legge sulla cittadinanza, uno dei pochi progressi di questo periodo, dice che padre e madre danno la cittadinanza alla prole, ma questa ‘e’ viene spesso interpretata come una ‘o’ “.
La maggiore libertà dei media, però, sta facendo emergere un nuovo dato inquietante: “Quasi tutti i giorni leggo notizie di stupri, aggiunge Barbara, anche se non esistono movimenti di protesta come in India. Non credo, inoltre, che otterranno mai giustizia o un risarcimento le donne violate durante la guerra fra esercito monarchico e guerriglieri maoisti. Anche i parenti dei cosiddetti ‘bepatta’, i ‘desaparecidos’ nepalesi, non hanno saputo più nulla dei loro cari scomparsi“. Negli ultimi otto anni si sono succeduti vari governi, ma nessuno di questi è stato in grado di redigere la nuova Costituzione repubblicana. Le promesse delle autorità sono sempre sfumate in un nulla di fatto.
Con amarezza Monachesi dichiara: “Sono convinta che qui la vita valga meno, soprattutto quella delle donne“. E’ un’affermazione che si sente dire spesso dagli operatori umanitari del mondo povero. Lo dimostra anche il fatto che alcuni genitori nepalesi vendano le figlie ai trafficanti di esseri umani. Lo fanno per ragioni economiche, cioè per evitare di pagare una dote, ma anche perché le femmine per loro non hanno dignità umana.
In Nepal, secondo l’ultimo rapporto della Nhrc (National Human Rights Commission), citato da ‘Asia News’, in un anno e mezzo il traffico di esseri umani è cresciuto del 60.34 per cento. Tra il 2012 e il 2013 le donne coinvolte erano 20mila, rispetto alle 11.500 del 2011. “Si presentano individui che si dicono disposti a sposare le ragazze senza dote. Le famiglie, pur sapendo che sono trafficanti, gliele consegnano“, insiste Monachesi. Il loro destino è prevedibile: vengono vendute nei ‘mercati’ indiani, come quello di Calcutta o, fenomeno più recente, sfruttate sessualmente in nightclub nel sud, al confine, per intrattenere i lavoratori indiani.
L’Occidente si è concentrato sulla discriminazione di genere nelle comunità musulmane, a volte a ragione, altre volte in modo strumentale. Al contempo, il mondo ricco ha generato stereotipi edulcorati sulle comunità indù e buddiste, dimenticando che anche senza un ‘burqa’ possono esserci limitazioni dei diritti. In Nepal le violenze sono comuni sia presso gli indù (81 per cento) che presso i buddisti (9 per cento). In realtà, le due fedi si mischiano frequentemente in un sincretismo di religioni e superstizioni. Ai piedi dell’Himalaya si crede ancora nelle streghe: “Un uomo con un problema alla pelle si recò da uno sciamano. Il curatore gli disse che in casa sua era stata fatta una stregoneria. La colpa ricadde inevitabilmente sulla moglie, che fu picchiata e cacciata“, ricorda Monachesi. “Per combattere queste credenze bisognerebbe partire dalle scuole, visto che sempre più bambini ci vanno. Non è semplice, però, perché per lavorare all’interno delle istituzioni pubbliche bisogna superare il muro della burocrazia“. Resta, inoltre, un divario secondo il censimento del 2011: dall’età di 15 anni in poi il 71 per cento dei maschi è alfabetizzato rispetto al 47 per cento delle femmine.